Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 26046 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 26046 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/09/2025
SENTENZA
sul ricorso 16828-2024 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 392/2024 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 26/01/2024 R.G.N. 1515/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
R.G.N. 16828/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 06/05/2025
PU
udito l’avvocato COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il ricorrente veniva licenziato senza preavviso dall’INPS in data 06.12.2018 poiché, dopo accertamenti svolti dall’Area ispettiva dell’Istituto, era emerso che, dal 03.07.17 al 31.05.18, egli aveva effettuato 38.447 accessi al servizio informatico, ‘201 estratti contributivi’, per la relativa visualizzazione e stampa degli stessi; che detti accessi, non erano giustificati da esigenze di servizio, ma ne erano del tutto estranei, pur venendo effettuati in orari lavorativi.
A seguito della sanzione, il lavoratore procedeva con le rituali contestazioni prima amministrative e poi giudiziarie, adendo il Tribunale per sentire dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimato per insussistenza del fatto materiale contestato.
Il Tribunale rigettava il ricorso, ritenendo che le risultanze istruttorie non fossero in grado di corroborare le tesi difensive sulle falle del sistema informatico e che, al contrario, fosse emersa la fondatezza degli addebiti di cui alla contestazione disciplinare.
La Corte di Appello di Napoli rigettava l’appello e le tesi difensive del ricorrente, affermando che ‘la condotta contestata è da considerare unica e si risolve non già in una negligenza lavorativa, ma in una condotta dolosa di diffusione di dati riservati a soggetti terzi – direttamente o indirettamente consentendo l’utilizzo delle proprie credenziali ad altri – svolta utilizzando strumenti e materiali di ufficio che, atteso l’abnorme numero di accessi, non può che far ritenere definitivamente compromesso il rapporto fiduciario’.
Il lavoratore ricorreva in Cassazione con quattro motivi cui resisteva con controricorso l’amministrazione.
La procura generale depositava conclusioni scritte con le quali chiedeva il rigetto del ricorso, conclusione confermata in udienza
Il ricorrente depositava altresì memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si lamenta la violazione di legge ex art 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per erronea applicazione ed interpretazione degli artt. 2697 c.c, 116 c.p.c., 202 e ss. c.p.c.
Il motivo evidenzia che dall’espletata istruttoria non è emerso il raggiungimento di alcuna prova a sostegno del licenziamento irrogato. Si censura, in sintesi, la decisione della Corte in relazione al mancato raggiungimento della prova.
1.1 Il motivo è in parte infondato e nel resto inammissibile. Quanto alle pretese violazioni di legge in materia di riparto dell’onere della prova, non può che richiamarsi il principio di diritto consolidato secondo cui ‘In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita
dall’art. 116 c.p.c.’ (Cass., sez. quinta, 15 ottobre 2024, n. 26739; Cass., sez. sesta, ord. 23 ottobre 2018, n. 26769).
Nella specie, la Corte territoriale non ha violato il principio di riparto degli oneri probatori, giacché, con apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità, ha ritenuto provato il fatto costitutivo descritto nella contestazione di addebito disciplinare ed ha ritenuto non provati i fatti impeditivi dedotti dall’incolpato, e cioè la riconducibilità degli accessi alle banche date contestatigli all’intervento di agenti esterni, quali atti di hackeraggio, cattivo funzionamento dei programmi telematici, ingresso di persone non autorizzate nella propria stanza di ufficio.
Del resto, è noto che la valutazione del materiale probatorio – in quanto destinata a risolversi nella scelta di uno (o più) tra i possibili contenuti informativi che il singolo mezzo di prova è, per sua natura, in grado di offrire all’osservazione e alla valutazione del giudicante – costituisce espressione della discrezionalità valutativa del giudice di merito ed è estranea ai compiti istituzionali della Corte di Cassazione, restando totalmente interdetta alle parti la possibilità di discutere, in sede di legittimità, del modo attraverso il quale, nei gradi di merito, sono state compiute le predette valutazioni discrezionali (ex multis, Cass., sez. III, 21 dicembre 2022, n. 37382).
Ed invero, con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente. L’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo
logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 7921/2011 Cass. 25348/2018).
Tale principio è consacrato nella nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte ove è stato dichiarato “inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (Cass. Sez. U, 34476/2019).
Con il secondo motivo si eccepisce la nullità sentenza impugnata per mancanza assoluta dei suoi requisiti essenziali; violazione artt. 111 Cost., 118 comma 1 e 2 disp. att. c.p.c., 132, 2° comma, n. 4 c.p.c., 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.
I files prodotti dall’INPS, contestati e disconosciuti, non recano marca temporale e certezza della provenienza; a tal riguardo, parte ricorrente rappresenta la sussistenza di uno specifico interesse rispetto a tali elementi, poiché la loro inattendibilità rende l’impianto accusatorio inattendibile e conseguentemente illegittimo il licenziamento.
L’articolo 132, n. 4 c.p.c. dispone che la sentenza deve contenere la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, in ossequio all’obbligo di motivazione imposto dall’articolo 111, primo comma, Cost.
Come è noto tale disposizione processuale è integrata dall’articolo 118, disp. Att. c.p.c. secondo cui la motivazione della sentenza di cui all’articolo 132 secondo comma
numero 4 del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione anche con riferimento a precedenti conformi.
