Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 33221 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 33221 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 18/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11721/2021 R.G., proposto da
SORRENTINO NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. +NOME COGNOME elettivamente domiciliata in Roma alla INDIRIZZO per procura su foglio separato allegato al ricorso pec EMAIL
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO per procura su foglio separato allegato al controricorso pec EMAIL
-controricorrente – per la cassazione della sentenza n. 1997/2022 della CORTE d’APPELLO di Firenze pubblicata il 23.10.2020;
Locazione -Danni cosa locata -Abuso di godimento -Risoluzione anticipata
udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 10.10.2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza pubblicata il 16.1.2016 il Tribunale di Grosseto rigettò la domanda promossa da NOME NOME COGNOME di risoluzione del contratto di locazione intercorso con la RAGIONE_SOCIALE avente ad oggetto un’unità immobiliare sita in Grosseto, sul rilievo che i fatti ascritti non fossero gravi ed in ogni caso, quand’anche la conduttrice avesse esorbitato da quanto previsto in contratto, gli interventi eseguiti si erano resi necessari per le pessime condizioni in cui si trovava l’immobile. Il T ribunale di Grosseto, inoltre, accolse in parte la domanda riconvenzionale svolta dalla conduttrice per il risarcimento del danno morale derivante dal reato di tentato esercizio arbitrario di un diritto e, per l’effetto, condannò la COGNOME al pagamento dell’importo di euro 2.000, gravandola delle spese di lite.
La Corte d’Appello di Firenze con sentenza pubblicata il 23.10.2020 rigettò l’appello proposto dalla COGNOME con aggravio delle spese del grado, sulla base delle seguenti argomentazioni:
-quanto al teste COGNOME doveva escludersi la nullità della testimonianza per un preteso interesse in causa per essere il subconduttore dell’unità immobiliare e ‘sostanziale titolare’ della RAGIONE_SOCIALE in quanto nudo proprietario del 90% delle quote, trattandosi non di un problema di incapacità, quanto di attendibilità dello stesso;
-la domanda riconvenzionale era stata in parte accolta sul rilievo del carattere penalmente rilevante (artt. 56 e 393 c.p.) della frase minatoria pronunciata dalla COGNOME, come supportato dal verbale delle sommarie informazioni rese dalla COGNOME, all’ind irizzo della conduttrice qualora non avesse aderito alla richiesta di aumento del canone; perché pronunciata alla presenza di soggetti terzi, la frase (‘ho dei parenti nella camorra e pertanto state attenti’) aveva portata intimidatoria verso COGNOME RAGIONE_SOCIALE la tesi dell’appellante, a cui dire la frase non sarebbe mai stata pronunciata e, comunque, sarebbe stata erroneamente valutata dal Tribunale di Grosseto ed era diretta verso i presenti, era puramente congetturale, priva
di riscontro e contraddetta dal fatto che dinanzi al Tribunale di Grosseto non fosse stata contestata;
-quanto alla domanda svolta dalla COGNOME, esclusa la rilevanza degli interventi sulle parti comuni dell’edificio e su porzioni estranee al bene locato in quanto estranee alla causa petendi , non integrava grave inadempimento l’effettuazione di lavori non autorizzati non essendosi verificata alcuna innovazione atta ad alterare in modo significativo natura e destinazione del bene in relazione all’interesse del locatore alla conservazione dell’ immobile nello stato originario; correttamente il giudice del primo grado aveva ritenuto che gli interventi svolti avessero riguardato aspetti marginali, come tali non incidenti in modo apprezzabile sull’economia del rapporto, per aver riguardato aggiunte e sostituzioni rimovibili al termine del contratto, mentre le lamentele della COGNOME poggiavano su testimonianze de relato ;
-in particolare, la sostituzione della porta di ingresso, agevolmente rimovibile, si era resa necessaria perché quella esistente non chiudeva bene, ed era funzionale alla fruizione del bene; la modifica dell’impianto idraulico, l’installazione dell’autoclav e nel vano ripostiglio e la chiusura della porta conducente dall’appartamento al ripostiglio erano espressamente previsti in contratto;
-quanto alle spese di lite, correttamente il giudice del primo grado, tenuto conto dell’integrale soccombenza dell’attrice e del parziale accoglimento della domanda riconvenzionale, le aveva poste a carico della COGNOME sulla base dello scaglione rapportato alla decisione.
