Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 8835 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 8835 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 03/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 27777/2021 r.g. proposto da:
Comune di Pontecagnano Faiano, in persona del sindaco e legale rappresentante pro tempore, AVV_NOTAIO, giusta procura speciale alla lite, ed in virtù di delibera della giunta comunale n. 199 del 7/10/21, e determina del responsabile dell’avvocatura comunale n. 1262 del 20/10/21, dall’AVV_NOTAIO, elettivamente domiciliato in Roma, presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione.
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME NOME COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO, in virtù di procura speciale in calce al controricorso, il
quale elegge domicilio digitale al seguente indirizzo pec EMAIL.
– controricorrenti –
E
COGNOME NOME e COGNOME NOME
-intimate- avverso la sentenza della Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE n. 397/2021, depositata in data 26 marzo 2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/3/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOMEAVV_NOTAIO ;
RILEVATO CHE:
NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME citavano in giudizio ex art. 702-bis c.p.c. il Comune di Pontecagnano Faiano deducendo: di essere comproprietari di un’area sita nel comune; di aver stipulato «un contratto preliminare di cessione volontaria della stessa area», a seguito «dell’approvazione del progetto definitivo per la realizzazione di un parcheggio ed adeguamento della viabilità della zona circostan il museo archeologico nazionale; che era stato convenuto il corrispettivo di euro 1.500.000,00, «nonché la misura dell’indennità di occupazione, pari ad euro 10.000,00 mensili con decorrenza dalla data del verbale di immissione nel possesso; che l’accordo era stato sospensivamente condizionato all’inserimento dell’intervento nel programma triennale opere pubbliche 2012/2014, adottato con delibera del consiglio comunale n. 6 del 30/5/2012 e successivamente confermato; che in data 12 luglio 2012 era intervenuta l’immissione nel possesso
dell’area da parte del Comune; che questi si era reso inadempiente nella corresponsione dell’indennità di occupazione e nella stipulazione del contratto definitivo.
Pertanto, gli attori avevano chiesto «l’adempimento dell’obbligo a contrarre con il pagamento del dovuto e la corresponsione RAGIONE_SOCIALE indennità di occupazione».
Il Comune si costituiva deducendo l’impossibilità di stipulare il contratto definitivo per la mancanza del parere favorevole della RAGIONE_SOCIALE nonché per l’operatività della nuova normativa di cui alla legge 228 del 2018. Inoltre, richiamava l’art. 8 «dell’accordo preliminare» che sanciva «la nullità del contratto nel caso in cui l’atto di cessione non fosse intervenuto entro il febbraio del 2013 per fatti non imputabili all’Amministrazione RAGIONE_SOCIALE».
Il tribunale di RAGIONE_SOCIALE con sentenza n. 5301 del 2017, depositata il 14/7/2017, dichiarava il proprio difetto di giurisdizione, ai sensi dell’art. 113, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 104 del 2010, con riferimento alla domanda di adempimento del contratto preliminare, mentre accoglieva parzialmente la richiesta di corresponsione dell’indennità di occupazione, «in considerazione di quanto concordato tra le parti ed essendo il Comune, al momento della proposizione della domanda giudiziale, ancora in possesso del bene».
Pertanto, poiché l’art. 6 «dell’accordo preliminare» prevedeva l’indennità mensile di euro 10.000,00, ed il verbale di immissione nel possesso era intervenuto il 12/7/2012, il Comune doveva pagare la somma di euro 350.000,00, oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo.
Proponeva appello il Comune con riferimento all’intervenuta condanna al pagamento dell’indennità di occupazione in quanto il
tribunale, dopo aver sollevato l’RAGIONE_SOCIALE la questione sul difetto di giurisdizione in ordine alle eccezioni sollevate dalle parti «riguardo alla validità ed agli effetti giuridici dell’accordo preliminare di cessione», non avrebbe potuto decidere alcun aspetto della controversia relativa alla validità ed efficacia dell’accordo contrattuale.
Inoltre, aggiungeva che il tribunale «avendo qualificato l’accordo preliminare come atto di espressione dell’esercizio della pubblica funzione dell’ente, dichiarando il difetto di giurisdizione in ordine alle eccezioni circa la validità ed efficacia dell’accordo, aveva poi erroneamente e contraddittoriamente condannato l’ente al pagamento RAGIONE_SOCIALE somme indicate (euro 350.000,00), ex art. 6 per il cui sindacato di validità aveva affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa».
