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Abuso contratti a termine: la stabilizzazione basta?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13424/2024, chiarisce che la stabilizzazione di un lavoratore pubblico non elimina automaticamente il diritto al risarcimento per l’abuso di contratti a termine. La Corte ha stabilito che la stabilizzazione è una misura riparatoria solo se è una conseguenza diretta dell’abuso e volta a superare il precariato. Inoltre, inverte l’onere della prova per le differenze retributive: spetta al datore di lavoro dimostrare di aver trattato economicamente il lavoratore in modo non discriminatorio, e non al lavoratore provare il contrario.

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Pubblicato il 15 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Abuso Contratti a Termine: La Stabilizzazione Annulla il Diritto al Risarcimento?

Il fenomeno del precariato nella Pubblica Amministrazione è una questione annosa, che spesso porta a contenziosi legali. Una delle domande più frequenti riguarda l’ abuso dei contratti a termine: cosa succede quando un lavoratore, dopo anni di contratti a tempo determinato illegittimamente rinnovati, viene finalmente stabilizzato? La sua assunzione a tempo indeterminato cancella il diritto a un risarcimento per i danni subiti a causa della precarietà? La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 13424 del 15 maggio 2024, ha fornito risposte cruciali, ribadendo principi fondamentali a tutela dei lavoratori.

I Fatti del Caso

Una dipendente del Ministero dell’Interno, dopo aver lavorato per anni (dal 2008 al 2015) con una serie di contratti a termine, si è rivolta al Tribunale per far accertare l’illegittimità di tale prassi. In primo grado, il Tribunale le ha dato ragione, condannando l’Amministrazione a risarcirle il danno (quantificato in 9 mensilità di retribuzione) e a riconoscerle l’anzianità di servizio maturata e le relative differenze di stipendio.

La situazione si è capovolta in appello. La Corte d’Appello ha accolto il ricorso del Ministero, negando alla lavoratrice sia il risarcimento che le differenze retributive. La motivazione? Nel frattempo, la dipendente era stata stabilizzata. Secondo i giudici d’appello, questa assunzione a tempo indeterminato costituiva una misura riparatoria sufficiente, che eliminava il danno pregresso. Per quanto riguarda le differenze di stipendio, la Corte ha ritenuto che la lavoratrice non avesse fornito prove adeguate della discriminazione subita.

## L’impatto della stabilizzazione sull’abuso contratti a termine

La lavoratrice ha quindi presentato ricorso in Cassazione, e gli Ermellini hanno ribaltato nuovamente la decisione, accogliendo le sue ragioni. Il punto centrale della pronuncia riguarda proprio l’efficacia della stabilizzazione. La Suprema Corte ha chiarito che l’assunzione a tempo indeterminato non è un “colpo di spugna” che cancella automaticamente l’illecito commesso in precedenza dal datore di lavoro.

Affinché la stabilizzazione possa essere considerata una misura sanzionatoria idonea a riparare il danno, devono sussistere condizioni precise:

1. Nesso di Causalità Diretto: L’assunzione deve essere una conseguenza diretta dell’abuso subito. Non basta che sia stata genericamente “agevolata” dalla pregressa esperienza lavorativa.
2. Finalità Riparatoria: L’assunzione deve essere l’esito di misure specificamente volte a superare il precariato, offrendo al lavoratore una ragionevole certezza ex ante di stabilizzazione.

In altre parole, non è sufficiente che il lavoratore venga assunto; è necessario che l’assunzione sia il risultato di un percorso pensato per porre rimedio a una situazione di illegalità. La Corte d’Appello, secondo la Cassazione, ha sbagliato a non verificare queste condizioni, limitandosi a considerare la stabilizzazione come una soluzione sic et simpliciter.

## Anzianità e Differenze Retributive: l’onere della prova nell’abuso contratti a termine

Altro punto fondamentale affrontato dalla Cassazione è quello relativo all’ onere della prova per il riconoscimento dell’anzianità e delle differenze retributive. La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda della lavoratrice perché non aveva provato in dettaglio la discriminazione economica.

