Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 10081 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 10081 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 20422/2023 r.g. proposto da:
Comune di Castellana Grotte., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa giusta procura rilasciata su foglio separato dall’Avv. NOME COGNOME il quale dichiara di voler ricevere le notifiche e le comunicazioni relative al presente procedimento a ll’ indirizzo di posta elettronica certificata indicato, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio del dott. NOME COGNOME.
-ricorrente principale-controricorrente-
CONTRO
NOME e NOMECOGNOME rappresentati e difesi, giusta procura allegata al ricorso , dall’Avv. NOME e dall’Avv. NOME
COGNOME i quali dichiarano di voler ricevere le comunicazioni e notifiche relative al presente procedimento agli indirizzi di posta elettronica certificata indicati
-ricorrenti incidentali -controricorrenti-
avverso l’ordinanza della Corte di appello di Bari n. 2281/2023, depositata il 13/7/2023
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/4/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Per quel che ancora qui rileva, con delibera del consiglio comunale di Castellana Grotte n. 55 del 7/11/1961 veniva deliberata la costruzione del mercato coperto.
Seguiva la delibera di giunta del 10/2/1963.
Particolare rilievo assume il decreto del provveditore alle opere pubbliche n. 6024 del 7/4/1964, che fissa i termini di inizio e fine dell’esproprio di lavori, rispettivamente nelle date delle 10/2/1965 e 10/2/1967. Tale decreto aveva valore di dichiarazione di pubblica utilità.
I lavori interessavano il terreno di cui al foglio 21 particelle n. 25 e n. 3205 di proprietà di NOME COGNOME e NOME COGNOME cui succedevano i figli NOME COGNOME e NOME COGNOME
In data 19/6/1965 il Comune inviava al provveditorato regionale delle opere pubbliche una lettera di richiesta di proroga dei termini fissati nel decreto n. 6024 del 7/4/1964.
Con provvedimento del 25/9/1965 i termini venivano prorogati: per l’inizio lavori al 28/2/1966, per la fine dei lavori al 28/2/1968.
Veniva poi approvato il piano particolareggiato da parte della giunta comunale con delibera del 15/12/1965.
Il sindaco, con nota dell’11/3/1967, chiedeva al prefetto l’autorizzazione all’occupazione di urgenza ex art. 71 della legge n. 2359 del 1865, con la consegna del cantiere il 17/4/1967.
I lavori venivano ultimati il 30/11/1968.
Non veniva emesso il decreto di esproprio nel termine di legge.
Tuttavia, come emerge dalla sentenza del TAR Puglia n. 1446 del 2020, passata in giudicato, pur non essendo intervenuto il decreto di esproprio, tuttavia ai ricorrenti il Comune aveva pagato le indennità di esproprio ed occupazione dovuti alla data del 30/1/1970.
Il 3/4/1970 veniva emesso l’atto unico del collaudo, relazione, verbale di visita e certificato di collaudo.
Il PRG del Comune veniva approvato con delibera del 19/10/1989.
La giunta regionale con la delibera n. 2248 del 18/5/1995 inseriva le particelle n. 25 e n. 3205 nella zona di completamento B1., art. 24 NTA (Norme tecniche di attuazione).
Gli attori presentavano ricorso in data 24/9/2019 dinanzi al Tar Bari che, con sentenza n. 1446 del 16/11/2020 ordinava al Comune o di stipulare un accordo traslativo, oppure di emettere provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P .R. n. 327 del 2001.
Tale domanda – riguardante il risarcimento danni da occupazione illegittima – veniva accolta nei limiti dell’eccepita prescrizione di cinque anni dalla presentazione del ricorso.
Successivamente il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4790 del 22/6/2021, rigettava l’appello principale del Comune e accoglieva parzialmente l’appello incidentale dei COGNOME, rilevando che il Comune, prima di tutto, doveva valutare la possibilità di restituire gli
immobili; solo successivamente si poteva procedere con l’acquisizione sanante oppure con l’accordo traslativo.
Con la nota n. 18163 del 22/9/2021 il Comune proponeva un accordo traslativo, non accettato dagli attori.