Neppure vi era alcuna motivazione su fatto che il tribunale avesse esaminato incidentalmente il contenuto degli atti amministrativi e dell’accordo preliminare intervenuto.
I ricorrenti si costituivano nel giudizio d’appello, evidenziando che «avevano diritto all’indennità essendo intervenuta l’occupazione a prescindere dalla validità e/o efficacia dell’accordo».
Inoltre, deducevano che, al momento della domanda giudiziale, il comune era ancora in possesso del bene.
6. La Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE rigettava il ricorso rilevando che, in realtà, il tribunale non si era in alcun modo espresso in ordine alla validità ed all’efficacia dell’accordo, ma si era limitato a rilevare il difetto di giurisdizione in ordine alla domanda di adempimento «dell’obbligo a contrarre (sotto condizione) contenuto nell’accordo preliminare del 24/4/12».
Il giudice di prime cure aveva deciso in ordine alla domanda di pagamento dell’indennità, senza affrontare «la problematica
inerente l’efficacia e/o validità dell’accordo», affermando che «parte ricorrente ha richiesto l’adempimento dell’obbligo a concludere il contratto definitivo di cessione volontaria, nonché la corresponsione dell’indennità di occupazione nella misura concordata nell’accordo preliminare».
Tra l’altro, dalla motivazione della sentenza di prime cure ove era stata «implicitamente riconosciuta la piena validità ed efficacia della norma di cui all’art. 6 dell’accordo», e dalla lettura degli atti processuali, emergeva «che al momento della proposizione della domanda giudiziale (18/6/15) il comune era ancora in possesso dell’area e che nulla aveva dedotto e provato in merito al pagamento RAGIONE_SOCIALE indennità nei termini e modi previsti dalla norma relativa (art. 6)».
Pertanto, «avendo assunto come pienamente validi gli atti amministrativi presupposti all’accordo ed avendo altresì ritenuto pienamente valido l’accordo, il tribunale non aveva nessuna necessità e/o obbligo di motivare sul punto».
La dedotta nullità da parte del Comune «sulla base dell’art. 8 dell’accordo ineriva alla stipula dell’atto di cessione volontaria per mancanza del parere della Sovraintendenza», sicché «in nessun modo la somma dovuta poteva essere ancorata ad un dedotto indennizzo di diversa e minore entità, poiché essendo incontestata la circostanza dell’immissione nel possesso, secondo la previsione dell’art. 50 del d.P.R. 327/2001, richiamato nell’art. 6 dell’accordo, la misura RAGIONE_SOCIALE indennità dovute non poteva che essere ancorata a quella norma».
Inoltre, la redazione e sottoscrizione del verbale di immissione in possesso comportava la costituzione del godimento del possesso esclusivo in capo all’ente RAGIONE_SOCIALE aree oggetto di occupazione.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Pontecagnano Faiano.
Hanno resistito con controdeduzioni NOME Del COGNOME e NOME COGNOME.
Sono rimasti intimati NOME COGNOME e NOME COGNOME.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce «error in iudicando (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) – violazione e falsa applicazione di legge (art. 50, d.P.R. n. 327 del 2001: articoli 1418 e 1419, c.c.)».
In particolare, la Corte d’appello sarebbe incorsa in errore nel confermare la decisione del tribunale, avendo accolto la pretesa degli attori che, invece, doveva essere disattesa perché fondata su di un «atto preliminare di accordo per la cessione di aree», affetto da nullità «nella parte in cui fissa l’importo dell’indennità di occupazione temporanea (euro 10.000,00 mensili) in violazione dei criteri imperativi espressamente prescritti dal d.P.R. n. 327 del 2001».
Per giurisprudenza di legittimità, infatti, la determinazione del prezzo di cessione e del valore dell’indennità di occupazione temporanea è contenuta in norme di legge imperative.
La cessione volontaria, essendo caratterizzata dalla inderogabilità RAGIONE_SOCIALE regole sulla determinazione dell’indennità, ove faccia riferimento ad un prezzo che sia stato ricavato dall’amministrazione, non sulla base dei criteri legali, ma in violazione RAGIONE_SOCIALE norme imperative, resterebbe priva di ogni efficacia negoziale pubblicistica.
