Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 9694 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 9694 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 10/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso 36286-2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE e COGNOME NOME COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO, nello studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione
contro
ricorrente –
avverso la sentenza n. 1423/2019 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 05/07/2019;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 2.11.2010 COGNOME NOME evocava in giudizio COGNOME NOME e COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Termini Imerese, sezione distaccata di Cefalù, chiedendo l’accertamento dell’illegittima occupazione, da parte dei convenuti, di una porzione di terreno, l’inesistenza della servitù di passaggio su altra particella e la loro condanna a rimuovere i manufatti realizzati su dette aree e a restituirle.
Si costituivano i convenuti, resistendo alla domanda ed invocando l’accertamento dell’intervenuta usucapione, in loro favore, della zona occupata, nonché chiedendone, in subordine, l’acquisizione per effetto di quanto previsto dall’art. 938 c.c.
Con sentenza n. 153/2015 il Tribunale accoglieva la domanda dell’attore, ordinando ai convenuti di restituire le porzioni da essi occupate; accoglieva altresì in parte la riconvenzionale, dichiarando coattivamente costituita, in favore del fondo dei convenuti e a carico di quello dell’attore, una servitù di passaggio pedonale e carrabile, liquidando la relativa indennità dovuta al COGNOME.
Con la sentenza impugnata, n. 1423/2019, la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di prime cure, limitava quantitativamente l’area da restituire al COGNOME, aumentando altresì l’indennità a questo dovuta in virtù della costituzione della servitù coattiva di passaggio.
Propongono ricorso per la cassazione di detta decisione COGNOME NOME e COGNOME NOME, affidandosi ad otto motivi.
Resiste con controricorso COGNOME NOME.
In prossimità dell’adunanza camerale, la parte controricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione degli artt. 132 c.p.c. e 111 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe fornito una motivazione meramente apparente in riferimento alla ritenuta insussistenza del requisito dell’ animus possidendi .
Con il secondo motivo, si duole invece della violazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ravvisato l’irrilevanza degli accertamenti eseguiti in loco dal RAGIONE_SOCIALE, valorizzando invece le risultanze della prova orale, ritenute non idonee ai fini della prova dell’usucapione, a fronte della contraddittorietà delle varie deposizioni.
Con il terzo motivo, i ricorrenti denunziano l’omesso esame del fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare la documentazione versata in atti del giudizio di merito, dalla quale sarebbe emersa la prova della sussistenza dei presupposti richiesti per il riconoscimento dell’usucapione.
Le tre censure, suscettibili di esame congiunto, sono inammissibili.
La Corte di Appello ha ritenuto che i due verbali del RAGIONE_SOCIALE, rispettivamente redatti il 23.3.1989 ed il 1.3.1993, non fossero decisivi ai fini della prova dell’animus possidendi, poiché, rispettivamente:
1) il primo di essi, relativo ad un accertamento eseguito in data 13.2.1989, ovverosia in epoca anteriore al momento in cui i testimoni
COGNOME e COGNOME avevano dichiarato di aver realizzato le opere oggetto di causa, non faceva menzione dell’esistenza dei manufatti; 2) il secondo, invece, redatto il 1.3.1993, ossia in epoca certamente successiva alla realizzazione dei manufatti di cui si discute, non chiariva la data in cui essi erano stati materialmente eretti.
La Corte di Appello, pertanto, ha valorizzato le risultanze della prova testimoniale, evidenziando tuttavia che la contraddizione tra le varie deposizioni non consentiva di ritenere conseguita la prova del possesso utile ad usucapionem (cfr . pag. 4 della sentenza impugnata).
La complessiva ricostruzione del fatto e delle prove prescelta dal giudice di merito viene attinta dalla parte ricorrente mediante la proposizione di una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’
(Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).
Nel caso di specie, infine, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logicoargomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr . Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639).
Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 132 c.p.c. e 111 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente negato la sussistenza della buona fede necessaria ai fini del riconoscimento, in loro favore, dell’accessione invertita prevista dall’art. 938 c.c., ritenendo piuttosto che la fattispecie rientrasse nell’ambito di applicazione dell’art. 936 c.c., sulla base di una motivazione meramente apparente.
Con il quinto motivo, denunziano invece la violazione o falsa applicazione dell’art. 938 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente rigettato la domanda proposta dagli odierni ricorrenti ai sensi di quanto previsto dall’art. 938 c.c.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto, sono inammissibili.
La Corte di Appello ha dato atto che la norma presuppone che colui che costruisce sul terreno altrui versi nella convinzione che la sua proprietà abbia confini diversi da quelli reali e che la buona fede richiesta dalla norma non corrisponde alla mera ignoranza di ledere l’altrui diritto, bensì nella ‘… ragionevole opinione di essere proprietario della porzione di terreno che si occupa …’ (cfr . pag. 5 della sentenza impugnata). Ha poi affermato che, nel
caso di specie, non poteva essere configurata la buona fede degli odierni ricorrenti, in quanto ‘… proprio l’assenza di segni visibili del confine imponeva di osservare un particolare onere di diligenza preventiva, invece non assolto’ (cfr . pag. 6 della sentenza). Ed infine, il giudice del gravame ha evidenziato che i documenti prodotti dagli odierni ricorrenti, a suffragio della loro asserita buona fede, non sono rilevanti, in quanto successivi all’inizio dell’attività di costruzione (cfr. ancora pag. 6).
