Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 18669 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 18669 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 09/07/2024
sul ricorso 4028/2020 proposto da:
COGNOME NOME, domiciliato ex lege in Roma, presso la cancelleria della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO COGNOME
– ricorrente –
contro
COMUNE RAGIONE_SOCIALE REGGELLO, elettivamente domiciliato in Roma, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO d FIRENZE n. 1517/2019 depositata il 20/06/2019i;
udita la relazione della causa svolta all’adunanza non partecipata del 30/05/2024 dal AVV_NOTAIO.
FATTI DI CAUSA
1.1. NOME COGNOME ricorre a questa Corte al fine di sentire cassare l’epigrafata sentenza con la quale la Corte d’Appello di Firenze, dal medesimo adita per ottenere la liquidazione dell’indennizzo dovutogli ai sensi dell’art. 42bis TUE a seguito dell’acquisizione sanante di una porzione di un fondo in comproprietà con altri destinato dal Comune di Reggelo a viabilità pubblica, ha proceduto a dar corso all’istanza liquidando la richiesta indennità in ragione della natura non edificabile del cespite ed in applicazione, in difetto di altri parametri utilizzabili, del criterio dei VAM.
In particolare la Corte, onde giustificare i propri assunti, ha considerato, da un lato, che l’indennità doveva essere commisurata tenendo conto della riscontrata inedificabilità che l’area interessata aveva al tempo della sua acquisizione alla mano pubblica «in quanto la valutazione del valore venale del bene ablato deve essere effettuata sulla scorta del vincolo conformativo esistente non al momento della irreversibile trasformazione pubblica del bene (in questo caso agosto 2012), bensì al momento successivo in cui interviene la c.d. “acquisizione sanante” con la quale si verifica il trasferimento della proprietà in favore della PA»; e dall’altro, che il principio del valore di mercato, ribadito dalla sentenza 181/2011 della Corte Costituzionale anche in relazione all’espropriazione delle aree agricole e non edificabili, non esclude che «non si possa continuare ad utilizzare il criterio del valore agricolo dell’area secondo la cultura in atto, o quella risultante dalla classificazione catastale, ogni qualvolta, come nel caso di specie, non esista alcuna possibilità legale di utilizzazione dell’area diversa da quella agricola, non esistendo possibilità di utilizzo intermedio tra l’utilizzazione agricola e quella edificatoria».
Il proposto ricorso si vale di due mezzi resistiti avversariamente da controricorso e memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
2. Il ricorso -alla cui cognizione non si frappongono le obiezioni pregiudiziali che vi muove controparte in ragione della loro inconferenza, giacché le questioni che vi sono sollevate ne prescindono totalmente -allega con il primo motivo la violazione e falsa applicazione dell’art. 42bis TUE in quanto la Corte d’Appello, disconoscendo l’edificabilità dell’area in questione, sarebbe incorsa in un duplice errore, da un lato considerandone la destinazione urbanistica conseguente alla sua trasformazione e non quella in vigore al momento del sorgere dell’uso pubblico, il che condurrebbe paradossalmente a ritenere che avendo ad oggetto un bene adibito sempre ad uso pubblico l’acquisizione sanante costituirebbe uno strumento alternativo all’espropriazione nelle forme ordinarie; dall’altro reputando che essa fosse incisa da un vincolo conformativo e non da un vincolo espropriativo quando al contrario dalla deliberazione municipale di acquisizione constava che si trattava di un’area puntuale e determinata, nel che era riconoscibile l’insistenza di un vincolo espropriativo di cui non si sarebbe dovuto tenere conto all’atto di determinare il valore espropriativo. E questo non senza anche denunciare, in rapporto ai valori di stima adottati, l’iniquità di comportamento del Comune che aveva venduto nella stessa zona aree di sua proprietà ad un prezzo manifestamente superiore al valore liquidato in sentenza.
Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
Infondato lo è nelle premesse di diritto.
È infatti convinzione diffusa nella giurisprudenza di questa Corte, che valorizza segnatamente in questa chiave la locuzione “non retroattivamente” che figura nell’art. 42bis , comma 1, TUE, che in
tema di acquisizione sanante, nell’ipotesi in cui la vicenda ablatoria sia riferibile direttamente al provvedimento acquisitivo adottato ai sensi dell’art. 42bis TUE il momento rilevante ai fini della determinazione dell’indennità dovuta è quello della adozione del decreto di acquisizione, sicché è a tale data, in cui si realizza la fattispecie traslativa, che deve essere condotta l’indagine sulla situazione urbanistica dell’area, non assumendo di conseguenza alcuna rilevanza quale fosse la destinazione di essa all’epoca della sua irreversibile trasformazione (Cass., Sez. I, 2/07/2021, n. 18780, in motivazione). E dunque, allorché ha proceduto a liquidare l’indennità di che trattasi in base alla destinazione urbanistica che l’area aveva acquistato in forza alla variante al Regolamento Urbanistico approvata il 12.2.2007 ed ancora in vigore al momento dell’acquisizione in sanatoria avvenuta con il citato provvedimento del 2015, prescindendo perciò dalla destinazione di essa all’atto in cui ne era avvenuta la trasformazione irreversibile, la sentenza in disamina si è esattamente attenuta a tale criterio e non si offre perciò a censura sul punto.
