Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 16635 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 16635 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25781/2020 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato. con domicilio legale in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona dell’amministratore unico p.t. NOME COGNOME in proprio ed in qualità di capogruppo del Raggruppamento Temporaneo d’Imprese costituito con la RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1677/20, depositata il 5 marzo 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con lodo sottoscritto il 13 ottobre 2006, il collegio arbitrale costituito per la risoluzione di una controversia insorta tra l’RAGIONE_SOCIALE e l’Impresa Ing. NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE in proprio ed in qualità di capogruppo del Raggruppamento Temporaneo dRAGIONE_SOCIALE costituito con la RAGIONE_SOCIALE relativamente all’esecuzione di un contratto di appalto avente ad oggetto i lavori di costruzione della Strada INDIRIZZO, lotto I, accolse parzialmente la domanda proposta dall’Impresa, rigettando in particolare il primo quesito, avente ad oggetto il riconoscimento dei maggiori oneri sopportati successivamente al 20 dicembre 2001 (riserva n. 3), accogliendo il quarto ed il quinto, aventi ad oggetto il riconoscimento dei maggiori oneri sopportati per il fermo produttivo determinato dall’approvazione della seconda perizia di variante (riserva n. 9) e per l’adeguamento della propria struttura tecnico-amministrativa (riserva n. 10), e condannando l’Anas al pagamento della somma di Euro 1.504.993,98, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
L’impugnazione proposta dall’Anas fu parzialmente accolta dalla Corte d’appello di Roma, che con sentenza del 17 ottobre 2011 dichiarò nullo il lodo, per violazione dell’art. 31bis della legge 11 febbraio 1994, n. 109 e dell’art. 149, comma quarto, del d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, nella parte in cui aveva ritenuto ammissibili le riserve, nonostante l’intervenuta definizione bonaria delle stesse e la conseguente preclusione dei fatti dannosi verificatisi in data anteriore al 30 maggio 2003, e rideterminò la somma dovuta all’Impresa in Euro 541.797,84, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
Il ricorso per cassazione proposto dalla RAGIONE_SOCIALE (già Impresa Ing. NOME COGNOME) fu parzialmente accolto con sentenza del 7 marzo 2017, n. 5681, con cui questa Corte, ritenute applicabili le disposizioni del d.P.R. n. 554 del 1999, in considerazione dell’avvenuta conclusione dell’accordo ai sensi della relativa disciplina, osservò che la sentenza impugnata si era limitata a richiamare l’art. 149, comma quarto, del d.P.R. n. 554
del 1999, senza precisare la data in riferimento alla quale gli arbitri avrebbero ritenuto precluse le pretese avanzate con le riserve e il concreto oggetto delle stesse, con la conseguenza che non era possibile comprendere se la decisione degli arbitri fosse conforme ai presupposti previsti dalle norme applicate, volte a consentire il monitoraggio effettivo della spesa, mediante la soluzione anticipata di tutti i fattori suscettibili di aggravare il compenso al di sopra del limite previsto dall’art. 31bis della legge n. 109 del 1994.
Il giudizio è stato pertanto riassunto dinanzi alla Corte d’appello di Roma, che con sentenza del 5 marzo 2020 ha rigettato l’impugnazione del lodo.
Premesso che dalla relazione dell’Anas risultava che l’accordo bonario, stipulato il 19 giugno 2003, era stato concluso avendo riguardo all’aggiornamento delle riserve contenuto in una nota dell’appaltatore del 15 aprile 2003, non depositata, mentre l’appaltatrice aveva sostenuto che esso era volto alla definizione delle riserve nn. 1-6, iscritte fino al 20 dicembre 2001, la Corte ha osservato che, non avendo l’Anas depositato i fascicoli di parte relativi ai precedenti gradi di giudizio, nonostante gl’inviti ad essa ripetutamente rivolti, non era possibile stabilire il contenuto dell’accordo, con la conseguenza che, trattandosi di fatto parzialmente estintivo della pretesa dall’appaltatrice, di esso si poteva tener conto nei soli limiti della non contestazione della controparte. Ha rilevato comunque che l’art. 2, secondo comma, di un atto aggiuntivo stipulato il 29 marzo 2005, facendo salvi i diritti derivanti dalle riserve già iscritte nei registri di contabilità e maturate alla data del 23 ottobre 2002, induceva ad escludere che l’atto di transazione si riferisse a pretese del 2003.