La statuizione è coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui ‘La buona fede rilevante ai fini dell’accessione invertita di cui all’art. 938 c.c. consiste nel ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere alcuna usurpazione. Essa, in assenza di una previsione analoga a quella dettata in materia di possesso dall’art. 1147 c.c., non è presunta, ma deve essere provata dal costruttore; ai fini probatori, è necessario avere riguardo alla ragionevolezza dell’uomo medio e al convincimento che questi poteva legittimamente formarsi circa l’esecuzione della costruzione sul proprio suolo, in base alle cognizioni possedute effettivamente o che egli avrebbe potuto acquisire con un comportamento diligente, sicché la buona fede deve escludersi qualora, in relazione alle particolari circostanze del caso concreto, il costruttore avrebbe dovuto fin dall’inizio anche solo dubitare della legittimità dell’occupazione del suolo del vicino’ (Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 11845 del 06/05/2021, Rv. 661123; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 345 del 10/01/2011, Rv. 615696 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11836 del 29/11/1993, Rv. 484545). La rilevata assenza di segni identificativi del confine, valorizzata dalla Corte di merito, doveva quindi effettivamente indurre gli odierni ricorrenti ad un onere di cautela preventiva, che non è stato -all’esito di valutazione di merito- ritenuto assolto.
Anche in questo caso, viene in rilievo un accertamento di fatto, sostenuto da motivazione idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a rendere intellegibile il percorso logico seguito dalla Corte palermitana, in relazione al
quale valgono gli argomenti già esposti a confutazione dei primi tre motivi di ricorso.
Con il sesto motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione degli artt. 132 c.p.c. e 111 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe rigettato la domanda di usucapione della servitù di passaggio sulla base di motivazione apparente.
Con il settimo motivo, si duole invece della violazione o falsa applicazione dell’art. 1061 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto insussistente il requisito dell’apparenza.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto, sono inammissibili.
La Corte di Appello ha ritenuto insufficiente la prova conseguita, la quale aveva confermato soltanto l’utilizzazione della stradella oggetto del presunto diritto di passaggio, ma non aveva dimostrato anche l’esistenza di opere apparenti a servizio del diritto reale rivendicato.
Anche questa statuizione è coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui ‘Il requisito dell’apparenza della servitù, necessario ai fini del relativo acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia, si configura come presenza di segni visibili di opere permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio e rivelanti, in modo non equivoco, l’esistenza del peso gravante sul fondo servente, così da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di preciso onere a carattere stabile; ne consegue che, per l’acquisto in base a dette modalità di una servitù di passaggio, non basta l’esistenza di una strada o di un percorso all’uopo idonei, essendo viceversa essenziale che essi mostrino di essere stati realizzati al preciso scopo di dare accesso al fondo preteso dominante attraverso quello preteso servente ed occorrendo, pertanto, un quid pluris che dimostri la loro
specifica destinazione all’esercizio della servitù’ (Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 7004 del 17/03/2017, Rv. 643386; conf. Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 11834 del 06/05/2021, Rv. 661174).
La verifica in relazione alla sussistenza, o meno, del quid pluris di cui sopra, costituisce evidentemente un accertamento di merito, sostenuto da motivazione idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a rendere intellegibile il percorso logico seguito dalla Corte territoriale, onde possono anche in questo caso essere richiamati gli argomenti già esposti in occasione della disamina dei precedenti motivi di ricorso.
Peraltro la stessa parte ricorrente, nello sviluppo del settimo motivo, conferma indirettamente l’assenza del quid pluris , posto che la censura valorizza, a tal fine, la mera esistenza della stradella, che invece costituisce alla luce dei principi in precedenza richiamati- un elemento di per sé non decisivo, né sufficiente.
Con l’ottavo ed ultimo motivo, i ricorrenti lamentano infine la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonché del D.M. n. 55 del 2014, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe liquidato le spese sulla base di uno scaglione di valore superiore a quello previsto dall’art. 15 c.p.c.
La censura è inammissibile per difetto di specificità, posto che il ricorrente non dimostra che nel corso del giudizio di merito fossero stati depositati documenti atti a dimostrare l’ammontare del reddito dominicale dei terreni oggetto di causa. In difetto di tale decisiva prova, la liquidazione contestata appare corretta, poiché la Corte di Appello ha applicato lo scaglione previsto per le cause di valore indeterminabile.
In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 3.700, di cui € 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis RAGIONE_SOCIALE stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda