Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 3811 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 3811 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 24/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a SAN MINIATO il 19/12/1961
avverso la sentenza del 27/02/2024 della CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo
Il Proc. Gen. si riporta alla requisitoria depositata in atti e conclude l’inammissibilità del ricorso.
udito il difensore
L’avvocato NOME COGNOME sostituto processuale dell’avvocato NOME COGNOME, difensore di fiducia dell’imputato COGNOME, si riporta ai motivi di ricorso ed insiste per l’accoglimento dello stesso.
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Firenze riformava parzialmente in favore dell’imputato, limitatamente all’entità della somma oggetto del contestato reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, che riduceva da 95.000,00 euro a 68.661,00 euro, la sentenza con cui il tribunale di Firenze, in data 15.2.2023, aveva condannato COGNOME NOME, alle pene, principale e accessorie, ritenute di giustizia, in relazione ai fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione ascrittigli al capo a2) dell’imputazione, in qualità di amministratore unico dal 25.11.2009 al 28.1.2013, della società “RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita dal tribunale di Firenze in data 20.5.2015, per avere prelevato per scopi personali la somma innanzi indicata dalle casse sociali.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, articolando sette motivi di ricorso, con cui lamenta: 1) vizio di motivazione con riferimento alla sussistenza della condotta distrattiva in contestazione e del dolo, essendo la corte territoriale incorsa nel travisamento del verbale di assemblea del 2.10.2012, della prova testimoniale del dott. COGNOME e della lettera di dimissioni dell’imputato dalla sua carica; 2) vizio di motivazione in ordine all’attendibilità dei libri e delle scritture contabili; 3) vizio di motivazione e violazione di legge in punto di erronea qualificazione giuridica della condotta in termini di distrazione; 4) vizio di motivazione in ordine alla mancata GLYPH assunzione GLYPH di GLYPH prove GLYPH decisive, GLYPH costituite GLYPH dall’esame dell’imputato e dalla escussione del teste COGNOME oggetto della disattesa richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale; 5) violazione di legge e vizio di motivazione in punto di mancato riconoscimento della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, di cui all’art. 219, I. fall.; 6) violazione di legge e vizio di motivazione in punto di mancato riconoscimento della causa di non punibilità, di cui all’art. 131 bis, c.p.; 7) vizio di motivazione in ordine alla determinazione della durata delle pene accessorie.
Con requisitoria scritta del 10.7.2024, da valere come memoria, essendo stata chiesta, nelle more, la trattazione in forma orale del ricorso, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dott.ssa NOME COGNOME chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
Il ricorso non può essere accolto, essendo sorretto da motivi, in parte infondati, in parte inammissibili.
Inammissibili, per due ordini di ragioni, appaiono il primo e il secondo motivo di ricorso, con cui il ricorrente, deducendo il vizio di travisamento della prova, eccepisce che non è possibile sostenere, alla luce del contenuto delle prove indicate in premessa, che i gravi fatti di gestione contestati al Collazzo in occasione dell’assemblea svoltasi il 2.10.2012, si riferissero alla contestata condotta distrattiva, né che la rinuncia a ogni pretesa economica da parte del ricorrente di cui vi è menzione nel relativo verbale assembleare, sia equivalente ad un’ammissione di responsabilità.
Anzi, osserva la difesa, il COGNOME, con la memoria difensiva ex art. 415 bis, c.p.p., e con il deposito delle lettere di convocazione dell’assemblea del 2.10.2012 e del relativo verbale, aveva spiegato di rassegnare le sue dimissioni per insanabili contrasti insorti con alcuni dei soci, in ordine all’organizzazione e alla gestione delle due aziende (il ristorante “RAGIONE_SOCIALE, gestito dal COGNOME, e il ristorante “RAGIONE_SOCIALE“, gestito da COGNOME NOME) condotte dalla società fallita e di non essere in grado di fornire un quadro esaustivo della situazione patrimoniale per quanto attiene alle entrate, rilevando, inoltre, il ricorrente, che da diversi elementi trascurati dalla corte di appello, risultava che era il COGNOME a gestire di fatto la società, sicché, in conclusione, non sussistendo la prova che l’imputato abbia distratto la minor somma presente nella cassa aziendale alla data del 2.10.2012, anche perché le irregolarità contabili accertate dal curatore e mai contestate evidenziano un’inattendibilità generale della documentazione contabile su cui i giudici di merito hanno fondato la loro decisione, è verosimile ritenere che la complessiva somma di euro 95.000,00 sia stata distratta
successivamente a tale data dalla cassa del locale “INDIRIZZO“, ove lavorava il COGNOME.