Per la cassazione della sentenza della Corte ricorre la COGNOME, sulla base di sette motivi. Risponde con controricorso RAGIONE_SOCIALE
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, ai sensi dell’art.380bis .1. cod. proc. civ..
Il Pubblico Ministero presso la Corte non ha presentato conclusioni scritte. La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia ‘ai sensi dell’art. 360 c. 1, n. 3 e n. 5: violazione di legge costituita dalle norme di cui all’art. 329 c.p.c. e 112 c.p.c.; vizio di motivazione, omessa o solo apparente, contrasto irriducibile in sentenza di un elemento decisivo della controversia’
La Corte d’appello non avrebbe esaminato le istanze istruttorie svolte dall’appellante, erroneamente ritenute come non riproposte nonostante l’espressa indicazione nell’atto di appello e nelle conclusioni rassegnate, in violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. Tali richieste riproducevano quelle di carattere istruttorio svolte in primo grado all’udienza di precisazione delle conclusioni del 18.9.2015, a loro volta richiamanti il contenuto della nota telematica del 17.9.2015, con le quali si chiedeva la rimessione in termini per consentire la produzione di documenti e della relazione del geom. COGNOME successivi al maturare delle preclusioni istruttorie. Richieste istruttorie, compresa quella di articolazione di prove orali, già erroneamente valutate come tardive dal giudice del primo grado.
1.1. Il motivo è inammissibile.
La ricorrente da un lato impropriamente evoca l’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., poiché non indica alcun «fatto decisivo per il giudizio» il cui esame sarebbe stato omesso, dall’altro prospetta un vizio con riferimento alle norme degli artt. 3 29 e 112 c.p.c., che non trova nell’illustrazione del motivo alcuna argomentazione, dato che le due norme non vengono in alcun modo evocate.
Il vizio di motivazione omessa o solo apparente, al di là della mancata evocazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., se anche, alla stregua degli insegnamenti di Cass., Sez. Un., n. 17931 del 2013, si apprezzasse in questo senso, per un verso risulterebbe mal dedotto, là dove viene fondato su elementi aliunde rispetto la motivazione della sentenza (contro i principi fissati dalle Sezioni Unite nelle sentenze 7 aprile 2014, nn. 8054 e 8053).
Viceversa, il vizio dedotto, asseritamente fondato sul contrasto della motivazione enunciata dalla corte fiorentina con il tenore delle conclusioni enunciate dalla stessa sentenza nella prima pagina, risulta di impossibile apprezzamento, giacché il tenore di queste ultime, non evidenziando a quali mezzi istruttori si
riferisse, non consente a questa Corte di apprezzare se esso si ponga in contrasto con le righe della motivazione oggetto di censura.
A pagina 1 della sentenza impugnata, dove sono riportate le conclusioni delle parti si legge: ‘per la parte appellante: – previa ammissione dei mezzi istruttori richiesti dalla ricorrente e non ammessi e remissione in termini per l’ammissione di documenti formatisi dopo il compimento delle preclusioni istruttorie e per la formulazione di specifici capitoli di prova coi soggetti esecutori degli interventi; previa revoca dell’ordinanza ammissiva dell’esecuzione testimoniale dell’avv. COGNOME e declaratoria di nullità della relativa escussione ai sensi dell’art. 157 c.p.c.’