Avverso la predetta sentenza l’Anas ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, illustrati anche con memoria. Ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria, la RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 389, 392 e 394 cod. proc. civ., osservando che, nel dare atto dell’impossibilità di stabilire il contenuto dell’accordo
bonario, la sentenza impugnata non ha tenuto conto del dictum della sentenza di cassazione, che presupponeva una compiuta disamina dell’accordo. Premesso che il giudice di rinvio è vincolato non solo dal principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, ma anche dagli accertamenti di fatto su cui si fonda, sostiene che la Corte territoriale avrebbe dovuto ordinare ad entrambe le parti la produzione dell’accordo, ormai acquisito al processo, giacché le precedenti fasi processuali avevano avuto ad oggetto proprio il contenuto dello stesso.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 112, 115, 116, 210, 213 e 394 cod. proc. civ., ribadendo che, nel porre a carico di essa convenuta le conseguenze del mancato deposito dell’accordo bonario, già ritualmente prodotto nelle precedenti fasi processuali, la sentenza impugnata non ha tenuto conto del principio di acquisizione probatoria, in virtù del quale tutte le risultanze processuali concorrono a formare il convincimento del giudice, indipendentemente dalla loro provenienza.
Con il terzo motivo, la ricorrente insiste sulla violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., sostenendo che, nel porre a suo carico l’onere di ridepositare l’accordo bonario, la sentenza impugnata non ha considerato che il principio dell’onere della prova non implica affatto che i fatti costitutivi dell’azione o dell’eccezione debbano evincersi dalle prove dedotte dalla parte gravata del relativo onere, trovando applicazione il principio di acquisizione. Premesso che l’accordo bonario, configurabile come fatto estintivo delle pretese dell’attrice, era stato già acquisito al processo, sottoposto al contraddittorio delle parti e compiutamente delibato nelle fasi precedenti, afferma che la sua momentanea assenza non era ascrivibile a responsabilità esclusiva di essa ricorrente, anche perché la tesi sostenuta dalla società attrice era fondata proprio sulla corretta esegesi dello stesso.
Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 161 e 132 cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per illogicità e contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui, pur avendo ritenuto impossibile stabilire il contenuto dell’accordo bonario, ha escluso che lo stesso potesse avere ad oggetto pretese del
2003, rilevando che l’atto aggiuntivo del 29 marzo 2005 faceva salvi i diritti conseguenti alle riserve già iscritte alla data del 23 ottobre 2002, senza neppure considerare che l’accordo comportava comunque la definizione di tali riserve.
Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod. proc. civ., osservando che, nell’interpretazione dell’atto aggiuntivo, la sentenza impugnata ha omesso di procedere ad una valutazione complessiva del negozio, essendosi limitata alla lettura di una singola proposizione contenuta in uno degli articoli, senza fare alcun riferimento all’accordo bonario. Aggiunge che la Corte territoriale non ha tenuto conto della natura pubblica dell’atto, il cui assoggettamento al requisito della forma scritta imponeva di desumere la volontà delle parti esclusivamente dal testo negoziale, né della portata transattiva dell’accordo, volto alla definizione stragiudiziale di tutte le pretese avanzate dall’Impresa con le riserve.
I primi tre motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto la comune problematica della ripartizione dell’onere della prova, in riferimento alla produzione dell’accordo bonario, sono infondati.