Orbene va innanzitutto rilevato che i suddetti motivi di ricorso si risolvono nella pedissequa reiterazione di censure già dedotte in appello e puntualmente disattese dalla corte di merito, dovendosi, per tale ragione, le stesse considerare non specifiche, ma apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Rv. 277710-01).
Il ricorrente, sotto altro profilo, non tiene nel dovuto conto che in tema di giudizio di cassazione sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482).
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, anche a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di Cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.
In questa sede di legittimità, infatti, è precluso il percorso argomentativo seguito dal ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370).
In altri termini, il dissentire dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito e il voler sostituire ad essa una propria versione dei fatti, costituisce una GLYPH mera censura di fatto sul profilo specifico dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, anche se celata sotto le vesti di pretesi vizi di motivazione o di violazione di legge penale.
Del resto che il ricorrente proponga una semplice lettura alternativa del compendio GLYPH probatorio GLYPH emerge GLYPH plasticamente GLYPH dal GLYPH passaggio argomentativo con cui quest’ultimo oppone al ragionamento seguito dalla corte territoriale una semplice congettura, ventilando semplicemente come “verosimile” la circostanza “che la complessiva somma di euro 95.000,00 sia stata distratta successivamente” alla data del 2.10.2012 “dalla cassa del locale “Regina Margherita” (cfr. p. 15 del ricorso).
Il ricorrente, infine, trascura di considerare che nella fattispecie in esame ricorre un caso di “doppia conforme” posto che la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado, sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218).
Ne consegue che resta preclusa la possibilità di dedurre il vizio di motivazione per inidonea valutazione delle risultanze processuali, vale a dire per travisamento della prova, se non nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice ovvero quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 5336 del
09/01/2018, Rv. 272018; Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, Rv. 280155), evenienze tutte non riscontrabili nel caso in esame.
La corte territoriale, invero, attraverso una motivazione affatto lacunosa, manifestamente illogica o contraddittoria, in cui sono state affrontate tutte le questioni riproposte con i motivi di ricorso (cfr. pp. 6-9 della sentenza impugnata), ha fondato la sua decisione sulla circostanza di fatto che, alla data del 2.10.2012, quando l’imputato, come emerge dal relativo verbale assembleare, aveva dato le dimissioni dalla carica di amministratore della società, il conto cassa risultava attivo per euro 68.661,00 (cfr. doc. 6 allegato all’atto di appello), senza che l’imputato abbia fornito alcuna spiegazione plausibile sulla destinazione di tale somma, non rinvenute dal curatore fallimentare, come sarebbe stato suo specifico onere, in qualità di amministratore di diritto.
Si tratta di un dato di natura oggettiva, ricostruito sulla base delle dichiarazioni rese nel corso dell’istruttoria dibattimentale dal commercialista della società fallita, dott. COGNOME il quale, come evidenzia la corte territoriale, “interrogato circa la formazione della “cassa”, ha riferito che questa era stata alimentata dalle fatture di vendita e di acquisto “portate dai soggetti della società”.
Si tratta, dunque, evidenzia la corte territoriale, con logico argomentare, di “un dato scaturente da incassi reali e documentati (il commercialista aveva operato sulla base della documentazione – fatture, bolle, bonifici – a lui trasmessi dai “soggetti della società”) ovvero, detto in altri termini, di “un importo scaturente da fatti di gestione, sorretti da apposita documentazione”, che il ricorrente non ha fatto oggetto di specifica contestazione, ammettendo, anzi, che alla data del 2.10.2012, il conto cassa attivo era pari ad euro 68.661,22 (cfr. p. 5 del ricorso), importo in relazione al quale era ed è configurabile in capo all’amministratore di diritto il dovere di fornire spiegazioni sulla destinazione dei valori di cassa, rimasto inadempiuto da parte del Collazzo.
Tale assunto, che costituisce, per così dire, il “centro gravitazionale” dell’impugnata decisione, rendendo di fatto non decisive le questioni
riproposte dal ricorrente sulla natura dei contrasti insorti tra il COGNOME e gli altri soci, sulle denunciate irregolarità della documentazione contabile, sul preteso ruolo di amministratore di fatto del Conidi, genericamente affermato, risulta del tutto conforme al consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte.