A pagina 4 della sentenza impugnata si legge: ‘preliminarmente vanno respinte le istanze istruttorie (che concernono non l’ammissione di nuovi documenti e nuovi capitoli, non risultando l’analoga istanza formulata in primo grado riproposta in questa sede, ma la sola ammissione del teste COGNOME) in quanto viene dedotto un profilo di nullità della testimonianza sembra di capire per un preteso interesse in causa in quanto subconduttore e «sostanziale titolare» della RAGIONE_SOCIALE in quanto detentore della nuda proprietà del 90% delle quote’.
Come si ricava da quanto riportato a pagina 1 della sentenza la ricorrente non ha in alcun modo specificato quali mezzi di prova, chiesti e non ammessi in primo grado, sarebbero stati reiterati in sede di appello e non risultano neppure indicati i documenti per i quali chiedeva di essere rimessa in termini al fine di provvedere alla relativa produzione. Da tanto discende come nessuna incoerenza possa ravvisarsi nella sentenza impugnata, là dove a pagina 4, come detto, è stato ritenuto che le istanze istrutt orie svolte dall’appellante riguardavano, in quanto esplicate, ‘non l’ammissione di nuovi documenti e nuovi capitoli, non risultando l’analoga istanza formulata in primo grado riproposta in questa sede, ma la sola ammissione del teste COGNOME in relazi one alla cui testimonianza era stata dedotta la nullità ‘per un preteso interesse in causa’.
Parte ricorrente avrebbe dovuto riprodurre esattamente il tenore delle istanze istruttorie richieste e non ammesse oggetto delle conclusioni, siccome oggetto di un motivo di appello contro la sentenza di primo grado. Invece, non
ha fatto tale riproduzione né nell’illustrazione del motivo, né nel riferire nell’àmbito dell’esposizione del fatto del ricorso il terzo motivo di appello. Ne segue una chiara violazione dell’art. 366, comma primo, n. 6 cod. proc. civ. e l’inammissibilità del motivo anche là dove in ipotesi deduc a la violazione dell’art. 132, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ.
Con il secondo motivo la COGNOME denuncia ‘ai sensi dell’art. 360 c. 1, n. 3 c.p.c.: violazione e falsa applicazione di legge costituita dagli artt. 153 c.p.c., art. 163 c. 3, n. 4 c.p.c., art. 183, c. 7, c.p.c.’
La ricorrente deduce che, non avendo potuto accedere presso l’unità immobiliare locata, le doglianze riportate nell’atto introduttivo rappresentavano quello che era stato possibile accertare fino ad allora. Tale verifica, e la riconducibilità delle deduzioni nel quadro della domanda svolta, si sarebbe potuta completare con lo svolgimento della chiesta C.T.U. inizialmente ammessa dal giudice del primo grado e successivamente revocata. A fronte di quanto disposto, prosegue la ricorrente, aveva fatto eseguire i lavori di ripristino dell’immobile. Di qui la richiesta di rimessione in termini per la produzione della documentazione di spesa e della relazione del geom. COGNOME
2.1. Il motivo è inammissibile.
Anche in tale censura, costituente uno sviluppo delle doglianze contenute nel precedente motivo in merito alle istanze istruttorie svolte in sede di appello, i documenti e le istanze istruttorie, ammesso che si debbano ritenere quelli oggetto delle conclusioni riportate alla pag. 1 della sentenza, non sono indicati come oggetto del motivo di appello de quo , tanto che nella relativa illustrazione l’appello non viene neppure evocato.
Il motivo in esame, anche alla luce di quanto appena detto a proposito del primo motivo, cioè per l’assoluta carenza di indicazione del dove e come in sede di appello della congerie di documenti e deduzioni istruttorie rassegnate fosse stata investita la C orte d’appello, è inidoneo a svolgere la funzione di motivo di impugnazione, espressa con l’affermazione del tutto generica di cui alle prime due righe della pag. 21: ‘La Corte d’appello, pertanto, avrebbe dovuto esaminare nel merito la suddetta reiterata richiesta e affermarne l’ammissibilità/legittimità’. Enunciazione, quest’ultima, effettuata con
riferimento alla decisione di primo grado, mancando, tuttavia, di precisare quali mezzi di prova, chiesti e non ammessi in primo grado, sarebbero stati reiterati in sede di appello, e per quali documenti la COGNOME chiedeva al giudice di secondo grado di essere rimessa in termini al fine di provvedere alla relativa produzione.