La precedente sentenza, che aveva parzialmente accolto l’impugnazione del lodo arbitrale, era stata infatti cassata in accoglimento del terzo motivo di ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE con cui quest’ultima aveva dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione di legge, in riferimento all’art. 149 del d.P.R. n. 554 del 1999 ed agli artt. 1362 e ss., 1965 e 1967 cod. civ., sostenendo che l’inammissibilità di accordi parziali, prevista dall’art. 149 cit., non implicava anche l’estensione dell’accordo alle riserve non ancora iscritte in contabilità o comunque non esaminate nel procedimento propedeutico alla sua conclusione. In proposito, questa Corte aveva rilevato l’impossibilità di stabilire, in base alla sentenza impugnata, se la decisione resa dagli arbitri fosse o meno conforme ai presupposti previsti dalle norme applicate, a causa della mancata precisazione della data in riferimento alla quale le riserve erano state ritenute precluse dagli arbitri e dell’oggetto delle stesse, nonché della contraddittoria indicazione della data di aggiornamento dei registri di contabilità, ritenendo che tali omissioni fossero di per sé sufficienti a giustificare l’annullamento della decisione.
Vertendosi in un’ipotesi di cassazione per il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., trovava applicazione, in sede di rinvio, il principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, a differenza di quanto accade nell’ipotesi di cassazione per vizio di motivazione, il giudice di rinvio non può valutare liberamente i fatti già accertati, né indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, ma, ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. civ., è tenuto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo (cfr. Cass., Sez. III, 15/06/2023, n. 17240; Cass., Sez. lav., 24/10/2019, n. 27337; Cass., Sez. I, 7/08/2014, n. 17790). Tale principio è stato ulteriormente specificato da questa Corte nel senso che, in ipotesi di cassazione per violazione di norme di diritto, il vincolo cui è sottoposto il giudice del rinvio non è limitato all’osservanza della regula juris enunciata dal Giudice di legittimità, ma si estende alle premesse logico-giuridiche della stessa, e in particolare agli accertamenti che ne costituiscono il fondamento, escludendo pertanto la possibilità di allargare l’indagine a questioni che, pur se in ipotesi non esaminate nel giudizio di legittimità, costituiscono il presupposto stesso della pronuncia, formando oggetto di giudicato implicito interno, giacché il riesame delle stesse verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza di cassazione, in contrasto col principio di intangibilità della stessa (cfr. Cass., Sez. I, 3/03/2022, n. 7091; Cass., Sez. III, 22/08/2018, n. 20887; Cass., Sez. V, 16/10/2015).
Nella specie, la regula juris desumibile dalla sentenza di cassazione si risolveva essenzialmente nel principio secondo cui, in tema di appalto pubblico, ai fini della delimitazione dell’efficacia preclusiva dell’accordo bonario di cui all’art. 149 del d.P.R. n. 554 del 1999, occorre avere riguardo alla data in cui ha avuto luogo l’ultimo aggiornamento del registro di contabilità anteriore alla sottoscrizione dell’accordo, costituendo la stessa l’ultimo momento utile per l’iscrizione delle riserve, delle quali l’accordo comporta la definizione, ai sensi del comma quarto, secondo periodo dell’art. 149 cit. L’enunciazione di tale principio, la cui applicazione doveva essere necessariamente filtrata attraverso le particolari caratteristiche del giudizio d’impugnazione del lodo ar-
bitrale, avente ad oggetto non già l’accertamento dei fatti, spettante in via esclusiva agli arbitri, ma la verifica della legittimità della decisione resa da questi ultimi (cfr. Cass., Sez. I, 8/11/2022, n. 32838; 18/09/2020, n. 19602; 8/06/2007, n. 13511), presupponeva esclusivamente la constatazione dello avvenuto accertamento da parte degli arbitri della stipulazione di un accordo bonario tra le parti, senza alcun apprezzamento in ordine alla correttezza giuridica della data cui il lodo ne aveva fatto risalire l’efficacia preclusiva, la cui valutazione dipendeva dall’individuazione dell’oggetto delle riserve e dal confronto tra la data accertata dagli arbitri e quella dell’ultimo aggiornamento della contabilità, non risultanti con certezza dalla sentenza impugnata. Tale era l’oggetto dell’accertamento demandato al Giudice di rinvio, i cui poteri non incontravano dunque limiti nelle premesse di fatto del principio di diritto enunciato da questa Corte, se non l’impossibilità di escludere l’avvenuta stipulazione dell’accordo, peraltro non contestata, non essendosi in precedenza provveduto ad una disamina del contenuto concreto dello stesso, ed in particolare all’individuazione dell’oggetto delle riserve, la cui identificazione risultava anzi necessaria proprio ai fini dell’applicazione del predetto principio.