Nella specie, «l’Atto sottoscritto tra le parti» sarebbe nullo «(quantomeno) nella parte in cui fissa l’importo della «indennità di occupazione temporanea» sulla base di accordo intervenuto tra le parti in clamorosa violazione degli imperativi parametri/criteri di
quantificazione fissati dalla legge», ai sensi dell’art. 22bis , comma 5, e 50, comma 1, d.P.R. n. 327 del 2001.
Tra l’altro, l’RAGIONE_SOCIALE, avrebbe quantificato, in apposita relazione di stima, il valore complessivo del mercato (valore venale) dei terreni in questione per un importo pari ad euro 270.000,00, laddove, invece, «nel preliminare sottoscritto dalle parti litiganti è stata prevista un’indennità di esproprio di euro 1.500.000,00 (quasi 6 volte il valore di mercato del terreno) ed una indennità di occupazione di euro 10.000,00 mensili, clamorosamente superiore a quella che – in ossequio a quanto previsto dal sopra richiamato art. 50, comma 1, del T.U. espropriazioni- andava invece quantificata/pattuita in un importo non superiore ad euro 22.500 anni (ossia 1/12 del valore di mercato dei terreni) e, dunque, ad euro 1875,00 mensili».
Tale motivo di censura, sebbene non articolato tempestivamente nei precedenti gradi di giudizio, doveva essere vagliato nel giudizio di legittimità, essendo la nullità rilevabile in ogni stato e grado del giudizio.
Con il secondo motivo di impugnazione il Comune ricorrente lamenta «l’error in iudicando (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione di legge (art. 45 del d.P.R. n. 327 del 2001; articoli 1353 e ss., codice civile)».
Pur volendo prescindere «dalla sopra eccepita nullità dell’accordo preliminare sottoscritto dalle parti», tuttavia la pretesa degli attori non poteva essere accolta «a causa della inefficacia dell’accordo».
Ciò, sia perché l’atto sottoscritto tra le parti «non è ‘atto di cessione’ volontaria ex art. 45 del d.P.R. n. 327 del 2001, bensì mero atto preliminare ossia prodromico della sottoscrizione di un formale e successivo atto di cessione volontaria».
Infatti, tale qualificazione emergerebbe sia dal tenore letterale dell’atto «ove viene a più riprese utilizzato il termine ‘preliminare’», sia dal contenuto di tale atto «ove le parti si promettono di addivenire, in un momento successivo, alla sottoscrizione del formale atto di cessione volontaria».
Pertanto, le parti avrebbero «inteso palesare il proprio accordo (amichevole e pattizio) circa gli importi dell’indennità di espropriazione e dell’indennità di occupazione temporanea RAGIONE_SOCIALE aree».
Tuttavia, per giurisprudenza di legittimità, l’atto di cessione volontaria deve essere tenuto distinto dall’accordo amichevole sulle indennità.
Il primo, avrebbe efficace immediatamente traslativa della proprietà e determinerebbe l’esaurimento della procedura ablativa del bene, mentre l’accordo amichevole concernerebbe solamente la pattuizione sul quantum RAGIONE_SOCIALE indennità e presupporrebbe il completamento della procedura mediante l’adozione dell’atto conclusivo traslativo della proprietà.
Qualora il procedimento non si concluda con l’atto di cessione o con il decreto di esproprio, ne conseguirebbe la sua caducazione e la perdita di efficacia.
Non essendo sopraggiunto l’atto di cessione volontaria, né tantomeno il decreto di esproprio, l’accordo preliminare sottoscritto dalle parti sarebbe divenuto inefficace ed improduttivo di effetti.
L’inefficacia deriverebbe, tra l’altro, dall’avveramento della condizione risolutiva pattuita dalle parti.
Infatti, l’art. 8, alinea secondo, del preliminare stabilisce che «resta inteso che qualora entro il mese di febbraio 2013, non si proceda, per motivi imputabili all’amministrazione comunale, alla
stipula dell’atto di cessione volontaria, il presente accordo è da ritenersi nullo».