Infatti, oltre al già rilevato difetto di «localizzazione» ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 6, cod. proc. civ., il motivo in esame risulta privo di specificità ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ. là dove non enuncia una censura chiara ed univoca rispetto alla sentenza di secondo grado con relativa indicazione della norma violata. L’esposizione del motivo non contiene l’illustrazione del modo in cui il giudice di merito avrebbe violato o falsamente applicato le norme di legge i ndicate nell’intestazione, nessuna delle quali fra l’altro viene evocata direttamente od indirettamente in modo percepibile ad eccezione dell’art. 153 cod. proc. civ.
Il motivo d’impugnazione è costituito dall’enunciazione delle ragioni per le quali la decisione è erronea e si traduce in una critica della decisione impugnata, non potendosi, a tal fine, prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento stesso, la mancata considerazione delle quali comporta la nullità del motivo per inidoneità al raggiungimento dello scopo; tale nullità si risolve in un «non motivo» del ricorso per cassazione ed è conseguentemente sanzionata con l’inammissibilità, ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ. (principio costante: si veda Cass. 11 novembre 2005, n. 359; ed in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto, Cass., sez. un., 20 marzo 2017, n. 7074; nonché Cass., sez. un., 24 luglio 2013, n. 17931 riguardo alla prevalenza della sostanza rispetto alla formale enunciazione del motivo; più di recente Cass. 24 settembre 2018, n. 22478; 12 gennaio 2024, n. 1341).
Con il terzo motivo è denunciata ‘ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 3 e n. 5, c.p.c.: violazione e falsa applicazione delle norme di cui all’art. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo del la controversia ex art. 111, c. 5 e c. 6, Cost.’
Lamenta la Sorrentino che la Corte d’appello erroneamente avrebbe ritenuto che la frase minacciosa, in relazione alla quale era stata accolta la
domanda di risarcimento del danno svolta dalla convenuta, non sarebbe stata da lei contestata. Tale contestazione, invece, ferma la non applicabilità dell’art. 115 cod. proc. civ. nella novella disposta dalla l. 69/2009, era stata effettuata nel procedimen to di primo grado a verbale d’udienza del 5.5.2010 e nella memoria ex art. 183, comma sesto, n. 2, cod. proc. civ.
Del pari erroneamente la Corte d’appello avrebbe ritenuto corretta la valutazione delle dichiarazioni rese dalla COGNOME in sede di sommarie informazioni testimoniali nel corso delle indagini penali, specificando che sarebbe stato del tutto irrilevante, in contrasto con quanto sostenuto dal tribunale, che nella frase non fosse stata indicata come destinataria la COGNOME, ma le persone presenti (COGNOME e COGNOME), poiché l’espressione ‘state attenti’ palesava l’intento di intimidire la conduttrice se non avesse aderito alla richiesta. Ad ogni modo, il contenuto della copia fotostatica, ‘asseritamente riproducente una S.I.T. rilasciata dalla signora COGNOME nell’ambito di un’indagine penale possa assurgere a rango di documento di certa origine e provenienza’, lo si sarebbe potuto valutare come «prova atipica», ossia quale argomento di prova insieme ad altri elementi acquisiti in corso di giudizio, che, tuttavia, erano mancati non essendosi proceduto all’audizione in qualità di testimoni del COGNOME e della Ci uti.
3.1. Il motivo è inammissibile quanto alla dedotta violazione dell’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ., dato che la censura è avanzata sulla base della versione previgente (‘omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio’) rispetto a quella attuale (‘omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti’).
3.2. La ricorrente deduce a torto la violazione del principio di non contestazione assumendo che esso non operasse prima della modifica del 115 cod. proc. civ. ad opera dell’art. 45, comma 14, l. 69/2009.