Non può pertanto condividersi la tesi sostenuta dalla difesa erariale, secondo cui il vincolo derivante dal principio di diritto imponeva alla Corte d’appello di considerare ormai provato il contenuto dell’accordo, avendo lo stesso costituito oggetto di discussione nelle precedenti fasi del giudizio, e quindi di porne a carico di entrambe le parti la produzione, in ossequio al principio di acquisizione processuale, il quale comporta che un elemento probatorio, una volta introdotto nel processo, è definitivamente acquisito alla causa e non può più esserle sottratto, dovendo il giudice utilizzare le prove raccolte indipendentemente dalla provenienza delle stesse dalla parte gravata dell’onere probatorio (cfr. Cass., Sez. Un., 23/12/2005, n. 28498; Cass., Sez. III, 23/03/ 2024, n. 7923; Cass., Sez. lav., 9/06/2008, n. 15162).
6.1. E’ pur vero che, in virtù del predetto principio, i documenti prodotti dalle parti costituiscono fonte di conoscenza per il giudice e spiegano un’efficacia probatoria che non si esaurisce nel singolo grado di giudizio e non è condizionata dalle successive scelte difensive della parte che li abbia inizialmente offerti in comunicazione, con la conseguenza che nelle fasi successive
a quella in cui sono stati prodotti il giudice può porli a fondamento della propria decisione, anche se non siano rinvenibili nei fascicoli di parte (perché ritirati o non restituiti, o perché la parte che li ha prodotti in seguito non si è più costituita), apprezzandone il contenuto eventualmente trascritto nella sentenza impugnata o in altro provvedimento o atto del processo, oppure, se lo ritiene necessario, ordinando alla parte interessata o ad entrambe le parti di produrli in copia o in originale (cfr. Cass., Sez. Un., 16/02/2023, n. 4835).
Ciò, peraltro, è esattamente quello che ha fatto nella specie il Giudice di rinvio, il quale, preso atto del mancato deposito dell’accordo bonario prodotto nelle precedenti fasi del giudizio, ha dapprima impartito all’Anas l’ordine di ridepositarlo, ed a seguito dell’inottemperanza a tale ordine da parte della difesa erariale ha concluso per l’impossibilità di determinarne il contenuto, osservando comunque, ad abundantiam , che l’art. 2, secondo comma, dello atto aggiuntivo successivamente stipulato, facendo salvi i diritti conseguenti alle riserve già iscritte nei registri di contabilità e maturate alla data del 23 ottobre 2002, induceva ad escludere che l’accordo bonario potesse avere ad oggetto anche pretese insorte nell’anno 2003. Tale conclusione non si pone in alcun modo in contrasto con il criterio di ripartizione dell’onere della prova previsto dall’art. 2697 cod. civ., il quale detta una regola di giudizio operante in via residuale rispetto al principio di acquisizione probatoria, in virtù della quale, ove all’esito dell’istruttoria non risultino agli atti elementi sufficienti a dimostrare la fondatezza di una domanda o di un’eccezione, da qualunque parte essi provengano, le conseguenze negative di tale carenza vanno poste a carico della parte cui incombeva l’onere della relativa prova, secondo le regole di scomposizione delle fattispecie fondate sulla distinzione tra fatti costitutivi, modificativi, estintivi o impeditivi (cfr. Cass., Sez. lav., 28/08/2024, n. 23286; 9/06/2008, n. 15162; Cass., Sez. III, 13/04/2023, n. 9863). Proprio sulla base di tali regole la sentenza impugnata aveva d’altronde provveduto ad individuare nell’Anas la parte interessata alla produzione dell’atto aggiuntivo, e quindi destinataria del relativo ordine, correttamente richiamando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’onere di fornire la prova della transazione incombe alla parte che ne invoca gli effetti estintivi sul debito che costituisce oggetto del giudizio (cfr. Cass., Sez. III,
26/04/2000, n. 5344).