Con il terzo motivo di impugnazione ricorrente deduce «error in iudicando (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.)-violazione e falsa applicazione di legge (articoli 6 e 8 , alinea secondo, dell’atto preliminare di cessione volontaria RAGIONE_SOCIALE aree sottoscritto tra le parti; articoli 32 e seguenti, nonché 50, d.P.R. 327 del 2001)».
Ove l’accordo sottoscritto dalle parti fosse valido ed efficace, e quindi superata la questione della nullità, come pure quella della inefficacia, la pretesa degli attori non sarebbe accoglibile.
L’indennità da occupazione temporanea, per la somma di euro 10.000,00 al mese, era dovuta dalla data della materiale immissione in possesso RAGIONE_SOCIALE aree, in data 12/7/12, e comunque, non oltre il mese di febbraio 2013, fissato come «data fatale superata la quale l’accordo preliminare doveva comunque divenire improduttivo di effetti».
Se dunque, si volesse ritenere valido ed efficace l’accordo, l’importo dovuto agli attori ammonterebbe ad euro 80.000,00 (ossia euro 10.000,00 moltiplicato per 8 mesi, decorrenti dalla data del 12/7/12, di immissione in possesso RAGIONE_SOCIALE aree, fino al mese di febbraio 2013, pattuito dai contraenti come data fatale per l’efficacia dell’accordo).
Questa sarebbe la «volontà espressa dalle parti firmatarie, come formalizzata ed emergente, per tabulas, dall’accordo preliminare».
La Corte d’appello avrebbe errato nel calcolare un importo di euro 10.000,00, a titolo di indennità mensile di occupazione temporanea, anche per i mesi successivi al febbraio 2013, ossia al mese in cui, alla stregua dell’accordo preliminare, il negozio cessava di produrre effetti, «in virtù dell’avveramento della condizione risolutiva espressamente prevista e dedotta nel preliminare sottoscritto (e
consistente nella mancata sottoscrizione dell’accordo definitivo di cessione bonaria entro, appunto, il mese sopra citato)».
I paragrafi IV e V, di cui a pagina 14, del ricorso, in realtà non costituiscono motivi di impugnazione, ma sono semplici considerazioni del Comune, come del resto si evince, sia dal tenore del titolo del paragrafo V («un’ultima, importantissima considerazione»), sia dalla «sintesi dei motivi», di cui a pagina 3 del ricorso, in cui sono riportati esclusivamente i tre motivi.
Il ricorso è inammissibile.
4.1. Invero, deve muoversi dalla premessa che la pubblica amministrazione può procedere all’acquisizione di un immobile, sia attraverso un contratto di diritto comune, ossia una vera e propria compravendita (che è retta dalla piena autonomia contrattuale ec art. 1322 c.c. e non impone la presenza di specifiche clausole richiamanti il procedimento espropriativo), sia con le modalità previste nella normativa che disciplina le espropriazioni.
Infatti, già prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 era previsto un «accordo amichevole» per la determinazione dell’indennizzo da espropriazione, come sancito dall’art. 26 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (disciplina RAGIONE_SOCIALE espropriazioni forzate per causa di utilità pubblica), poi abrogato dal d.P.R. n. 327 del 2001 (art. 26 della legge n. 2359 del 1865: «prima della scadenza del termine indicato nell’art. 18 i proprietari interessati ed il promovente l’espropriazione, o le persone da essi delegate, possono presentarsi avanti il sindaco, il quale coll’assistenza della giunta, ove occorra, procurerà che venga amichevolmente stabilito fra le parti l’ammontare dell’indennità»).
L’art. 12, comma 1, della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica), prevedeva, invece, l’istituto della cessione volontaria, antesignano di
quello di cui agli articoli 20, comma 9, e 45, del d.P.R. n. 327 del 2001.
L’art. 12 stabiliva che «il proprietario espropriando, entro 30 giorni dalla notificazione dell’avviso di cui al quarto comma dell’art. 11, ha diritto di convenire con l’espropriante la cessione volontaria degli immobili per un prezzo non superiore del 50% dell’indennità provvisoria determinata ai sensi dei successivi articoli 16 e 17».
La cessione volontaria trova ora esplicitazione, sia nell’art. 20 comma 9, che nell’art. 45 del d.P.R. n. 327 del 2001.