Come è noto, infatti, da tempo l’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità è attestato sul duplice principio che il mancato rinvenimento all’atto della dichiarazione di fallimento di beni o valori societari costituisce valida presunzione della loro dolosa distrazione, a condizione che sia accertata, come nel caso in esame la previa disponibilità, da parte dell’imputato, in qualità di amministratore di diritto della società fallita, di detti beni o attività nella loro esatta dimensione e al di fuori di qualsivoglia presunzione (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 19049 del 19/02/2010, Rv. 247251; Sez. 5, n. 35882 del 17/06/2010, Rv. 248425; Sez. 5, n. 42382 del 24/09/2004, Rv. 231011; Sez. 5, n. 45044 del 24/10/2022, Rv. 283812) e che l’elemento soggettivo del reato è integrato dal dolo generico, per il quale è sufficiente che la condotta di colui che pone in essere l’attività distrattiva sia assistita dalla consapevolezza che le operazioni che si compiono sul patrimonio sociale siano idonee a cagionare un danno ai creditori, senza che sia necessaria l’intenzione di causarlo ovvero che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 21846 del 13/02/2014, Rv. 260407, Sez. 5, n. 51715 del 05/11/2014, Rv. 261739).
Dolo che, peraltro, nel caso in esame, non ha formato oggetto di doglianze dotate della necessaria specificità, né nei motivi di appello, né nei motivi di ricorso.
6. Infondato appare il terzo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente contesta la qualificazione giuridica della condotta addebitata all’imputato, in quanto, come già dedotto in appello, se l’ammanco di cassa deve ricondursi alla rinuncia operata dal Collazzo in sede di assemblea del 2.10.2012 ai crediti relativi ai finanziamenti soci illegittimamente conferiti in azienda e agli eventuali compensi dovutigli
in qualità di amministratore, vale a dire se la contestata appropriazione ha per oggetto somme dovute al Collazzo a titolo di rimborso finanziamenti ovvero di compensi che gli erano dovuti per l’attività svolta in qualità di amministratore di diritto della fallita, non è configurabile a suo carico alcuna distrazione, ma, a tutto voler concedere, una bancarotta preferenziale.
Orbene, a prescindere dalla circostanza che, come correttamente rilevato dalla corte territoriale, non vi è alcuna prova dell’esistenza di presunti “finanziamenti” né degli eventuali compensi vantati dal COGNOME, si tratta di un assunto infondato.
Come affermato, infatti, da un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, integra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale, la condotta dell’amministratore di una società che proceda al rimborso di finanziamenti da lui erogati in qualità di socio in violazione della regola della postergazione di cui all’art. 2467 cod. civ. (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 25773 del 20/02/2019, Rv. 277577).
In altro più recente arresto, per il vero, si è evidenziato come, in tema di reati fallimentari, il prelievo di somme di denaro a titolo di restituzione dei versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione), integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società, mentre il prelievo di somme quale restituzione dei versamenti operati dai soci a titolo di mutuo, determinando il sorgere in capo a questi ultimi di un credito chirografario, effettivo ed esigibile, integra la fattispecie di bancarotta preferenziale (cfr. Sez. 5, n. 27446 del 08/03/2024, Rv. 286623).
Nel caso, in esame, tuttavia il ricorrente non ha esplicitato la natura dei finanziamenti, non eccependo che si trattasse della restituzione di somme erogate a titolo di mutuo.
In ordine ai pretesi compensi, si osserva che, come da tempo affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione la condotta dell’amministratore che prelevi
dalle casse sociali somme a lui spettanti come retribuzione, se tali compensi sono solo genericamente indicati nello statuto e non vi sia stata determinazione di essi con delibera assembleare, perché, in tal caso, il credito è da considerarsi illiquido, in quanto, sebbene certo nell'”an”, non è determinato anche nel “quantum”. (In motivazione, la Corte ha chiarito che non è giustificabile alcuna autoliquidazione dei compensi dell’amministratore: cfr., Sez. 5, n. 30105 del 05/06/2018, Rv. 273767).
Come è stato recentemente chiarito, in tema di bancarotta fraudolenta, spetta al giudice di merito verificare se, in assenza di una delibera assembleare o di una quantificazione statutaria del compenso per l’attività svolta, cui ha diritto il soggetto che abbia ritualmente accettato la carica di amministratore di una società di capitali, il prelevamento da parte di quest’ultimo di denaro dalle casse della società in dissesto configuri il delitto di bancarotta preferenziale o, diversamente, quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, a seconda che il diritto al compenso sia correlato o meno a una prestazione effettiva e il prelievo sia o meno congruo rispetto all’impegno profuso (cfr. Sez. 5, n. 36416 del 11/05/2023, Rv. 285115).