Sennonché, già anteriormente alla modifica dell’art. 115 cod. proc. civ., come osservato da autorevole dottrina, ‘Per la concreta determinazione del thema probandum , occorre fare riferimento ad un principio tacito, ma non per questo meno importante, in tema di prova: il principio di non contestazione. Si tratta di un principio di diuturna applicazione nelle controversie civili, di
importanza essenziale per non rendere impossibile o comunque eccessivamente difficile l’onere probatorio delle parti ed in ispecie dell’attore, per evitare il compimento di attività inutili e quindi realizzare esigenze di semplificazione e di economia proc essuale’. Principio, quest’ultimo, coessenziale ad un processo basato sulle preclusioni e sulla netta distinzione tra fase preparatoria e fase istruttoria.
A conforto della riferita ‘diuturna’ applicazione, pur in assenza di una esplicita previsione che imponesse una contestazione specifica, è sufficiente ricordare come questa Corte, configurando la contestazione come un presupposto dell’onere della prova, ab bia avuto modo di statuire che la «non contestazione» dell’altra parte dispensa dal provare i fatti non contestati, purché emerga espressamente o da una condotta processuale che ne implica il riconoscimento (v. Cass. 9 giugno 1999, n. 5699; 16 ottobre 1998, n. 10247; 5 dicembre 1992, n. 12947; 4 agosto 1988, n. 4834; 17 giugno 1981, n. 3932). Ancorché, l’effetto della non contestazione si fermasse all’esonero dell’onere della prova (v. Cass., sez. lav., 13 giugno 2005, n. 12636), senza impedire la possibilità della prova contraria (v. Cass., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761), nondimeno esso ha trovato applicazione per effetto di un sistema di argomentazioni difensive conciliabile con la verità dei fatti allegati dall’altra parte.
3.3. Analogamente non correttamente è stata prospettata la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ.
Nell’ambito del ricorso per cassazione una questione di violazione o di falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (v. Cass., 10 giugno 2016, n. 11892; 8 ottobre 2019, n. 25027; 31 agosto 2020, n. 18092; 22 settembre 2020, n. 19798; Cass., sez. un., 30 settembre 2020, n. 20867).
Analogamente, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., che dà rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante (v. Cass. 11892/2016 cit.).
Il motivo in esame, nel denunciare la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, comma primo, n., 3, cod. proc. civ. si discosta dal perimetro sopra delineato e poggia sulla rivisitazione del giudizio di fatto.
3.4. In ordine alle residue prospettate violazioni mette conto richiamare il principio fatto proprio dalle Sezioni Unite di questa Corte, ai sensi del quale la violazione dell’articolo 2697 cod. civ. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’ onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’articolo 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma (v. Cass., sez. un., 5 agosto 2016, n. 16598, in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto; Cass., VI-3, 23 ottobre 2018, n. 26769; sez. lav., 19 agosto 2020, n. 17313). Ciò significa che per realizzare la violazione il giudice deve aver giudicato, o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso articolo 115 c.p.c.),
mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell ‘articolo 116 c.p.c., rubricato per l’appunto “valutazione delle prove” (v. Cass. 10 giugno 2016, n. 11892).
Conclusivamente, il motivo si risolve in una sollecitazione a rivalutare l’apprezzamento della quaestio facti relativa al soggetto destinatario della frase minacciosa in contestazione.
Con il quarto motivo viene denunciata ‘ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 3 e n. 5, c.p.c.: violazione e falsa applicazione degli art. 2697 c.c., 2059 c.c. e 185 c.p.: omessa o carente motivazione su un punto decisivo della controversia (in punto di prova del danno-conseguenza).