Con la delibera di consiglio comunale n. 52 del 18/11/2021, notificato il 9/12/2021, il Comune disponeva l’acquisizione sanante dei terreni ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, per la somma complessiva di euro 319.876,54, di cui euro 257.400,00 quale valore del bene, euro 25.740, quale pregiudizio non patrimoniale, computato nel 10% del valore del bene, ed euro 97.812,00 per occupazione illegittima, pari al 5% del valore.
In data 22/9/2021 il sindaco formulava proposta di acquisto del bene, non accettata.
I ricorrenti proponevano ricorso per ottemperanza dinanzi al Consiglio di Stato.
Il 5/1/2022 gli attori proponevano ricorso dinanzi alla Corte d’appello avverso il provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, emesso dal consiglio comunale.
Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1748 dell’11 del 2022, dichiarava improcedibile l’azione per sopravvenuta carenza d’interesse, essendo nel frattempo intervenuto il provvedimento di acquisizione sanante, in data 18/11/2021.
Il 16/5/2022 il dirigente del Comune emetteva provvedimento di acquisizione sanante, negli stessi termini di cui alla delibera del consiglio comunale n. 52 del 18/11/2021.
I ricorrenti presentavano memoria integrativa nel giudizio già pendente dinanzi alla Corte d’appello.
La Corte d’appello di Bari, con ordinanza n. 2281/2023, depositata il 13/7/2023, determinava l’indennizzo da occupazione sanante in euro 293.348,00, l’indennità per occupazione illegittima,
decorrente dal 1/3/1968, data di scadenza della dichiarazione di pubblica utilità, al 18/11/2021, data di emissione del decreto di acquisizione sanante, in euro 715.591,33.
12.1. Per quel che ancora qui rileva la Corte territoriale, nell’impossibilità di reperire atti pubblici relativi a beni riconducibili allo stesso segmento di mercato, utilizzava per la stima del valore del terreno, il metodo di trasformazione.
Ipotizzava la demolizione del fabbricato esistente e la realizzazione di un nuovo fabbricato con destinazione residenziale.
Il metodo utilizzato consisteva nella «determinazione del valore di trasformazione dell’area edificabile, corrispondente alla differenza tra il valore di mercato dell’immobile da realizzare a lavori ultimati e il costo di trasformazione dell’area stessa, tenendo conto della zona territoriale di ubicazione, del volume complessivo realizzabile, della destinazione d’uso consentita, degli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione, dei tempi di realizzazione dell’intervento, del mercato immobiliare locale e degli utili di impresa».
In particolare, per quel che qui ancora rileva, il valore del bene derivava dall’attualizzazione del flusso di cassa generato dall’operazione di sviluppo immobiliare, sulla base dei ricavi attesi e della sommatoria dei costi.
Soprattutto con riferimento alla individuazione dei costi da sostenere per la trasformazione del bene, e si erano costituiti, tra l’altro, anche dal «costo di demolizione del fabbricato esistente e di trasporto e smaltimento in discarica».
Pertanto, all’esito del complesso calcolo, il valore della particella 25 era di euro 261.237,55, mentre quello della particella n. 3205 era di euro 5442,44, per un totale di euro 266.680,00.
La Corte territoriale condivideva tale stima in quanto «conforme ai principi giurisprudenziali in quanto la stima del suolo è stata calcolata in modo capillare sulla base di un attento studio delle caratteristiche del sito e dall’analisi del mercato immobiliare della città di Castellana Grotte».
La Corte d’appello, poi, rilevava che le osservazioni dei ricorrenti non erano condivisibili, essendo state peraltro confutate in sede peritale dal CTU.
Con riguardo alle osservazioni del CTP di parte attrice Ing. NOME COGNOME il CTU rilevava che «il costo di demolizione del fabbricato esistente rientra nei costi di trasformazione del bene».
12.2. Inoltre, la Corte territoriale prendeva le distanze dalla sentenza del giudice amministrativo, passata in giudicato, che aveva deciso in ordine alla domanda di risarcimento del danno da occupazione appropriativa, e che aveva accertato la maturazione della prescrizione del diritto al ristoro dell’occupazione illegittima che aveva durata quinquennale.