Va al riguardo premesso che la nullità per carenza di motivazione non è configurabile, laddove si contesti il contenuto motivazionale in relazione alle risultanze istruttorie o alla differente valutazione della sua sufficienza e correttezza rispetto ad una o più circostanze ritenute decisive ai fini della decisione, non potendosi ritenere sussistente né la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. per difetto assoluto di motivazione o motivazione apparente, né la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia. Viceversa, qualora si assuma che una tale pronuncia comporti la mancata valorizzazione di fatti che si ritengano essere stati affermati dalla parte con modalità sufficientemente specifiche, può ammettersi censura, da articolare nel rigoroso rispetto dei criteri di cui agli artt. 366 e 369 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., qualora uno o più dei predetti fatti integrino direttamente elementi costitutivi della fattispecie astratta e dunque per violazione della norma sostanziale, oppure ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., per omesso esame di una o più di tali circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata. Conseguentemente, il motivo è da ritenersi inammissibile in considerazione della sussistenza di una motivazione articolata dalla Corte di merito, sebbene difforme dalle valutazioni dedotte dal lavoratore.
Con il terzo motivo si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115 c.p.c. e 116 c.p.c., anche in riferimento all’art. 55 bis del D.lgs. 165/2001 essendo stati violati i termini perentori previsti, e il diritto di
difesa. Violazione dei principi di cui all’art.111 Cost., in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c.
Il motivo trae spunto dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto relativamente agli elementi probatori agli atti ai fini della contestata tardività dell’addebito disciplinare.
Il motivo è inammissibile avendo la Corte di merito motivato in ordine alla tempestività della contestazione.
Ed invero, la Corte di Appello al riguardo, con congrua motivazione, ha rilevato la erroneità delle deduzioni del lavoratore in ordine alla individuazione del dies a quo per la contestazione disciplinare.
Ad avviso della Corte distrettuale non è da ritenersi possibile, prendere in considerazione, come dies a quo, le date indicate dall’appellante (4.6.2018 – data ultima degli illeciti contestati, 5.6.2018 momento in cui l’Istituto ha preso cognizione dei fatti in quanto la Direzione avrebbe fornito agli ispettori il log-in degli accessi corrispondenti alla consultazione degli estratti contributivi, o, infine, 25.6.2018 – data nella quale veniva redatto il verbale di audizione del lavoratore).
Viceversa, ad avviso della Corte il termine di 30 giorni deve decorrere dal 20.7.2018, data della comunicazione della relazione sugli accertamenti ispettivi all’UPD.
A sostegno di tale opzione interpretativa la Corte distrettuale ha correttamente richiamato i principi affermati dalla Suprema Corte secondo cui l’effetto di impedimento della decadenza si collega, di regola, al compimento, da parte del soggetto onerato, dell’attivit à necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione, demandato ad un servizio, idoneo a garantire un adeguato affidamento, sottratto alla sua ingerenza, per cui, nel caso di specie, l’INPS ha allegato di aver avviato il procedimento
notificatorio con raccomandata A.r. in data 14.8.2018, restituita al mittente, e, quindi, consegnata in data 20.8.2018.
Ciò posto, è da rilevarsi come la valutazione circa il momento in cui l’Amministrazione assuma una notizia di infrazione circostanziata (che è l’unico che rileva: Cass. n. 7134 del 2017; Cass. n. 16706 del 2018 e successive conformi) è da ritenersi valutazione tipicamente di merito insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivata (Cass., sez. lav., 27 maggio 2024, n. 14726), con conseguente inammissibilità della censura.
4. Con il quarto ed ultimo motivo si deduce la nullità della sentenza impugnata per mancanza assoluta dei suoi requisiti essenziali ed in particolare la violazione degli artt. 111 Cost., 118 commi 1 e 2 disp. Att.,132, 2° comma, n. 4 c.p.c., 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.). L’impugnata sentenza appare nulla perché manchevole degli elementi minimi costitutivi di una pronuncia giurisdizionale. La violazione di legge risiede nel fatto che il giudice non ha valutato e applicato le norme riferite al grado di severità della sanzione irrogata.
Anche tale censura è infondata.
La motivazione sul licenziamento è presente ed implicitamente ne giustifica la proporzionalità rispetto agli addebiti.
Assume, inoltre, il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe erroneamente compiuto una valutazione di proporzionalità tale da reputare adeguata la sanzione espulsiva irrogata, da considerare invece incongrua.
E’ da rilevarsi al riguardo che, anche in questo caso, sussistono limiti di sindacato di legittimità in forza del principio di diritto, costantemente affermato, secondo cui, in materia di sanzioni disciplinari, il giudizio di
proporzionalità tra licenziamento e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, in quanto implica un apprezzamento dei fatti che hanno dato origine alla controversia, ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi o manifestamente ed obiettivamente incomprensibili, ovvero ancora sia viziata da omesso esame di un fatto avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto con certezza ad un diverso esito della controversia (ex multis, Cass., sez. lav., 3 gennaio 2024, n. 107). Conclusivamente, il ricorso va respinto con condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte rigetta ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento in favore della controricorrente costituita delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, il giorno 6 maggio 2025.
Il Giudice estensore
La Presidente NOME COGNOME