La COGNOME deduce che la domanda di risarcimento del danno morale da reato sia stata accolta sulla base della mera qualificazione del fatto come illecito penale, ossia del solo danno evento, ma in assenza di prova del danno conseguenza. Il giudice del primo grado aveva liquidato in via equitativa l’importo di euro 2.000 a ristoro del disagio patito dalla convenuta. Disagio, quest’ultimo, di cui mancava totalmente la prova. In ogni caso, erroneo risultava l’inquadramento della fattispecie, posto che la c ondotta lamentata non aveva determinato alcuna conseguenza apprezzabile: il contratto era proseguito e con esso il godimento dell’abitazione. Nessun ‘esercizio arbitrario delle proprie ragioni’ sarebbe stato possibile configurare, posto che neppure il rico rso al giudice avrebbe consentito di conseguire l’aumento del canone, il quale avrebbe presupposto solo un nuovo contratto.
4.1. Il motivo è inammissibile.
Oltre a ragionare di danno evento a proposito di danno morale da reato, mentre secondo l’orientamento affermato dalle Sezioni unite di questa Corte (v. Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975, v. parag. 2.10) il danno morale ‘ descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini dell’esistenza d el danno, ma solo della
quantificazione del risarcimento’, la ricorrente, in violazione dell’art. 366, comma primo, n. 6, cod. proc. civ., non ha specificato se e come la corte territoriale fosse stata investita della questione oggi articolata.
Con il quinto motivo viene denunciata ‘ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 3 e n. 5, c.p.c.: violazione di legge di cui alla norma dell’art. 1587, n. 1, c.c. motivazione apparente ( principio della ragione più liquida, esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio ), violazione dell’art. 111 Cost., c. 6’.
La Corte d’appello, al fine dello scrutinio della domanda attorea di risoluzione del contratto per inadempimento della conduttrice, erroneamente ha escluso dal thema decidendum le doglianze relative al danneggiamento delle parti comuni dell’edificio e dei beni privati della ricorrente, limitando il suo esame ai soli danneggiamenti dell’unità locata. Questi ultimi, peraltro idonei a sorreggere la condanna della convenuta ‘alla ri messa in pristino stato dei beni o al risarcimento per equivalente,’ erroneamen te sarebbero stati valutati come non integranti un abuso di godimento del bene locato, ai sensi dell’art. 1587, n. 1, cod. civ., in quanto innovazioni atte ad alterare significativamente la natura e la destinazione di esso. Posto che l’abuso di godimento d ella cosa locata può sussistere anche in assenza di danni materiali al bene, potendo rilevare qualunque condotta lesiva degli interessi del locatore, sì che anche le allegazioni esulanti lo stretto perimento della cosa locata avrebbero meritato l’esame da parte della Corte d’appello, la quale ne ha escluso l’esame sulla base del principio della ragione più liquida in contrasto con l’art. 111, comma sesto, Cost.
5.1. Il motivo è inammissibile perché deduce la violazione dell’art. 1587, n. 1, cod. civ. senza esaminarne il contenuto e confrontarlo con le statuizioni della sentenza e, quindi, in contrasto con il principio consolidato in base al quale il vizio di violazione di legge non può sostanziarsi nella mera indicazione delle norme asseritamente violate dal giudice di merito, ma, in ossequio all’onere di specificità dei motivi sancito dall’art. 366, comma primo, n. 4, c.p.c., ne deve esaminare il contenuto precettivo, confrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza di secondo grado, in modo da dimostrare come queste contrastino col precetto normativo.
Del resto, costituisce principio altrettanto consolidato quello per cui non è configurabile alcuna violazione, né tantomeno falsa applicazione di legge, quando con la censura si denuncia, come pure avvenuto nel ricorso de quo , l’asseritamente erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, perché in tal modo la doglianza si colloca al di fuori dell’ambito interpretativo e applicativo della norma di diritto e, come tale, inerisce alla valutazione del giudice di merito, preclusa in questa sede (cfr. tra le molte, in motivazione, Cass., sez. I, ord., 29 febbraio 2024, n. 5436; sez. III, ord., 16 febbraio 2024, n. 4291; sez. I, ord., 16 gennaio 2023, n. 1015; sez. I, ord., 17 novembre 2023, n. 31959; sez. I, ord., 29 novembre 2022, n. 35041, sez. I, ord., 17 novembre 2022, n. 33961).