Rilevava, infatti, che trattavasi, nella fattispecie in esame, di un credito di diversa natura, dal carattere indennitario, credito che sorgeva «nel momento in cui viene disposta l’acquisizione sanante del bene ex art. 42bis TUESP, e non poteva, dunque, essere fatto valere precedentemente all’emanazione del decreto stesso sì da impedire, fino a tale momento, il decorso della prescrizione».
Pertanto, ad avviso della Corte d’appello, il calcolo dell’indennità da occupazione illegittima, convenzionalmente stimato nel 5% dell’indennità, doveva «coinvolgere l’intero periodo di illecita occupazione senza titolo dell’immobile da parte dell’amministrazione».
L’occupazione senza titolo era iniziata in data 1/3/1968, in quanto gli effetti dell’originaria dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera venivano prorogati sino al 28/2/1968, a seguito del decreto n. 18767 del 25/9/1965 del provveditore alle opere pubbliche per la regione Puglia ed era cessata con l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante, in data 18/11/2021.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso principale per cassazione il Comune di Castellana Grotte, spedito l’11/10/2023, con iscrizione a ruolo del 24/10/2023.
Successivamente proponevano ricorso per cassazione NOME COGNOME e NOME COGNOME in data 11/10/2023, ma con iscrizione a ruolo del 25/10/2023; divenendo tale ricorso incidentale.
Entrambe le parti resistevano con controricorso avverso i rispettivi ricorsi principale e incidentale, depositando memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei due ricorsi, principale ed incidentale Ex art. 335 c.p.c.
Ed infatti, per questa Corte la necessaria verifica dell’eventuale consumazione del diritto di impugnazione comporta che nell’ipotesi di contemporaneità nella redazione degli atti impugnatori di una parte, ricorso principale e ricorso incidentale al ricorso principale di controparte, deve farsi riferimento, ai fini di stabilire la priorità temporale di uno di essi, alla ricezione dell’atto di notifica al destinatario dello stesso, come ogni volta in cui non vengano in rilievo ipotesi di decadenza conseguenti al tardivo compimento di attività riferibili a soggetti diversi da chi richiede la notifica, ma conseguenze generali dipendenti dalla notifica, e nell’ipotesi di verificata contemporaneità delle notifiche deve darsi prevalenza al ricorso principale, con conseguente inammissibilità del ricorso incidentale (Cass., sez. 1, 12/6/2006, n. 13585).
Si è ritenuto che nei processi con pluralità di parti, la tempestività ex art. 370 c.p.c. dei ricorsi per Cassazione proposti autonomamente dopo il primo, che si convertono sempre in impugnazioni incidentali rispetto a quella principale, deve essere valutata non in relazione al ricorso principale che non sia stato notificato alla parte, ma con riguardo alla data dell’effettiva notifica del primo ricorso incidentale successivo a quello principale (Cass., sez. 1, 4/11/2019, n. 28259).
Pertanto, il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso. Tuttavia, quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (l’abbreviato e l’annuale) di impugnazione in astratto operativi. Detto termine decorre dall’ultima notificazione dell’impugnazione principale nel caso in cui tale impugnazione sia stata notificata anche alla parte che propone l’impugnazione incidentale (Cass., sez. 3, 12/10/2021, n. 27680; Cass., sez. 6-5, 19/12/2019, n. 33809; Cass., sez. L, 23 2015, n. 5695).
L’impugnazione proposta per prima assume carattere di effetti di impugnazione principale e determina la costituzione del procedimento, nel quale debbono confluire, con la natura ed effetti di impugnatura principale, e successive impugnazioni proposte contro la medesima sentenza dalle altre parti soccombente (Cass.,
sez. 3, 13/12/2011, n. 26723; Cass., sez. 3, 23/11/2021, n. 36057; Cass., Sez.U., 20/3/2017, n. 7074).