Poiché del resto essa va esente da censura anche laddove analogo criterio ha inteso osservare nel liquidare l’indennità, in ciò riflettendosi, del pari, un altrettanto consolidato indirizzo di questa Corte dell’avviso che l’acquisizione sanante obblighi la P.A. a corrispondere a titolo di indennizzo una somma pari al valore che il bene ha al momento dell’adozione dell’atto di acquisizione in sanatoria. Il provvedimento in parola è volto a ripristinare, ma solo con effetto ex nunc , la legalità amministrativa violata, sicché il valore venale delle aree da acquisire al patrimonio pubblico, ai fini del ristoro del pregiudizio patrimoniale per la perdita della proprietà, deve essere calcolato alla data di adozione del provvedimento acquisitivo. In altri termini, dall’irretroattività dell’acquisizione sanante prevista dall’art. 42bis TUE, consegue che il valore venale del bene, in base al quale
determinare l’indennizzo patrimoniale dovuto al proprietario ablato, deve essere quello riferito al momento dell’acquisizione del bene stesso (Cass., Sez. I, 26/03/2024, n. 8163, in motivazione).
Inammissibile il motivo invece si rivela laddove sollecita, in relazione alla natura del vincolo gravante sul bene oggetto di acquisizione e del calcolo dell’indennità liquidata dal decidente, una rimodulazione dell’apprezzamento in fatto dal giudice di merito, che è estraneo ai compiti istituzionali di questa Corte, non essendo essa giudice del fatto sostanziale e meno che mai giudice di terza istanza avanti al quale poter porre riparo alla pretesa ingiustizia della sentenza impugnata.
4. Il secondo motivo di ricorso allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 42bis TUE in quanto la Corte d’Appello aveva proceduto a liquidare l’indennità dovuta per l’acquisizione in sanatoria applicando nella specie il criterio dei VAM, quantunque ne fosse stata dichiarata l’incostituzionalità a favore del più equo criterio del valore di mercato.
Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
Infondato lo è intanto nelle premesse di diritto, posto che la sentenza 181 del 2011, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della norma che prevedeva l’adozione dei VAM per la liquidazione dell’indennità di esproprio relativi alle aree agricole e alle aree non suscettibili di classificazione edificatoria, non ha sancito sic et simpliciter l’illegittimità del criterio identificabile con il valore agricolo medio della coltura in atto o di quella più redditizia nella regione agraria di appartenenza -tanto che anche a seguito di detta declaratoria il criterio in questione si è ritenuto utilizzabile per liquidare l’indennità aggiuntiva dovuta al proprietario coltivatore diretto del fondo ai sensi dell’art. 17 l. 22 ottobre 1971, n. 865 (Cass., Sez. I, 24/04/2014, n. 9269) -, bensì ha inteso enunciare il diverso principio che anche in relazione a dette aree l’indennità debba porsi «in rapporto ragionevole con il valore del bene» e debba per questo
liquidarsi in base al valore venale di esso, perché solo questo criterio, in relazione alle caratteristiche specifiche del bene ablato, che i VAM non rappresentano se non in parte, si mostra in grado di assicurare quel serio ristoro dovuto in ossequio all’art. 1 del primo protocollo addizionale CEDU e all’art. 42 Cost. Dunque, non è argomentabile in ragione della richiamata dichiarazione di incostituzionale la totale espunzione dei VAM dal panorama dei criteri utilizzabili ai fini del calcolo dell’indennità.
Qui prende forma il rilievo in punto di inammissibilità giacché la censura che il motivo esprime non si accorda esattamente al tenore della decisione sul punto. La Corte d’Appello, come ben si evince dal passaggio motivazionale riportato in narrativa, ha fatto applicazione del criterio dei VAM non già perché non volesse attenersi alla predetta declaratoria di illegittimità, ma perché, rettamente interpretandola, e dovendo procedere ad una valutazione del valore venale del bene sulla scorta della constatazione in fatto che non esistesse «alcuna possibilità legale di utilizzazione dell’area diversa da quella agricola» e neppure la «possibilità di utilizzo intermedie tra l’utilizzazione agricola e quella edificatoria», ha ritenuto nell’esercizio della propria discrezionalità valutativa che il criterio dei VAM, proprio perché non espunto dall’ordinamento, costituisse un utile parametro di riferimento ed in tale direzione ha quindi coerentemente indirizzato il proprio giudizio.
Dolersene ora per le ragioni allegate dal motivo rappresenta una censura estranea al tessuto motivazionale e come tale non scrutinabile in questa sede per evidente difetto di specificità.
Il ricorso va dunque respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ove dovuto sussistono i presupposti per il raddoppio a carico del ricorrente del contributo unificato ai sensi del dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in favore di parte resistente in euro 7200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della I sezione civile il