La ricorrente, oltre a non specificare quale sarebbe il fatto decisivo omesso, sollecita una non consentita rivalutazione della questione di fatto e delle risultanze istruttorie. In ogni caso, la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione. Rimane, pertanto, estranea al vizio previsto dall’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ. qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi primo e secondo, cod. proc. civ., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, atteso che la deduzione del vizio di cui all’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ. non consente di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali, contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (v. Cass. 19 luglio 2021, n. 20553).
Con il sesto motivo è denunciata ‘ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 3 e art. 360, comma primo, n., c. 1, n. 5, c.p.c.: violazione di legge di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c., motivazione apparente, violazione dell’art. 111 Cost., c. 6’.
La ricorrente contesta la decisione della Corte d’appello in ordine alle denunciate modificazioni del bene locato apportate dalla conduttrice sull’erroneo
presupposto che esse fossero fondate su ‘mere testimonianze de relato’, mentre ‘viceversa, dalle ulteriori e differenti prove orali e dall’ingente produzione documentale’ si giunge ad affermare che ‘l’eccezione di inadempimento sia infondata’. Ad avviso della Corte d’appello la sostituzione della porta d’ingresso era intervento rimovibile senza recare danni all’immobile rientrante in quanto previsto nell’art. 5, c. 6, del contratto, nel cui ambito dovevano includersi anche la modificazione dell’impianto idraulico, l’installazione dell’autoclave e la chiusura della porta che ‘dall’appartamento conduceva al ridetto ripostiglio’ (secondo la ricorrente, la porta murata era quella di accesso al ripostiglio dal corridoio).
Premesso che la sostituzione della porta d’ingresso sarebbe dovuta gravare sulla proprietaria del bene, sì che la valutazione in punto rimovibilità era inconferente, era mancata qualsiasi valutazione sulla natura in termini di ‘aggiunte rimovibili’ tanto ex ante rispetto agli interventi effettuati nell’immobile, quanto ex post al fine di verificare se la condotta della conduttrice si fosse sostanziata, o no, nel ripristino del bene. La valutazione sulla qualità degli interventi che, per accordo delle parti, non avrebbero dovuto incidere sul bene al momento della riconsegna sarebbe del tutto inconferente, perché ‘non è sulla base della valutazione soggettiva degli interventi non assentiti come «migliorativi» che si sarebbe potuta escludere l’eccezione di ina dempimento alle obbligazioni, ex art. 1587 c.c., di conservare, mantenere e restituire il bene locato’. L’unico criterio da rispettare sarebbe stato quello di verificare la completa rimessione in pristino come previsto dall’art. 5 del contratto, sì che la conduttrice la si sarebbe dovuta condannare a risarcire il danno al ripristino dell’unità locata.
6.1. Il motivo è inammissibile.
La ricorrente non ha prospettato correttamente la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. Come già detto in precedenza, nell’ambito del ricorso per cassazione una questione di violazione o di falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove
legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (v. Cass., 10 giugno 2016, n. 11892; 8 ottobre 2019, n. 25027; 31 agosto 2020, n. 18092; 22 settembre 2020, n. 19798; Cass., sez. un., 30 settembre 2020, n. 20867).
Analogamente, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., che dà rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante (v. Cass. 11892/2016 cit.).
Quanto alla violazione dell’art. 115, invece, è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. Cass., sez. III, 25 agosto 2020, n. 17675; SU, 20867/2020; sez. III, 11892/2016 cit.).
