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Abuso di posizione dominante: la prova del danno

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per abuso di posizione dominante a carico di una grande compagnia telefonica. La società aveva ostacolato un operatore concorrente attraverso procedure di attivazione dei servizi all’ingrosso volutamente più complesse e onerose rispetto a quelle riservate alle proprie divisioni interne. La Suprema Corte ha chiarito che, sebbene il danno non sia automatico, la prova del nesso causale tra la condotta discriminatoria e il pregiudizio economico (come la perdita di clienti) può essere fornita anche tramite presunzioni, basandosi sulla maggiore difficoltà di accesso al mercato imposta al concorrente.

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Pubblicato il 16 settembre 2025 in Diritto Commerciale, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Abuso di posizione dominante: la Cassazione sulla prova del danno

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato un caso emblematico di abuso di posizione dominante nel settore delle telecomunicazioni, fornendo chiarimenti cruciali sulla prova del nesso causale e del danno nelle azioni di risarcimento (private enforcement). La decisione conferma che le pratiche discriminatorie, anche se non si traducono in un rifiuto assoluto di fornire un servizio, possono fondare una richiesta di risarcimento se rendono più difficile l’accesso al mercato per i concorrenti.

I fatti di causa

Il caso nasce dalla denuncia di un operatore di telecomunicazioni (OLO – Other Licence Operator) contro la principale compagnia telefonica nazionale. L’operatore concorrente lamentava di aver subito un danno economico a causa delle pratiche anticoncorrenziali messe in atto dalla compagnia dominante nel triennio 2009-2011.

Nello specifico, la condotta illecita consisteva nell’aver predisposto un processo di evasione degli ordini per i servizi all’ingrosso (accesso alla rete) palesemente discriminatorio. Mentre le divisioni commerciali interne della compagnia dominante beneficiavano di una procedura snella e diretta, gli operatori concorrenti erano costretti a seguire un iter più complesso, oneroso e meno efficiente. Questo sistema generava un numero ingiustificatamente elevato di rifiuti di attivazione (cosiddetti “KO”), costringendo i concorrenti a ripresentare continuamente le richieste e rallentando la loro capacità di acquisire nuovi clienti.

Il Tribunale di primo grado aveva parzialmente accolto la domanda, condannando la compagnia dominante al risarcimento del danno emergente e del lucro cessante. La Corte di Appello aveva successivamente ridotto l’importo del lucro cessante, ma confermato l’impianto accusatorio. La compagnia dominante ha quindi proposto ricorso in Cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso della compagnia dominante, confermando la decisione dei giudici di merito. I giudici hanno stabilito che le argomentazioni della ricorrente non erano sufficienti a smontare il ragionamento logico-giuridico della Corte d’Appello, in particolare sui temi centrali del nesso causale, della prova del danno e della decorrenza della prescrizione.

L’onere della prova nell’abuso di posizione dominante

Uno dei punti centrali del ricorso riguardava l’onere della prova. La compagnia dominante sosteneva che la controparte non avesse adeguatamente dimostrato il legame diretto tra i singoli rifiuti di attivazione (KO) e la perdita di clienti. La Cassazione ha respinto questa visione, chiarendo che l’illecito non risiedeva nei singoli KO, ma nella struttura discriminatoria del processo di attivazione nel suo complesso. Questa procedura penalizzante era di per sé idonea a ostacolare l’attività dei concorrenti, creando una maggiore difficoltà di accesso all’infrastruttura e, di conseguenza, una perdita di quote di mercato.

La Corte ha ribadito che, nelle azioni di risarcimento per violazione delle norme antitrust, spetta a chi agisce (il danneggiato) provare il pregiudizio subito e il nesso di causalità con la condotta illecita. Tuttavia, questa prova può essere raggiunta anche attraverso presunzioni semplici, basate su un ragionamento logico che parte da fatti noti per risalire a quelli ignoti. Nel caso di specie, la condotta discriminatoria accertata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) costituiva il fatto noto da cui presumere l’esistenza di un danno per il concorrente.

La prescrizione del diritto al risarcimento

Altro motivo di ricorso riguardava la prescrizione. La compagnia dominante sosteneva che il termine per l’azione di risarcimento dovesse decorrere dall’avvio del procedimento istruttorio dell’AGCM, momento in cui il concorrente avrebbe potuto avere conoscenza dell’illecito. La Cassazione ha disatteso anche questa tesi, qualificando il danno come “lungolatente”.