La Cassazione ha smontato questa tesi, richiamando un principio consolidato (già affermato dalle Sezioni Unite nel 2001) e pienamente applicabile al pubblico impiego. In tema di inadempimento contrattuale, la regola è la seguente:

– Il creditore (in questo caso, la lavoratrice) ha solo l’onere di allegare l’inadempimento della controparte. Deve cioè affermare di non aver ricevuto il trattamento economico e di carriera che le spettava.
– Spetta invece al debitore (il datore di lavoro pubblico) l’onere di fornire la prova di aver adempiuto correttamente all’obbligazione, ossia di aver pagato tutto il dovuto e di aver riconosciuto l’anzianità in modo non discriminatorio rispetto ai colleghi assunti a tempo indeterminato.

L’Amministrazione non può limitarsi a negare genericamente; deve dimostrare con prove concrete di aver agito correttamente o, in alternativa, provare l’esistenza di “ragioni oggettive” che giustifichino un trattamento differente, come previsto dalla normativa europea (Direttiva 1999/70/CE).

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La decisione della Suprema Corte si fonda su due pilastri giuridici. Primo, il principio di effettività della tutela contro l’abuso dei contratti a termine, di derivazione europea. La sanzione per l’abuso deve essere reale e dissuasiva; la sola stabilizzazione, se non legata causalmente all’abuso stesso, non soddisfa questo requisito. Secondo, il principio generale sull’onere della prova nelle obbligazioni contrattuali. È il datore di lavoro, in quanto debitore della prestazione retributiva e del corretto inquadramento, a dover dimostrare di aver adempiuto ai suoi doveri. Invertire questo onere, come aveva fatto la Corte d’Appello, significa porre sul lavoratore un peso probatorio ingiustificato e contrario ai principi del nostro ordinamento.

Conclusioni

Questa ordinanza della Cassazione rafforza significativamente la posizione dei lavoratori precari della Pubblica Amministrazione. Stabilisce che la stabilizzazione non è un rimedio universale che sana ogni illecito passato e chiarisce che, in una causa per differenze retributive e riconoscimento dell’anzianità, l’onere di provare la correttezza del proprio operato ricade interamente sull’Amministrazione. La causa è stata quindi rinviata alla Corte d’Appello di Roma, che dovrà riesaminare il caso attenendosi a questi importanti principi di diritto.

La successiva stabilizzazione di un lavoratore precario elimina automaticamente il suo diritto al risarcimento per l’abuso dei contratti a termine?
No. Secondo la Corte di Cassazione, la stabilizzazione non cancella in automatico il diritto al risarcimento. Può essere considerata una misura riparatoria solo se è una conseguenza diretta dell’illecito subito e se è l’esito di procedure specifiche volte a superare il precariato, che offrano una ragionevole certezza di assunzione.

In caso di richiesta di differenze retributive, spetta al lavoratore a termine provare la discriminazione rispetto a un collega a tempo indeterminato?
No. La Corte ha stabilito che l’onere della prova è a carico del datore di lavoro (l’Amministrazione Pubblica). Il lavoratore deve solo allegare l’inadempimento (cioè affermare di non aver ricevuto il giusto stipendio o il corretto riconoscimento dell’anzianità), mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adempiuto correttamente ai propri obblighi o che esistevano ragioni oggettive per un trattamento diverso.

Cosa deve fare la Pubblica Amministrazione per dimostrare che la stabilizzazione è una misura riparatoria sufficiente?
L’Amministrazione deve dimostrare che la stabilizzazione non è un evento slegato dal passato, ma che si pone in un rapporto di diretta derivazione causale con l’abuso commesso. Deve provare che l’assunzione è stata l’esito di misure specificamente mirate a porre rimedio alla condizione di precarietà creata illegittimamente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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