In particolare, ai sensi del comma 9 dell’art. 20 «il beneficiario dell’esproprio ed il proprietario stipulano l’atto di cessione del bene qualora sia stata condivisa la determinazione RAGIONE_SOCIALE indennità di espropriazione e sia stata depositata la documentazione attestante la piena e libera proprietà del bene. Nel caso in cui il proprietario percepisca la somma e si rifiuti di stipulare l’atto di cessione del bene, può essere emesso senza altre formalità il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze, e può esservi l’immissione in possesso, salve le conseguenze risarcitorie dell’ingiustificato rifiuto di addivenire alla stipula».
Tale norma va letta congiuntamente all’art. 45 del d.P.R. n. 327 del 2001 (la cessione volontaria), il quale dispone che «fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell’opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio, il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell’espropriazione l’atto di cessione del bene o della sua quota di proprietà».
Si chiarisce al comma 2 dell’art. 45 che «il corrispettivo dell’atto di cessione: a) se riguarda un’area edificabile, è calcolato ai sensi dell’art. 37, con l’aumento del 10% di cui al comma 2 dell’art. 37; b) se riguarda una costruzione legittimamente edificata, è calcolato nella misura venale del bene ai sensi dell’art. 38; c) se riguarda
un’area non edificabile, è calcolato aumentando del 50% l’importo dovuto ai sensi dell’art. 40, comma 3; d) se riguarda un’area non edificabile, coltivata direttamente dal proprietario, è calcolato moltiplicando per 3 l’importo dovuto ai sensi dell’art. 40, comma 3. In tale caso non competere indennità aggiuntiva di cui all’art. 40, comma 4».
Si prevede al comma 3 dell’art. 45 che «l’accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio e non li perde se l’acquirente non corrisponde la somma entro il termine concordato ».
Al comma 4 dell’art. 45 si stabilisce che «si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del capo X», ossia in materia di «retrocessione».
Ciò significa che deve essere chiaro nel corso del giudizio qual è l’oggetto della domanda, e se si tratti, quindi, di composizione amichevole o accordo amichevole sull’indennità (di cui all’art. 26 della legge n. 2359 del 1865, oppure all’art. 20 commi da 1 a 5, del d.P.R. n. 327 del 2000), oppure di vera e propria cessione volontaria, che trova collocazione normativa, prima, nell’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ed ora negli articoli 20, comma 9, e 45 del d.P.R. n. 327 del 2001, oppure se si è in presenza di un vero e proprio contratto di compravendita di matrice esclusivamente privatistica (o di contratto preliminare), guidato solo dalla disciplina del diritto privato.
Peraltro, la qualificazione del negozio di cessione volontaria, ex art. 12 della legge n. 865 del 1971, come contratto pubblico non esclude l’applicabilità ad esso dei principi civilistici che regolano la conclusione del contratto ( Cass., 17 novembre 2000, n. 14901; Cass., 29 gennaio 1997, n. 922), la sua interpretazione (Cass., 11 gennaio 2007, n. 317; Cass., sez. 1, 27 dicembre 1999, n. 14587), l’automatica sostituzione di clausole in esso contenute e contrarie a
norme imperative ex art. 1419 c.c. (Cass., 7 marzo 1997,, n. 2091), la nullità del contratto per illiceità (Cass., 18 luglio 1994, n. 6710), oppure per mancanza dell’oggetto (Cass., 19 gennaio 2006, n. 1040).
6.1. Si è ritenuto che, al fine di stabilire se la cessione di un bene da un privato a un Comune, effettuata nel vigore della legge 27 luglio 1980 n. 385 senza espressa previsione del diritto al conguaglio del corrispettivo pattuito ed accettato, costituisca mero negozio di diritto privato, ovvero negozio di carattere pubblicistico stipulato ai sensi dell’art. 12 della legge 22 ottobre 1971 n. 865 per un corrispettivo definitivamente determinato e insuscettibile di integrazioni successive, non è sufficiente il mero rilievo della mancata previsione del diritto al conguaglio del prezzo di cessione, ma occorre accertare, sulla base di una valutazione complessiva RAGIONE_SOCIALE clausole negoziali, quale sia stata la reale intenzione dei contraenti e quale sia la disciplina normativa, alla quale essi abbiano inteso richiamarsi e che – con i mutamenti intervenuti – risulti in concreto applicabile (Cass., 12 agosto 1995, n. 8866).