Nell’ipotesi in cui i due ricorsi risultano essere stati notificati nella stessa data, l’individuazione del ricorso principale e di quello incidentale va effettuata con riferimento alle date di deposito dei ricorsi, sicché è principale il ricorso depositato per primo, mentre è incidentale quello depositato per secondo (Cass., sez. 1, 4/12/2014, n. 25662).
Nella specie, come detto, il ricorso presentato dal Comune di Castellana Grotte pur essendo stato spedito lo stesso giorno del ricorso dei COGNOME, ossia l’11/10/2023, è stato però iscritto a ruolo il 24/10/2022, mentre il ricorso dei COGNOME è stato iscritto a ruolo il 25/10/2022, divenendo ricorso incidentale.
1.1. Con il primo motivo di ricorso principale il Comune deduce la «violazione dell’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 150/2011 in combinato disposto con l’art. 54 del decreto del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Violazione dell’art. 702bis e 702ter c.p.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Eccezione di inammissibilità dell’azione e della domanda proposta dinanzi alla Corte d’appello di Bari avverso la deliberazione del consiglio comunale di Castellana Grotte n. 52 del 18/11/2021. Eccezione di decadenza dall’azione di opposizione alla stima per mancata impugnazione del decreto n. 1 del 16/5/2022 emesso dal Comune di Castellana Grotte sensi dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 entro il termine di 30 giorni previsto dall’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 150 del 2011».
In sostanza, ad avviso del Comune ricorrente, sarebbe inammissibile l’opposizione alla stima presentata dai signori COGNOME avverso la deliberazione del consiglio comunale n. 52 del 18/11/2021, non avendo gli stessi impugnato anche il successivo
decreto dirigenziale n. 1 emesso il 16/5/2022, sempre per l’acquisizione sanante.
Tra l’altro, per il ricorrente si applicherebbe all’impugnativa del provvedimento di acquisire sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, il termine di 30 giorni dalla comunicazione del decreto ai sensi dell’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 150 del 2011 e dell’art. 54 del d.P.R. n. 327 2001.
Dovrebbe dunque essere pronunciata una sentenza di cassazione senza rinvio, ai sensi dell’art. 382, 3º comma, c.p.c.
Per il ricorrente l’unico provvedimento idoneo per la acquisizione sanante era quello di cui al 16/5/2022 emesso dal capo del settore V del Comune di Castellana Grotte.
Tra l’altro, i ricorrenti avrebbero impugnato la determinazione del 16/5/2022 attraverso un ricorso ‘integrativo’, all’interno dell’opposizione già presentata avverso la delibera del consiglio comunale n. 52 del 18/11/2021.
Era peraltro irrituale il giudizio già instaurato dinanzi alla Corte d’appello avverso la mera delibera del consiglio comunale.
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la «violazione degli articoli 2935 e 2947 c.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Violazione dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001. Violazione dell’art. 2909 c.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, c.p.c. Insufficiente motivazione della sentenza sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. Omessa ed insufficiente motivazione della sentenza ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. Motivazione contraddittoria ed erronea».
L’errore commesso dalla Corte d’appello si rinviene, ad avviso del ricorrente principale, nell’affermazione per cui il credito derivante dall’acquisizione sanante, in ordine all’occupazione illegittima, non poteva essere fatto valere «precedentemente all’emanazione del
decreto stesso sì da impedire, fino a tale momento, il decorso della prescrizione».
La Corte territoriale, sempre erroneamente a giudizio del ricorrente, ha poi concluso nel senso che «il calcolo dell’indennità, convenzionalmente mediante il 5% dell’indennità, deve coinvolgere l’intero periodo di illecita occupazione senza titolo dell’immobile da parte dell’amministrazione».
L’occupazione senza titolo era iniziata in data 1/3/1968 ed era cessata solo con l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante del 18/11/2021.
Per il ricorrente il risarcimento da illegittima occupazione, a prescindere che sia dovuto a titolo di danno patrimoniale ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, oppure consegua ad un’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c., troverebbe comunque la propria genesi del medesimo fatto generativo, costituito dall’occupazione illegittima, sicché «le regole dettate in materia di prescrizione esplicano i loro effetti in entrambe le fattispecie».