La ricorrente mediante l’impropria invocazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. spinge verso un riesame del merito della questione di fatto esaminata dal giudice del merito, cercando persino di allargare il perimetro della verifica in punto ‘aggiunte rimovibili’ da riguardare nella prospettiva dell’obbligo della rimessione in pristino e, quindi, in una prospettiva diversa rispetto alla causa petendi indicata al momento del radicamento della lite. Infatti, secondo la ricorrente l’unico criterio da risp ettare sarebbe stato quello di verificare la completa rimessione in pristino come previsto dall’art. 5 del contratto, sì che la
conduttrice la si sarebbe dovuta condannare a risarcire il danno al ripristino dell’unità locata. Sennonché, il criterio proposto non tiene conto della valutazione in ordine alla sussistenza, o no, del dedotto inadempimento, il cui esame è stato condotto dal giudice del merito con una motivazione adeguatamente esplicativa del percorso argomentativo, rispetto alla quale non ricorre il vizio ex 132, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ., pur non citato, in quanto poggiante sulla base di elementi aliunde .
Con il settimo motivo viene denunciato ‘ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c.: violazione e falsa applicazione: violazione e falsa applicazione della norma di cui all’art. 91 c.p.c. e D.M. N. 55/2014 (come agg. dal D.M. n. 37/2018)’.
La ricorrente si duole del rigetto del motivo d’appello in ordine alla sua condanna alla rifusione delle spese di lite in favore della convenuta, la cui domanda riconvenzionale era stata (in parte) accolta. In tale motivo d’appello la COGNOME aveva prospettato che si sarebbe potuta disporre la compensazione delle spese di lite in base alla soccombenza reciproca o che, eventualmente, la liquidazione sarebbe stata da rapportare all’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno, ‘mentre le spese liq uidate ammontavano a circa il triplo della condanna stessa’. Viceversa, la Corte d’appello avrebbe ritenuta corretta la decisione del primo giudice, che aveva preso in considerazione il contenuto effettivo della decisione ed aveva liquidato euro 4.250 in luogo di euro 7.254 liquidabili in base al disputandum . Per contro, sostiene la ricorrente, sulla base dell’importo riconosciuto in sentenza di euro 2.000 si sarebbe potuto liquidare euro 2.430, tanto più che lo stesso tribunale aveva effettuata la liquidazione tenendo conto del valore della controversia in sede di pagamento del contributo unificato.
7.1. Il motivo è infondato.
Quanto alla compensazione delle spese di lite, che rappresenta uno dei due profili portati all’esame della Corte d’appello, la soccombenza deve essere valutata riguardo all’esito finale della lite ed in primo grado, come correttamente sostenuto dalla Cort e d’appello, quell’esito era stato negativo per parte ricorrente avendo visto respingere ogni pretesa e vedendo accolta (sia pur in misura ridotta) la domanda riconvenzionale.
In ogni caso, mette conto rimarcare che la valutazione sulla concessione o meno della compensazione delle spese sul presupposto, eventualmente, della esistenza di una soccombenza reciproca (qui inesistente) o di altre ragioni rientra nel potere discrezionale del giudice di merito ed esula dalla valutazione di questa Corte (in termini, si veda il consolidato principio di diritto di cui a Cass., Sez. Un., n. 14989 del 2005). Infatti, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (v. Cass. 31 agosto 2020, n. 18128; 17 ottobre 2017, n. 24502; 31 marzo 2017, n. 8421; 19 giugno 2013, n. 15317).
Il secondo profilo indicato dalla ricorrente, secondo cui l’importo liquidato di euro 4.245 non corrisponde ai parametri previsti per lo scaglione corrispondente al decisum , è ugualmente infondato. Fermo restando che non è qui in discussione un problema di superamento dei limiti alla possibilità di aumento dei parametri di riferimento, l’importo liquidato si mantiene entro il margine di oscillazione consentito dallo scaglione da euro 1.101 ad euro 5.200, mentre in sede di appello la COGNOME aveva rappres entato che ‘le spese liquidate ammontavano a circa il triplo della condanna stessa’, sì che il profilo oggi rappresentato costituisce una questione del tutto nuova come tale inammissibile.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che liquida in euro 200 per esborsi ed euro 4.000 per competenze professionali, oltre rimborso forfetario del 15%, Iva e cpa se dovuti per legge;
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza sezione civile della