E’ altresì infondato il quarto motivo, concernente la ricostruzione del contenuto dell’accordo bonario, compiuta dalla sentenza impugnata in assenza della relativa prova.
7.1. Non può ritenersi infatti illogica, né contraddittoria la sentenza impugnata, nella parte in cui, dopo aver constatato l’impossibilità di prendere direttamente conoscenza del contenuto dell’accordo bonario concluso tra le parti, a causa dell’inottemperanza dell’Anas all’ordine di esibizione emesso nei suoi confronti, ha individuato in via induttiva la data assunta come riferimento ai fini dell’individuazione delle riserve ritenute precluse, muovendo da una clausola dell’atto aggiuntivo stipulato successivamente, con cui le parti avevano fatto salvi «i diritti conseguenti alle riserve già iscritte nei registri di contabilità e maturate alla data del 23 ottobre 2002», per concludere che l’accordo bonario non poteva avere ad oggetto pretese insorte nell’anno 2003.
Tale argomentazione, da ritenersi svolta peraltro ad abundantiam , avuto riguardo alla precedente presa d’atto della mancata produzione dell’accordo ad opera della parte onerata della relativa prova, si pone perfettamente in linea con quanto dianzi osservato in ordine al necessario contemperamento della regola di giudizio dettata dall’art. 2697 cod. civ. con il principio di acquisizione processuale, ed al conseguente potere del giudice, in caso di ritiro o mancato deposito di un documento prodotto nelle precedenti fasi del giudizio, di ricostruirne il contenuto sulla base della sentenza impugnata o di un altro provvedimento o atto processuale. In virtù del principio dispositivo, ciascuna delle parti è infatti libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione dello stesso o di uno o più documenti in esso contenuti: ne consegue che, a meno che non ne venga denunciato lo smarrimento o la sottrazione, il giudice non resta esonerato dal dovere di pronunciare nel merito della causa, sulla base delle risultanze istruttorie ritualmente acquisite e degli altri atti contenuti nel fascicolo dell’altra parte ed in quello di ufficio (cfr. Cass., Sez. III, 26/04/2010, n. 9917; 15/03/2004, n. 5241; Cass., Sez. lav., 29/10/1998, n. 10819).
E’ infine inammissibile, per difetto di specificità, il quinto motivo, avente ad oggetto l’interpretazione dell’atto aggiuntivo.
Le censure non risultano infatti accompagnate dalla trascrizione delle parti salienti dell’atto, e segnatamente delle clausole di cui la ricorrente lamenta l’omessa valutazione, indispensabili ai fini del riscontro in ordine alla veridicità dell’assunto difensivo, ancor prima dell’accertamento dell’effettiva sussistenza del vizio ermeneutico denunciato.
La parte che in sede di legittimità intenda denunciare la violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale o l’incomprensibilità del ragionamento svolto a sostegno dell’interpretazione di un contratto fornita dal provvedimento impugnato non può infatti limitarsi, come nella specie, a richiamare le disposizioni di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ. ed a proporre motivate critiche in ordine al modo in cui il giudice di merito ne ha fatto applicazione o alla congruenza e logicità delle argomentazioni svolte al riguardo, ma ha l’onere di riportare, a corredo del motivo d’impugnazione, le parti salienti del contratto o il testo integrale della clausola contestata, in modo tale da consentire a questa Corte di cogliere l’esatta portata delle censure sollevate, prima ancora di verificarne la fondatezza (cfr. Cass., Sez. III, 8/03/2019, n. 6735; Cass., Sez. lav., 15/ 11/2013, n. 25728; 11/07/2007, n. 15489).
9. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 9/01/2025