Si sarebbe in presenza, comunque, di un illecito permanente che si compone di una voce, quella relativa all’occupazione, che si rinnova di anno in anno e che quindi, come tale, è soggetta a prescrizione se il soggetto legittimato non esercita il relativo diritto entro il termine di cinque anni decorrenti da ciascuna annualità.
Sarebbe errata allora la decisione della Corte d’appello nella parte in cui ha ritenuto non maturata la prescrizione, in quanto gli attori proprietari non avrebbero potuto far valere i propri diritti precedentemente all’emanazione del decreto di acquisizione sanante.
Al contrario, l’emanazione del decreto di espropriazione sanante non era il momento dal quale il diritto all’indennità da occupazione illegittima poteva essere fatto valere, ma era proprio il momento in
cui «detto diritto cessa di esistere in quanto, con l’acquisizione legittima del bene, cessa lo stato di occupazione illecita di suolo».
Tra l’altro, il giudice amministrativo pronunciatosi sul punto ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, per il medesimo «fatto illecito», nei limiti «della prescrizione quinquennale».
Il credito è sorto prima dell’acquisizione sanante dei beni e poteva essere fatto valere già prima che il Comune emanasse il provvedimento di acquisizione ex art. 42bis del d.P .R. n. 327 del 2001.
Inoltre, la sentenza del Tar, avrebbe forza di giudicato, in quanto confermata dal Consiglio di Stato, e per tale ragione «non può non spiegare i propri effetti anche nel procedimento ex art. 42bis cit., in quanto l’indennità liquidata nel decreto si fonda sui medesimi presupposti della pretesa risarcitoria già risolta dal Giudice Amministrativo».
Con un unico motivo di ricorso incidentale i NOME deducono la «violazione e/o elusione degli articoli 32,37 e 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001. Violazione e/o elusione dell’art. 936 c.c. (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.)».
Per il ricorrente incidentale sarebbe erronea la decisione della Corte d’appello, laddove confermando le conclusioni del CTU, nel valutare il valore dei terreni, utilizzando il metodo di trasformazione, ha inserito tra i costi anche quelli di cui alla «demolizione dell’attuale fabbricato».
È chiaro che poiché il valore del terreno è determinato dalla differenza tra il valore di mercato dell’immobile da realizzare a lavori ultimati e il costo di trasformazione dell’area, «minori costi di trasformazione comportano una maggiore differenza con il valore del nuovo immobile realizzato, e, quindi, un maggiore valore da considerare ai fini della determinazione ponderata dell’indennizzo».
La decisione della Corte d’appello si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza di legittimità per cui «nella determinazione del valore venale dell’immobile da acquisire non si deve tenere conto delle opere sullo stesso eventualmente realizzate» (si cita Cass. n. 9871 del 13/4/2023).
In caso contrario, il danneggiato si farebbe carico dei costi di rimozione dell’opera abusivamente realizzata dal danneggiante, con indebito arricchimento di quest’ultimo.
Il primo motivo di ricorso principale del Comune è infondato.
4.1. Invero, risulta pacificamente tra le parti che il Comune di Castellana Grotte ha emesso due provvedimenti di acquisizione di sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
Dapprima è stato emesso dal consiglio comunale il provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P .R. n. 327 del 2001.
Si tratta del provvedimento n. 52 del 18/11/2021 («deliberazione di consiglio comunale n. 52 del 18/11/2021 Esecuzione sentenza del Consiglio di Stato n. 4790/2021. Acquisizione sanante al patrimonio indisponibile del Comune, ai sensi dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327/2001 e s.m.i., e dell’art. 42, comma 2, lettere b) e l), del d.lgs. n. 267/2000».
Successivamente il responsabile del settore V, Urbanistica, Opere pubbliche, del Comune di Castellana Grotte, ha emesso il decreto n. 1 del 16/5/2022 («decreto di acquisizione sanante di cui all’art. 42bis del d.P.R. n. 327/2001 e s.m.i. dell’area censita in catasto fabbricati del Comune di Castellana Grotte»).
