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Abuso di posizione dominante: Cassazione e risarcimento

Una società di telecomunicazioni ha perso il diritto al risarcimento per abuso di posizione dominante da parte di un concorrente. La Cassazione ha confermato la decisione d’appello, ritenendo inammissibile il ricorso. La corte ha stabilito che, nonostante l’illecito, non era stata fornita prova adeguata del danno subito, in particolare per l’impossibilità di determinare il prezzo ‘interno’ discriminatorio e per vizi procedurali nella richiesta di quantificazione del danno.

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Abuso di posizione dominante: quando la condotta illecita non basta per il risarcimento

L’abuso di posizione dominante è una delle violazioni più gravi del diritto della concorrenza, ma dimostrare la condotta illecita non garantisce automaticamente il risarcimento del danno. Un’ordinanza della Corte di Cassazione ha recentemente ribadito questo principio, dichiarando inammissibile il ricorso di una società di telecomunicazioni che, pur vittima di pratiche anticoncorrenziali, non è riuscita a superare gli ostacoli procedurali e probatori per la quantificazione del danno.

I Fatti di Causa: una lunga battaglia tra operatori telefonici

La vicenda vedeva contrapposte due società del settore delle telecomunicazioni. Una di esse, operatore entrante nel mercato della telefonia fissa, accusava un grande operatore verticalmente integrato (attivo sia nella telefonia fissa che mobile) di aver abusato della sua posizione dominante.

In particolare, l’illecito contestato consisteva nell’applicare al concorrente un prezzo per il servizio di terminazione delle chiamate sulla propria rete mobile superiore a quello, virtuale, che applicava alle proprie divisioni commerciali interne. Questa pratica, nota come margin squeeze o compressione dei margini, avrebbe impedito al concorrente di offrire ai propri clienti tariffe competitive per le chiamate da fisso a mobile, senza subire perdite.

Il Tribunale di primo grado aveva dato ragione all’attrice, riconoscendo l’illecito e liquidando un cospicuo risarcimento. La Corte di Appello, tuttavia, aveva ribaltato la decisione: pur confermando l’esistenza della condotta abusiva fino a una certa data, aveva respinto la domanda di risarcimento, ritenendo errato il metodo di calcolo e non provato il danno effettivo secondo i criteri corretti.

La Decisione della Corte di Cassazione

La società danneggiata ha quindi proposto ricorso in Cassazione, ma la Suprema Corte ha dichiarato tutti i motivi di impugnazione inammissibili, confermando di fatto la sentenza d’appello e negando definitivamente il risarcimento.

La complessità nella quantificazione del danno da abuso di posizione dominante

Il fulcro della questione risiedeva nella difficoltà di quantificare il danno. La Corte d’Appello aveva osservato che il ‘prezzo interno’ praticato dall’operatore dominante alle proprie divisioni commerciali non era un dato reale e contabile, ma un’imputazione virtuale. Di conseguenza, non era possibile calcolare il danno semplicemente come differenza tra il prezzo pagato dal concorrente e questo prezzo interno (metodo dell’overcharge).

Il metodo corretto, secondo i giudici di merito, era quello controfattuale: bisognava dimostrare quali maggiori profitti la vittima avrebbe conseguito se l’abuso non fosse mai avvenuto. L’indagine svolta in appello aveva però concluso che, anche in assenza della condotta illecita, i prezzi finali non sarebbero cambiati in modo significativo e la società danneggiata non avrebbe comunque ampliato la propria quota di mercato. In sostanza, mancava la prova del nesso di causalità tra l’illecito e un danno concreto.

I vizi procedurali e l’inammissibilità del ricorso

La Cassazione ha posto l’accento soprattutto sui profili procedurali. Il ricorso è stato giudicato inammissibile perché i motivi di impugnazione erano formulati in modo confuso, mescolando censure diverse e tra loro incompatibili (violazione di legge, vizi di motivazione, omesso esame di fatti decisivi) senza articolarle in modo distinto.

Inoltre, la ricorrente non aveva efficacemente contestato la ratio decidendi della sentenza d’appello su un punto cruciale: la statuizione di ultrapetizione relativa all’uso di un contratto con una terza società come parametro per il calcolo del danno. I giudici di secondo grado avevano ritenuto che tale prova fosse stata introdotta tardivamente e quindi fosse processualmente inutilizzabile. Poiché questa statuizione in rito non è stata specificamente e correttamente impugnata, ogni argomento basato su quella prova è diventato irrilevante.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su un rigoroso formalismo processuale. L’ordinanza sottolinea che un ricorso per cassazione non può limitarsi a lamentare una decisione ingiusta, ma deve individuare specifici vizi previsti dalla legge e articolarli in modo chiaro e separato. La sovrapposizione di doglianze eterogenee, come avvenuto nel caso di specie, rende impossibile per il giudice di legittimità isolare e valutare le singole censure, portando inevitabilmente a una declaratoria di inammissibilità.

Sul merito della questione del danno, la Corte ha implicitamente avallato l’approccio della Corte d’Appello, evidenziando che l’onere della prova del danno e del nesso causale grava interamente sulla parte che si afferma danneggiata. L’assenza di un dato certo sul ‘prezzo interno’ e l’incapacità di dimostrare, tramite un’analisi controfattuale, un concreto pregiudizio economico, si sono rivelate fatali per la richiesta risarcitoria.

Le conclusioni

Questa pronuncia offre due importanti lezioni pratiche. In primo luogo, nelle azioni di risarcimento per violazione delle norme antitrust, la prova del danno è un elemento tanto cruciale quanto la prova dell’illecito. Non è sufficiente dimostrare l’abuso, ma è necessario quantificare con precisione e con metodi giuridicamente corretti il pregiudizio subito. In secondo luogo, il rispetto delle regole processuali è fondamentale. Un ricorso, anche se fondato su ragioni sostanziali valide, può naufragare a causa di difetti nella sua formulazione, precludendo l’esame del merito e rendendo vana l’intera azione legale.

È sufficiente dimostrare un abuso di posizione dominante per ottenere un risarcimento del danno?
No. Secondo la decisione in esame, oltre a provare la condotta illecita, la parte danneggiata ha l’onere di dimostrare l’esistenza di un danno concreto e il nesso di causalità tra l’abuso e il pregiudizio subito, quantificandolo con metodi probatori adeguati e ammissibili.

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione?
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile principalmente per vizi di formulazione. I motivi di impugnazione mescolavano in modo confuso e indistinto censure eterogenee (violazione di legge, vizi di motivazione, etc.), impedendo alla Corte di esaminarle nel merito. Questo viola il principio di specificità dei motivi di ricorso.

Come si calcola il danno in un caso di discriminazione di prezzo da parte di un operatore dominante?
La sentenza evidenzia che, quando il ‘prezzo interno’ discriminatorio non è un dato reale e conosciuto, non si può usare il metodo del sovrapprezzo (overcharge). La Corte d’Appello, con un approccio confermato dalla Cassazione, ha ritenuto corretto utilizzare un’analisi ‘controfattuale’, che consiste nel valutare quali sarebbero stati i risultati economici della vittima in uno scenario ipotetico senza la condotta illecita.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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