Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21705 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 21705 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 01/08/2024
ORDINANZA
sul ricorso 30097-2021 proposto da:
COGNOME NOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIO COGNOME, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3719/2021 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 28/09/2021 R.G.N. 2918/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/06/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
Oggetto
R.G.N. 30097/2021
COGNOME.
Rep.
Ud. 04/06/2024
CC
Rilevato che
Rilevato che
1.la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di NOME COGNOME intesa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli in data 18 novembre 2016 da RAGIONE_SOCIALE ed alla condanna della convenuta società al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento alla data di scadenza del rapporto. Le parti, infatti, in data 10 dicembre 2015, avevano sottoscritto in sede sindacale un verbale di conciliazione con il quale avevano convenuto, tra l’altro, di voler risolvere consensualmente ed inderogabilmente il rapporto di lavoro tra loro in essere alla data del 31 dicembre 2016;
per la cassazione della decisione ha proposto ricorso NOME COGNOME sulla base di due motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso illustrato con memoria;
Considerato che
con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1364, 1365 1965 e sgg. c.c., censurando la sentenza impugnata sotto il profilo dell’omessa preventiva valutazione dell’efficacia novativa o meno del verbale di conciliazione del 10 dicembre 2015, intervenuto in epoca successiva alla realizzazione dei fatti oggetto di addebito disciplinare sulla base dei quali era stato intimato il licenziamento; in particolare censura la sentenza impugnata per avere affermato che, indipendentemente dalla valenza,
novativa o meno, del verbale di conciliazione, le condotte poste a fondamento del licenziamento non erano riconducibili alla previsione contrattuale relativa alla composizione di ‘ogni altra possibile contesa’ inter partes ; sostiene, in sintesi, che l’efficacia novativa del verbale precludeva l’esame nel merito dei fatti posti a fondamento del recesso datoriale; rammenta che, adito dal lavoratore il Giudice del lavoro ai sensi dell’art. 1 comma 42 l. n. 92/2012, il ricorso era stato dichiarato inammissibile, con ordinanza non opposta, per inapplicabilità del ‘rito Fornero’ essendosi trasformato il rapporto di lavoro da rapporto a tempo indeterminato in rapporto a termine per effetto della richiamata conciliazione alla quale il giudice adito aveva attribuito valenza novativa del precedente rapporto di lavoro; tale accertamento, non oggetto di impugnazione, faceva stato tra le parti ex art. 2909 c.c. ;
con il secondo motivo deduce, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. censurando la sentenza impugnata per inadeguata valutazione della condotta accertata, in particolare sotto il profilo dell’intensità dell’elemento intenzionale, delle pre cedenti modalità di attuazione del rapporto e della sussistenza di un danno della società ed in questa prospettiva assume la violazione dei parametri ai quali andava rapportata la verifica della sussistenza della giusta causa;
3. il primo motivo di ricorso deve essere respinto;
3.1. la sentenza impugnata, dato atto che la precedente ordinanza di inammissibilità ex lege n. 92/2012 non era stata impugnata ha, in sintesi, ritenuto che l’accordo conciliativo del 10 dicembre 2015 non aveva determinato alcuna vicenda
estintiva-costitutiva (sentenza, pag. 8, secondo capoverso) e che esso non conteneva alcun esplicito riferimento alle condotte alla base del recesso datoriale, conosciute dalla società solo in epoca posteriore alla stipula dell’accordo in questione; ha escluso, quindi, che le stesse potessero rientrare nella previsione di carattere generale con la quale, nell’ambito dell’accordo transattivo, le parti avevano convenuto di ‘ voler comporre… ogni altra possibile contesa comunque connessa al rapporto di lavoro ed alla sua risoluzione ‘;
3.2. preliminarmente, deve escludersi la formazione di un giudicato in ordine all’accertamento del carattere novativo dell’accordo conciliativo del dicembre 2015, avendo RAGIONE_SOCIALE formulato specifico motivo di gravame con il quale aveva censurato la sentenza di primo grado per avere affermato la valenza novativa dell’accordo tra le parti;
3.3. né la formazione del giudicato può collegarsi alla mancata impugnazione dell’ordinanza di inammissibilità del ricorso introdotto ex lege n. 92/2012 alla luce della giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la statuizione su una questione di rito dà luogo soltanto al giudicato formale ed ha effetto limitato al rapporto processuale nel cui ambito è emanata, sicché non preclude la riproposizione della domanda in altro giudizio, non essendo idonea a produrre gli effetti del giudicato in senso sostanziale (Cass. n. 23130/2020, Cass. n. 10641/2019);
3.4. tanto premesso, osserva il Collegio che la Corte di merito, a differenza di quanto opina l’odierno ricorrente, ha espressamente accertato la natura non novativa dell’accordo tra le parti (sentenza, pag. 8) e le conclusioni in tal senso attinte
non sono validamente incrinate dalle deduzioni formulate in ricorso che presentano un duplice profilo di inammissibilità scaturente: a) dalla modalità di deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale in termini meramente contrappositivi alle conclusioni attinte dal giudice di merito, modalità non conforme all’insegnamento della S.C. secondo la quale l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. In questa prospettiva è stato puntualizzato che ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, mentre la denuncia del vizio di motivazione dev’essere, invece, effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano
possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. n. 19044/2010, Cass. n. 15604/2007, in motivazione, Cass. n. 4178/2007) dovendosi escludere che la semplice contrapposizione dell’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata rilevi ai fini dell’annullamento di quest’ultima (Cass. 14318/2013, Cass. n. 23635/2010); b) dalla mancata trascrizione in ricorso, in violazione del precetto di cui all’art. 366, comma 1 n. 6 c.p.c., del contenuto dell’atto che si assume non correttamente interpretato dal giudice d’appello;
4. il secondo motivo di ricorso è inammissibile;
4.1. va ricordato che la ‘ giusta causa ‘ di licenziamento ex art. 2119 c.c. è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile
in cassazione se privo di errori logici o giuridici (Cass. n. 8254/ 2004, Cass. n. 5095/2011, Cass. 6498/2012);
4.2. l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma c.d. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – mediante riferimento alla “coscienza generale”, è sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale (Cass. n. 9266/ 2005, v. pure Cass. n.4984/2014);
4.3. la deduzione di violazione dell’art. 2119 c.c. non è coerente con quanto sopra osservato posto che le censure articolate dal ricorrente neppure individuano lo standard in tesi in contrasto con i valori presenti nella realtà sociale e nell’ordinamento al quale la Corte di merito avrebbe ancorato la verifica della sussistenza della giusta causa; le critiche articolate, infatti, tendono, piuttosto, a contestare la valutazione di proporzionalità del licenziamento sotto il profilo della mancata considerazione di alcuni elementi, quali l’intensità del profilo intenzionale, la durata del rapporto e la assenza di precedenti disciplinari. In altri termini, ciò che viene in concreto criticato è l’apprezzamento di fatto delle circostanze del caso concreto ed il giudizio di proporzionalità, censurabile in sede di legittimità solo ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (v. tra le altre, Cass. 25/05/2012, n. 8293; Cass. 19/10/2007, n. 21965) e quindi, trovando applicazione, ratione temporis , il testo attualmente vigente dell’art. 360 comma primo, n. 5 cod.
proc. civ. , solo mediante la denunzia dell’omesso esame di un fatto decisivo e controverso oggetto di discussione tra le parti, neppure formalmente formulata dall’odierno ricorrente;
al rigetto del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente alle spese di lite ed al pagamento raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma quater d.p.r. n. 115/2002, nella sussistenza dei relativi presupposti processuali;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 4 giugno