Si è chiarito che la cessione volontaria degli immobili prevista dall’art. 12 della legge 22 ottobre 1971 n. 865 e dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977 n. 14 costituisce un contratto pubblicistico, inserito nel procedimento espropriativo, la cui connotazione caratteristica consiste nel fatto che il trasferimento volontario si correla in modo vincolante ai parametri di legge stabiliti per la indennità dovuta per l’ablazione, dai quali non è possibile in alcun modo distaccarsi. Ne consegue che non è riconducibile alla cennata disciplina l’accordo intervenuto tra il Comune ed i privati in ordine alla cessione di un cespite, quando esso non abbia alcun riferimento al procedimento espropriativo, configurandosi come un negozio
alternativo a detto procedimento (Cass., sez.1, 16 marzo 1994, n. 2513).
Deve anche verificarsi se si tratti di contratto meramente preliminare o del contratto definitivo di compravendita (l’impegno alla cessione volontaria, anche nell’ambito dell’art. 12 della legge n. 865 del 1971, potrebbe dedursi dai moduli negoziali predisposti, come emerge da Cass., sez. 1, 27 dicembre 1999, n. 14587).
Tra l’altro, in caso di sussistenza del contratto preliminare, si è ritenuto possibile, ove la pubblica amministrazione sia rimasta inadempiente, di chiedere al giudice di emettere la sentenza ai sensi dell’art. 2932 c.c. (Cass., 8 maggio 2014, n. 9990, che si è occupata però della cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971, non ravvisando gli elementi del contratto preliminare).
Il contratto preliminare, ai fini della sua validità, deve avere già tutto il contenuto del contratto definitivo, per essere ad oggetto determinato o determinabile.
Il discrimine essenziale tra contratto completamente privatistico e cessione volontaria, di cui alla disciplina in materia di espropriazioni, è stato più volte delineato dalla giurisprudenza di legittimità.
In particolare, costituisce principio costante di questa Corte quello per cui la cessione volontaria, di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971, costituisce un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi costitutivi, indispensabili a differenziarla dal contratto di compravendita di diritto comune, sono: a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità; b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche
di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e RAGIONE_SOCIALE relative offerta ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971; c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione. Ne consegue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati – non potendosi escludere che la P.A. abbia perseguito una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita – al negozio traslativo immobiliare non possono collegarsi gli effetti di cui all’art. 14 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene medesimo (Cass., sez. 2, 22 gennaio 2018, n. 1534).
8. Ovviamente, nel caso si tratti di cessione volontaria ex art. 12 della legge n. 865 del 1971, oppure ex artt. 20, comma 9, e 45, del d.P.R. n. 327 del 2001, se non si richiamano nell’accordo le norme sulla determinazione dell’indennizzo, le clausole nulle vengono sostituite di diritto dalle clausole della disciplina espropriativa, trattandosi di violazione di norme imperative, che danno luogo a nullità parziale ex art. 1419 c.c. (Cass., sez. 1, 11 giugno 2018, n. 15159; Cass., sez. 1, 25 giugno 2010, n. 15331, in tema di indennizzo per occupazione legittima per il periodo dall’inizio dell’occupazione alla data della cessione volontaria, con invalidità della clausola convenzionale di previsione di un prezzo diverso e l’automatica sostituzione con il precetto derivante dal criterio legale; Cass., 8 febbraio 2007, n. 2755; Cass., sez. 1, 23 novembre 2004, n. 22105; Cass., sez. 1, 3 luglio 2001, n. 8970; Cass., sez. 1, 5 luglio 2000, n. 8969; Cass., sez. 1, 9 marzo 1996, n. 1886; Cass., sez. 1, 13 giugno 1985, n. 3549). Risulta, dunque, invalida la clausola convenzionale di previsione di un prezzo diverso, che viene
automaticamente sostituita con il precetto desumibile dal criterio legale (Cass., sez. 1, 7 marzo 1997, n. 2091).
Di recente si è affermato che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, la cessione volontaria RAGIONE_SOCIALE aree ai sensi dell’art. 45 d.P.R. n. 327 del 2001 non è un contratto di diritto privato, ma di diritto pubblico, che si inserisce nel procedimento espropriativo, con la conseguenza che, ai fini del calcolo dell’indennità dovuta all’espropriato, non può tenersi conto della clausola convenzionale, ove essa sia ancorata a parametri legali dichiarati incostituzionali o non più vigenti nel corso della procedura (Cass., sez. 1, 20 aprile 2023, n. 10619).
Le clausole ‘libere’, con riferimento alla determinazione dell’indennizzo, che sono valide nel contratto di vendita di diritto privato vero e proprio, costituiscono espressione della autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. (Cass., sez. 1, 7 novembre 1997, n. 10945).
9.Questione ancora diversa è quella che attiene all’accordo amichevole o bonario, in cui, ove non segua il decreto di esproprio o la cessione volontaria, si applica la sanzione della inefficacia, come riportato dal comune ricorrente nel secondo motivo di impugnazione, mentre nel primo motivo si muove dall’assunto che si tratterebbe di cessione volontaria ex artt. 19 e 45 del d.P.R. n. 327 del 2001, con la nullità parziale RAGIONE_SOCIALE clausole.
Si è ritenuto, infatti, che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, «l’accordo bonario» sull’indennità spettante all’espropriando non comporta ” ipso facto ” la cessione volontaria del bene, sicché con l’accettazione dell’indennizzo l’entità stabilita diventa definitiva e non più contestabile in base all’art. 12, comma 2, della l. n. 865 del 1971, solo in caso di successiva adozione del decreto di esproprio, in mancanza del quale la procedura espropriativa non si perfeziona e si
ha la caducazione degli accordi e degli atti compiuti nella sua pendenza (Cass., sez. 1, 6 marzo 2020, n. 6487). Se, dunque, il procedimento non si conclude con l’espropriazione viene meno l’efficacia dell’accordo bonario o amichevole (Cass., sez. 1, 18 ottobre 2001, n. 12704; Cass., Sez.U., 1, 9 marzo 2009, n. 5624).
10. Nella specie, però, i ricorrenti non trascrivono in alcun modo il contenuto «dell’atto preliminare di accordo per la cessione di aree» ed anzi, mentre nel primo motivo di ricorso per cassazione, deducono la nullità della clausola relativa alla determinazione dell’indennità di occupazione temporanea, pari ad euro 10.000,00 mensili, in violazione dei criteri imperativi, richiamando giurisprudenza relativa alla «cessione volontaria» dell’area (Cass., sez. 1, 14 febbraio 2000, n. 1603; Cass., sez. 1, 5 luglio 2000, n. 8969), e quindi all’art. 12, comma 1, della legge n. 865 del 1971, chiedendo la dichiarazione di nullità parziale del contratto, con la sostituzione automatica di tale clausola con i criteri legali cui all’art. 45 del d.P.R. n. 327 del 2001, che è relativo alla cessione volontaria, con riguardo al corrispettivo dell’atto di cessione, e di cui agli articoli 22bis , comma 5, e 50, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, in relazione all’indennità da occupazione legittima, nel secondo motivo, qualificano l’accordo negoziale come «accordo amichevole e pattizio», richiamando la giurisprudenza di legittimità di cui all’art. 26 della legge n. 2359 del 1865 (Cass. Sez. U., 9 marzo 2009, n. 5624; Cass., sez. 1, 18 ottobre 2001, n. 12704), con la conseguente perdita di efficacia dell’accordo, qualora il procedimento non si concluda con l’atto di cessione o con il decreto di esproprio.
11.Non si comprende dai motivi di ricorso per cassazione articolati dal Comune se l’accordo negoziale sia un contratto preliminare di compravendita di diritto privato, oppure un accordo bonario sull’ indennizzo o ancora una cessione volontaria di area.
12. Per questa Corte, il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. – quale corollario del requisito di specificità dei motivi – anche alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021 – non deve essere interpretato in modo eccessivamente formalistico, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa, e non può pertanto tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno RAGIONE_SOCIALE censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito (Cass. Sez.U., 18 marzo 2022, n. 8950).