Anche in questo caso, tuttavia, il motivo di ricorso si dimostra lacunoso, in quanto il ricorrente non illustra gli elementi, in ipotesi non considerati dalla corte territoriale, che consentirebbero di qualificare la condotta del Collazzo in termini di bancarotta preferenziale, alla luce dei parametri individuati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di compensi spettanti all’amministratore.
7. Inammissibile, per genericità, si appalesa il quarto motivo di ricorso, in relazione al quale va chiarito che, come si evince dalla incontestata sintesi dei motivi di appello operata dalla corte territoriale, la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale attraverso l’esame dell’imputato e l’escussione del teste COGNOME COGNOME seguiva l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado, formulata dall’appellante per il mancato esame del COGNOME e la mancata escussione in qualità di teste del COGNOME.
Nel rigettare la suddetta eccezione, con motivazione non aggredita dal ricorrente, la corte territoriale osservava che, da un lato, pur essendo stato chiesto l’esame dell’imputato, il giudizio di primo grado si era concluso senza che il suo difensore sollevasse alcuna obiezione sul mancato esame del COGNOME; dall’altro, che, sempre nel giudizio di primo grado, all’udienza del 27.10.2021, vi fu rinunzia al teste COGNOME da parte della difesa, che, tuttavia, nella successiva udienza del 17.5.2022, ne chiese nuovamente l’escussione, incontrando il rifiuto del giudice di primo grado, che ne aveva ritenuta superflua l’audizione (cfr. p. 10 della sentenza impugnata).
Ciò posto, va rilevato che da tempo la giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato il principio, alla luce del quale, in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, nell’ipotesi di cui all’art. 603, comma primo, c.p.p., la riassunzione di prove già acquisite o l’assunzione di quelle nuove è subordinata alla condizione che i dati probatori raccolti in precedenza siano incerti e che l’incombente processuale richiesto rivesta carattere di decisività, mentre, nel caso previsto dal secondo comma, il giudice è tenuto a disporre l’ammissione delle prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado negli stessi termini di cui all’art. 495, c.p.p., con il solo limite costituito dalle richieste concernenti prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti, precisando che, nella prima ipotesi, le ragioni di rigetto possono essere anche implicite nell’apparato motivazionale della decisione adottata (cfr., ex plurimis, Sez. 3, n. 47963 del 13/09/2016, Rv. 268657).
Orbene il mancato accoglimento della richiesta di rinnovazione istruttoria da parte della corte territoriale, trova evidente giustificazione, tale da non imporre una motivazione specifica, nel fatto che la responsabilità del COGNOME in qualità di amministratore di diritto della società fallita, come si è visto, risulta fondata su di un apparato motivazionale non contraddistinto da lacune o manifeste illogicità, o da dati probatori incerti, rispetto ai quali l’esame dell’imputato e l’escussione del COGNOME, che, nella prospettiva difensiva avrebbero dovuto essere
sentiti sul preteso ruolo del COGNOME di reale amministratore di fatto della società fallita, cui andrebbe ascritta la condotta distrattiva, non appaiono decisivi, né risultano adeguatamente prospettati in termini di decisività, come dimostrato anche dalla circostanza che Io stesso imputato rinunciò all’escussione del COGNOME nel giudizio di primo grado e non si oppose a che il dibattimento innanzi al tribunale di Firenze si concludesse senza l’esame dell’imputato, non muovendo riserva alcuna alla dichiarazione di chiusura dell’istruzione dibattimentale.
In tal modo, infatti, l’imputato non solo ha sanato la nullità di ordine generale a regime intermedio, derivante dalla mancata assunzione dell’esame dell’imputato che ne abbia fatto richiesta (cfr. Sez. 3, n. 6152 del 18/11/2020, Rv. 281339), ma ha anche implicitamente rinunciato all’esame (cfr. Sez. 1, n. 9628 del 03/07/1998, Rv. 211280), dimostrando, pertanto, di non attribuire carattere decisivo a tale mezzo di prova.
Identiche considerazioni valgono per il COGNOME, in relazione al quale, come si è detto, fu lo stesso imputato a rinunciare formalmente a sentirlo in qualità di teste.