I giudici hanno spiegato che, per la percezione completa dell’illecito, non era sufficiente la conoscenza generica delle difficoltà operative. Era invece necessario avere accesso a dati comparativi sui tassi di KO subiti dalle divisioni interne della compagnia dominante e conoscere le concrete modalità del processo di delivery interno. Poiché queste informazioni sono diventate pienamente disponibili solo con la pubblicazione del provvedimento sanzionatorio dell’AGCM, è da quel momento che il termine di prescrizione ha iniziato a decorrere, rendendo l’azione tempestiva.

Le motivazioni della Cassazione

Le motivazioni della Corte si fondano su principi consolidati in materia di concorrenza e responsabilità civile. In primo luogo, viene ribadito che il danno derivante da abuso di posizione dominante non è in re ipsa (cioè non è implicito nella condotta stessa), ma deve essere autonomamente provato. Tuttavia, la prova non richiede necessariamente la dimostrazione analitica di ogni singola perdita, potendo basarsi su un quadro presuntivo solido.

La Corte ha valorizzato il fatto che la discriminazione non era casuale, ma strutturale, derivante da procedure aziendali differenti e penalizzanti per gli operatori esterni. Questa differenza qualitativa nei processi di attivazione costituiva l’essenza dell’abuso, indipendentemente dalla legittimità o meno dei singoli rifiuti tecnici (KO). L’effetto aggregato di tale sistema era quello di rallentare e rendere più costosa l’espansione dei concorrenti, a vantaggio della compagnia dominante.

In merito alla quantificazione del danno, la Corte ha ritenuto legittimo il metodo utilizzato dai consulenti, basato su un confronto con un mercato geografico simile (benchmark) e sulla stima del margine di profitto medio per linea attivata. La critica generica a tale metodo, senza fornire dati alternativi concreti, è stata giudicata insufficiente a invalidare le conclusioni dei giudici di merito.

Conclusioni

La sentenza rappresenta un’importante conferma per le imprese che subiscono pratiche anticoncorrenziali. Stabilisce che, per ottenere un risarcimento, è fondamentale dimostrare l’esistenza di una condotta strutturalmente discriminatoria in grado di ostacolare la concorrenza. La prova del danno e del nesso causale, pur essendo a carico del danneggiato, può avvalersi di presunzioni logiche, specialmente quando la condotta illecita è già stata accertata da un’autorità indipendente come l’AGCM. Infine, la decisione offre un utile chiarimento sulla decorrenza della prescrizione nei casi di illeciti complessi e “lungolatenti”, ancorandola al momento in cui la vittima acquisisce una conoscenza piena e ragionevole di tutti gli elementi dell’illecito.

In un caso di abuso di posizione dominante, il danno economico per il concorrente è considerato automatico?
No, la sentenza ribadisce che il danno non è in re ipsa (automatico). L’impresa che si ritiene danneggiata ha l’onere di provare autonomamente sia l’esistenza del pregiudizio patrimoniale (come la perdita di clienti o il mancato guadagno) sia il nesso di causalità tra tale danno e la condotta illecita dell’impresa dominante.

Come può essere provato il nesso causale tra la condotta abusiva e il danno subito?
La prova del nesso causale può essere fornita anche attraverso presunzioni. Non è necessario dimostrare analiticamente il collegamento per ogni singolo episodio (es. ogni rifiuto di attivazione). È sufficiente dimostrare che la condotta discriminatoria nel suo complesso (es. procedure più complesse e onerose) ha reso più difficile l’accesso al mercato, e che da questa difficoltà è derivato un danno economico, come una minore crescita delle quote di mercato rispetto a uno scenario senza abuso.

Da quale momento inizia a decorrere il termine di prescrizione per chiedere il risarcimento del danno da illecito antitrust?
Il termine di prescrizione decorre non dal semplice compimento dell’illecito, ma dal momento in cui il danneggiato ha avuto, usando l’ordinaria diligenza, una ragionevole e adeguata conoscenza del danno, della sua ingiustizia e dell’identità del responsabile. In casi complessi, come quello esaminato, questo momento può coincidere con la pubblicazione del provvedimento dell’Autorità antitrust, quando solo tale atto rende disponibili tutti i dati necessari per comprendere pienamente la natura discriminatoria della condotta.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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