I ricorrenti hanno impugnato esclusivamente il primo provvedimento n. 52 del 18/11/2021 emesso dal consiglio comunale, quale acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
La competenza ad mettere il provvedimento di acquisizione sanante era però proprio quella del consiglio comunale, ai sensi dell’art. 42 del d.lgs. n. 267 del 2000, il quale prevede, al comma 2, che «il consiglio ha competenza limitatamente seguenti atti fondamentali: l) acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscono mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari».
Va data continuità al principio di diritto, enunciato da Cass. 35287 del 2023 all’esito di pubblica udienza, secondo cui il termine perentorio previsto dall’art. 54, comma 2, del d.P.R n. 327 del 2001 e, successivamente, dall’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 150 del 2011, per l’opposizione alla stima definitiva dell’indennità di esproprio, non è applicabile alla contestazione relativa alla determinazione dell’indennizzo contenuta nel provvedimento acquisitivo adottato a norma dell’art. 42-bis del d.P.R n. 327 del 2001, con la conseguenza che il soggetto attinto dal decreto di acquisizione ha facoltà di contestare la liquidazione e chiederne la determinazione giudiziale nel termine ordinario di prescrizione; infatti, l’art. 29 citato, pur essendo successivo, non effettua alcun rinvio al precedente art. 42-bis del menzionato d.P.R n. 327, non risultando peraltro, in ogni caso, consentite interpretazioni estensive e analogiche di norme che condizionano l’esercizio del diritto di azione con riferimento a termini di decadenza e inammissibilità non specificamente previsti dalla legge; al contempo, se la comune natura indennitaria del credito pecuniario dell’espropriato e del soggetto attinto dal decreto di acquisizione può valorizzarsi per giustificare la giurisdizione ordinaria e la competenza funzionale
della Corte d’appello, quale giudice delle indennità in materia, ciò non consente di superare le diversità strutturale dei relativi procedimenti amministrativi.
Il secondo motivo di ricorso è, invece, fondato.
5.1. Esplica, sul punto, efficacia di giudicato la sentenza del Tar Bari n. 1446 del 16/11/2020, poi confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4790 del 22/6/2021, con la quale si è accertata l’intervenuta prescrizione quinquennale con specifico riferimento all’occupazione illegittima dei fondi a seguito di occupazione appropriativa, e quindi a titolo di risarcimento del danno.
In ordine alla maturata prescrizione vi è il giudicato amministrativo e, comunque, in relazione all’indennità di occupazione in presenza di acquisizione ex art. 42bis legittimamente può essere proposta l’eccezione di prescrizione quinquennale per il periodo antecedente, come accaduto nella specie (cfr. Cass 25707/24).
Nel giudicato amministrativo si legge quanto segue: «La domanda risarcitoria deve essere accolta e, per l’effetto, devono essere riconosciuti ai ricorrenti – nei limiti dell’eccepita prescrizione (cioè a decorrere dal quinto anno antecedente la proposizione del ricorso in epigrafe, con il quale per la prima volta è stato chiesto un risarcimento da occupazione illegittima) – i ristori risarcitori per l’occupazione illegittima del suolo, da liquidarsi con i criteri fissati dallo stesso art. 42bis T.U. Espropriazioni». Il giudice amministrativo non ha stabilito una soluzione di continuità, ma ha affermato che l’importo che si sarebbe dovuto liquidare ai sensi dell’art. 42bis , prescrivendone l’adozione in alternativa all’accordo, doveva contemplare l’eccepita prescrizione.
Pertanto, nel peculiare caso in esame, è inevitabile che il giudicato formatosi dinanzi al giudice amministrativo sulla richiesta
di risarcimento dei danni per l’occupazione illegittima – nell’ambito della controversia per occupazione appropriativa – spieghi effetti anche nel presente giudizio di determinazione dell’indennizzo da acquisizione sanante, con riguardo alla voce di ristoro costituita dalla medesima occupazione illegittima.
5.2. Tra l’altro è pure erronea l’affermazione della Corte d’appello per cui il diritto all’indennizzo da occupazione illegittima, in caso di emanazione di provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, si innesti, per l’individuazione del termine di computo della prescrizione, solo a partire dall’emanazione di tale provvedimento.
La Corte d’appello ha ritenuto erroneamente che il credito sorgeva nel momento in cui veniva disposta l’acquisizione sanante «e non poteva, dunque, essere fatto valere precedentemente all’emanazione del decreto stesso sì da impedire, fino a tale momento, il decorso della prescrizione».
Ha concluso dunque la Corte d’appello nel senso che «il calcolo dell’indennità, convenzionalmente mediante il 5% dell’indennità, deve coinvolgere l’intero periodo di illecita occupazione senza titolo dell’immobile da parte dell’amministrazione», reputando erroneamente che prima dell’adozione del provvedimento di acquisire sanante era impedito il decorso della prescrizione.
La Corte d’appello ha dunque calcolato il diritto di credito da occupazione illegittima a decorrere dal 1/3/1968, data in cui scadeva l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, già prorogata sino al 28/2/1968.
Non si può non ricordare il principio di diritto di cui alla giurisprudenza di questa Corte, sezioni unite, n. 735 del 19/1/2015, per la quale l’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte della P.A., allorché il decreto di esproprio non sia
stato emesso o sia stato annullato, integra un illecito di natura permanente che dà luogo ad una pretesa risarcitoria avente sempre ad oggetto i danni per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale il privato ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal bene sino al momento della restituzione, ovvero della domanda di risarcimento per equivalente che egli può esperire, in alternativa, abdicando alla proprietà del bene stesso.
Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento del bene, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente (Cass. n. 735 del 2015).
6. Merita accoglimento anche il ricorso incidentale dei proprietari. Invero, effettivamente il CTU nominato dalla Corte d’appello, che ha aderito completamente alle sue conclusioni, ha commesso un errore nel computo del valore degli immobili oggetto di causa.
Infatti, pur utilizzando correttamente il metodo analitico, e non quello sintetico-comparativo, in assenza di elementi di comparazione, ha calcolato il valore dei terreni attraverso il valore di trasformazione dell’area edificabile, corrispondente alla differenza tra il valore di mercato dell’immobile da realizzare a lavori ultimati è il costo di trasformazione dell’area stessa, inserendo però tra i costi anche quelli di demolizione.
Ed infatti, il valore del bene deriva dall’attualizzazione del flusso di cassa generato dall’operazione di sviluppo immobiliare, sulla base dei ricavi attesi e della sommatoria dei costi da sostenere per realizzare la trasformazione, attraverso un appropriato tasso di attualizzazione che tiene conto delle componenti finanziarie e del rischio imprenditoriale dell’operazione.
Quanto ai ricavi attesi si è fatto riferimento al segmento di mercato nella zona di intervento; sono stati ipotizzati i tempi di progettazione e di rilascio dei titoli edilizi; quanto al tasso di attualizzazione si è fatto riferimento al saggio utilizzato per portare all’attualità i flussi di cassa sviluppati nell’arco dell’operazione immobiliare. Si è tenuto conto, dunque, da un lato del rendimento di un investimento alternativo privo di rischio e, dall’altro, della remunerazione del rischio proprio dell’operazione.
Tuttavia, dal lato passivo – da scomputare ai ricavi – si è inserito tra i costi da sostenere per la trasformazione del bene, oltre i costi di realizzazione dell’edificio di nuova costruzione, agli oneri da corrispondere al Comune per il rilascio dei titoli edilizi, alle spese tecniche generali, ed alle spese di commercializzazione, anche il «costo di demolizione del fabbricato esistente e del trasporto e smaltimento in discarica».
In tal modo, però, il ragionamento del CTU e conseguentemente quello della Corte d’appello che ne ha condiviso le conclusioni, pur a fronte di espresse contestazioni da parte del consulente di parte attrice, come risulta dall’ordinanza della Corte d’appello impugnata, impatta contro la giurisprudenza di legittimità per la quale il valore delle opere realizzate sull’immobile va scomputato dall’indennizzo (Cass., sez. 1, 13/4/2023, n. 9871; anche Cass. n. 6622 del 2005; Cass., n. 25707 del 2024).
Si è chiarito, infatti, che, in linea generale, l’art. 42bis del d.P.R. n. 327 2001, dove stabilisce al comma 3 che l’indennità sia commisurata «al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità», l’espressione «utilizzata» vale solo ad individuare il bene oggetto della misura indennitaria, «ma non certo a legittimare che venga ricompreso nel valore del bene anche quello dell’opera
pubblica su di essa realizzata, non dal privato ma dalla pubblica amministrazione».
Quello che rileva è allora «il valore intrinseco del bene occupato e trasformato», all’interno del quale non può essere inglobato anche il valore delle opere realizzate dalla pubblica amministrazione, il quale va dunque scomputato dal calcolo dell’indennizzo, così da evitare che quest’ultimo si traduca in un indebito arricchimento del privato ed una altrettanto indebita duplicazione di costo per l’amministrazione, la quale, dopo avere realizzato le opere a proprie spese, dovrebbe rimborsarne il valore al proprietario del bene occupato a tal fine, senza poter beneficiare dell’indennizzo previsto dall’art. 936 c.c. per l’ipotesi – alternativa alla acquisizione – della restituzione del bene nello stato in cui si trova dopo la trasformazione.
Questa Corte ha poi osservato che l’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, comma 3, richiama, in ordine alla quantificazione dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale, l’art. 37, commi 3,4,5,6 e 7.
L’art. 37 comma 4, a sua volta, fa riferimento all’applicazione dell’art. 32, comma 1; quest’ultimo stabilisce che l’indennità di espropriazione va determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell’accordo di cessione o alla data dell’emanazione del decreto di esproprio.
Precisa, poi, che vanno valutati a tale fine i vincoli di qualsiasi natura non aventi natura espropriativa e, quindi, i vincoli conformativi, ma «senza considerare gli effetti del vincolo preordinato all’esproprio e quelli connessi alla realizzazione dell’eventuale opera prevista, anche nel caso di espropriazione di un diritto diverso da quello di proprietà o di imposizione di una servitù».
In sostanza, per questa Corte, «gli effetti connessi alla realizzazione dell’opera pubblica non vanno considerati né in diminuzione né in accrescimento del valore venale del bene».
Applicando tali principi alla fattispecie in esame, è ineludibile che nel computo del valore dei terreni, anche facendo applicazione del criterio del valore di trasformazione, dai ricavi conseguibili in base ai flussi di cassa devono essere sottratti ai costi, ma con esclusione di quelli relativi alla demolizione del bene costruito sull’area illegittimamente occupata.
E’ vero, dunque, che ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio, il metodo sintetico – comparativo, che si avvale delle indicazioni costituite dal prezzo pagato per immobili omogenei, non è prescritto dalla legge, che non detta criteri vincolanti di valutazione; ben può il giudice, in assenza di elementi idonei di raffronto, adottare il metodo analitico – ricostruttivo, corrispondente al prezzo che un eventuale acquirente sarebbe disposto a sborsare indipendentemente dall’andamento del mercato, e nella determinazione di questo, l’obiettivo è il valore di trasformazione del suolo, che risulta dalla differenza tra probabile valore venale dell’edificio costruibile sull’area interessata e probabile valore di costo dello stesso edificio. Ne consegue l’incensurabilità della sentenza di merito che, con motivazione logica e basata su dati obiettivi, ritenga non praticabile il metodo sintetico – comparativo, e proceda alla valutazione fondata sul metodo analitico (Cass., n. 9207 del 1999).
Tuttavia, nella acquisizione sanante non può essere tenuta in considerazione l’opera illecitamente realizzata dalla P.A., né in diminuzione né in accrescimento del valore del bene.
7. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in ordine motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Bari, in diversa
composizione, che provvederà anche sulla determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il secondo motivo di ricorso principale; rigetta il primo motivo; accoglie il ricorso incidentale;
cassa la sentenza impugnata in ordine motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulla determinazione delle spese di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 10 aprile 2025