La corte territoriale, del resto, con particolare riferimento al COGNOME, nel rigettare l’eccezione di nullità e la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, con motivazione dotata di intrinseca coerenza logica, ha evidenziato come le circostanze su cui il COGNOME avrebbe dovuto riferire fossero “prive di rilievo”, atteso che COGNOME era l’amministratore non solo formale della società; perciò quale che fosse il concorrente ruolo di COGNOME, nessun esonero di responsabilità sarebbe disceso dall’ingerenza di Conidi nella gestione dei conti” (cfr. p. 10 della sentenza impugnata).
8. Infondato deve ritenersi il quinto motivo di ricorso
La corte territoriale ha correttamente rigettato la richiesta di riconoscimento in favore del prevenuto della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, facendo riferimento all’importo rilevante della somma oggetto di distrazione, “sia in assoluto, che in relazione al totale dei debiti societari”, con conseguente “significativa riduzione della
soddisfazione dei creditori” (cfr. p. 10 della sentenza impugnata), conformemente all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, secondo cui in tema di bancarotta fraudolenta, la speciale tenuità del danno, integrativa della circostanza attenuante di cui all’art. 219, comma 3, legge 16 marzo 1942, n. 267, va valutata in relazione all’importo della distrazione, e non invece all’entità del passivo fallimentare, dovendo aversi riguardo alla diminuzione patrimoniale determinata dalla condotta illecita e non a quella prodotta dal fallimento (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 52057 del 26/11/2019, Rv. 277658; Sez. 5, n. 5300 del 16/01/2008, Rv. 239118; Sez. 5, n. 19981 del 01/04/2019, Rv. 277243).
Tali principi appaiono del resto ribaditi nella sentenza della Corte di Cassazione richiamata dal ricorrente nel quinto motivo di ricorso, decisione in cui, per l’appunto, si sottolinea come, al fine del riconoscimento della circostanza attenuante di cui si discute, debba farsi riferimento “alla diminuzione del valore del patrimonio che avrebbe dovuto essere a disposizione per soddisfare” le ragioni del ceto creditorio, per cui è “tale valore che deve o meno essere esiguo, indipendentemente dalla sua incidenza percentuale sulla consistenza dell’attivo patrimoniale” (cfr. Sez. 5, n. 13199 del 31/1/2024, non massimata), che è per l’appunto il modo di procedere seguito dalla corte territoriale, facendo riferimento alla rilevante riduzione in assoluto della diminuzione della consistenza del patrimonio della società fallita a disposizione dei creditori, derivante dall’entità della somma distratta, pari a circa settantamila euro.
9. Inammissibile appare il sesto motivo di ricorso, che, come evidenziato dallo stesso ricorrente, presuppone come pre-condizioni la riqualificazione della condotta dell’imputato in termini di bancarotta preferenziale ovvero il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 219, co. 3, I.fall., in assenza delle quali i limiti edittali previsti per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione non consentono l’applicazione della causa di non punibilità, di cui all’art. 131 bis, c.p.
10. Inammissibile risulta il settimo motivo di ricorso.
Come si evince, infatti, dalla incontestata sintesi dei motivi di appello operata dalla corte territoriale, la questione relativa al dedotto vizio di motivazione in punto di determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari applicate nei confronti del COGNOME, non ha formato oggetto di uno specifico motivo di impugnazione in sede di appello. In quanto motivo inedito, dedotto per la prima volta con il ricorso per cassazione, esso deve considerarsi inammissibile, ai sensi dell’art. 606, co. 3, c.p.p.
Si tratta, per altro verso, anche di motivo infondato, in quanto, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di pene accessorie previste per i reati fallimentari, ove la durata sia determinata in misura superiore alla media edittale è necessaria una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi di cui all’art. 133, c.p., tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena, ancor più ove sussista divaricazione nel trattamento sanzionatorio complessivo tra pena principale, irrogata nel minimo, e pene accessorie fissate nel massimo (cfr. Sez. 5, n. 1947 del 03/11/2020, Rv. 280668).
Se ne deduce che, come correttamente rilevato dal pubblico ministero nella sua requisitoria scritta, nel caso in esame non si richiedeva un pregnante onere motivazionale da parte dei giudici di merito, in quanto la durata delle pene accessorie è stata ancorata alla durata della pena principale, determinata in misura pari al minimo editale, con implicito richiamo ai criteri di cui all’art. 133, c.p., richiamati per la determinazione dell’entità della pena principale, anche per individuare la durata delle pene accessorie.
Al rigetto del ricorso, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 24.10.2024.