Inoltre, si è precisato che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ex art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., è compatibile con il principio di cui all’art. 6, par . 1, della CEDU, qualora, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, dovendosi, di conseguenza, ritenere rispettato ogni qualvolta l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fondi, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali, bastando, ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati (Cass., sez. 1, 19 aprile 2022, n. 12481).
Si è anche ritenuto che i l principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, secondo il quale, ove si denunci la mancata pronuncia su motivi d’appello, è necessario che questi ultimi siano riportati nell’atto d’impugnazione, deve essere interpretato in maniera elastica, in conformità all’evoluzione della giurisprudenza di
questa Corte – oggi recepita dal nuovo testo dell’art. 366, comma 1, n. 6 c.p.c., come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022 – dovendosi perciò ritenere che la trascrizione del motivo non sia indispensabile, a condizione che il suo contenuto sia sufficientemente determinato in modo da renderlo pienamente comprensibile e ne sia fornita una specifica indicazione, tale da consentirne l’individuazione nell’ambito dell’atto di appello (Cass., sez. 1, 2 maggio 2023, n. 11325).
Nella specie, i ricorrenti avrebbero dovuto riportare il contenuto dell’accordo negoziale e le singole clausole, non limitarsi ad enunciare sinteticamente una porzione RAGIONE_SOCIALE clausole contenute nell’accordo preliminare.
13. Va peraltro osservato che, in relazione al primo motivo di ricorso, trova applicazione il principio giurisprudenziale per cui la nullità della clausola con cui si realizzi un abuso di dipendenza economica, sancita dall’art. 9 l. n. 192 del 1998, è rilevabile d’RAGIONE_SOCIALE e, pertanto, la sua deduzione può avvenire anche nella comparsa conclusionale, sempre che la stessa emerga dai dati già acquisiti al processo; tuttavia, la parte che, in sede di legittimità, lamenti il mancato rilievo RAGIONE_SOCIALEso della menzionata invalidità deve dedurre a pena di inammissibilità della censura per difetto di specificità anche l’emersione, nel corso del giudizio di merito, degli elementi che avrebbero dovuto indurre il giudice a ravvisare detta nullità (Cass., sez. 1, 19 ottobre 2022, n. 30885).
Pertanto, le nullità negoziali che non siano state rilevate d’RAGIONE_SOCIALE in primo grado sono suscettibili tale rilievo in grado di appello o in cassazione, a condizione che i relativi fatti costitutivi siano stati ritualmente allegati dalle parti (Cass., sez. 3, 17 luglio 2023, n. 20713; Cass., Sez. U., n. 26242 del 2014).
Ed infatti, in tema di nullità negoziali, ove in sede di legittimità ne venga contestato il mancato rilievo RAGIONE_SOCIALEso – come pure nel caso
in cui si censuri la declaratoria della tardività della relativa domanda – occorre dedurre, a pena di inammissibilità della censura per difetto di specificità, anche l’emersione, nel corso del giudizio di merito, degli elementi che avrebbero dovuto indurre il giudice a ravvisare la nullità (Cass., sez. 3, 11 dicembre 2023, n. 34590; Cass., sez. 1, 3 novembre 2023, n. 30505; Cass., sez. 1, 18 ottobre 2023, n. 28983).
Nella specie, è pacifico che il Comune nei primi due gradi di giudizio non abbia in alcun modo allegato i fatti costitutivi relativi alla nullità della clausola negoziale per violazione di norme imperative, con sostituzione automatica della stessa con la disciplina legale in materia di espropriazione.
Il secondo motivo è inammissibile anche perché nuovo, in quanto nei primi due gradi di giudizio si è fatto riferimento ad un «accordo preliminare» e non ad una «accordo bonario o amichevole».
Quanto al terzo motivo di ricorso, l ‘eccezione di risoluzione del contratto per avveramento della condizione risolutiva, corrispondendo all’esercizio di un diritto potestativo, è un’eccezione in senso stretto, che il giudice non può rilevare d’RAGIONE_SOCIALE, né la parte sollevare per la prima volta in appello (Cass., sez. 6-2, 17 giugno 2021, n. 17463; Cass., sez. 2, 31 luglio 2014, n. 17474).
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico del Comune ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore dei controricorrenti le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi
euro 10.000,00, oltre € 200,00 per esborsi, rimborso forfettario RAGIONE_SOCIALE spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione