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Valutazione ramo d’azienda: il marchio vince

In un caso di cessione di un ramo d’azienda, l’Agenzia delle Entrate ha rettificato il valore dichiarato basandosi sul potenziale del marchio, nonostante le perdite operative della società. La Corte di Cassazione ha confermato questo approccio, stabilendo che nella valutazione del ramo d’azienda, il valore del marchio, in quanto componente dell’avviamento, può essere determinato autonomamente e prevalere sulla redditività storica. La Corte ha respinto il ricorso della società, ritenendo la motivazione della sentenza d’appello sufficiente e logica e la valutazione dell’Agenzia legittima.

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Pubblicato il 8 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Valutazione Ramo d’Azienda: il Marchio Può Valere Più dei Profitti?

La corretta valutazione del ramo d’azienda è un momento cruciale in qualsiasi operazione di fusione o acquisizione, con importanti implicazioni fiscali. Ma cosa succede se un’azienda, pur avendo un marchio forte e riconosciuto, ha registrato perdite negli ultimi anni? Può l’amministrazione finanziaria basare la sua valutazione solo sul potenziale del brand, ignorando i risultati economici negativi? La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21164 del 29 luglio 2024, ha fornito una risposta chiara, stabilendo un principio fondamentale per le operazioni di M&A.

I Fatti del Caso: una Cessione Sotto la Lente del Fisco

Una nota società operante nel settore delle bevande acquisiva un ramo d’azienda da un’altra impresa del settore. L’operazione includeva beni immobili e, soprattutto, un marchio storico con una forte presenza a livello regionale. Al momento della registrazione dell’atto, le parti dichiaravano un certo valore per la transazione.

Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate, non convinta della congruità del valore dichiarato, emetteva un avviso di rettifica e liquidazione, richiedendo il pagamento di una maggiore imposta di registro. Secondo il Fisco, il valore dell’avviamento, e in particolare del marchio, era stato sottostimato. L’Agenzia utilizzava un metodo basato sul valore del brand (il cosiddetto “metodo dei canoni di royalty”), anziché sulla redditività passata dell’azienda, che era negativa.

La Commissione Tributaria Regionale dava ragione all’Agenzia, riformando la precedente decisione di primo grado. La società acquirente, ritenendo la decisione errata e la motivazione illogica, decideva di ricorrere in Cassazione.

La questione della valutazione del ramo d’azienda in Cassazione

Il ricorso della società si fondava su tre motivi principali:
1. Motivazione contraddittoria: Si contestava la logica della Corte d’appello che, pur riconoscendo le perdite operative dell’azienda ceduta, aveva poi avallato una valutazione dell’avviamento basata sul solo potenziale del marchio.
2. Motivazione carente sul valore del marchio: La ricorrente lamentava che la determinazione di un tasso di royalty del 3% fosse stata definita “prudenziale” senza un’adeguata giustificazione, ignorando la perizia di parte che suggeriva un tasso dell’1%.
3. Errata valutazione degli immobili: Si criticava l’utilizzo da parte dell’Agenzia di dati comparativi di compravendita ritenuti troppo datati e non omogenei per la stima del valore dei beni immobili.

Le Motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso in ogni sua parte, fornendo chiarimenti essenziali sulla valutazione del ramo d’azienda.

In primo luogo, riguardo alla presunta contraddittorietà della motivazione, i giudici hanno ribadito che il loro sindacato sulla motivazione, dopo la riforma del 2012, è limitato a casi di “anomalia motivazionale” che si traducono in violazione di legge. Non è più possibile contestare la semplice insufficienza o illogicità, ma solo una motivazione assente, apparente o fondata su affermazioni inconciliabili. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la scelta di valorizzare l’avviamento attraverso il marchio, anziché attraverso la redditività storica, fosse una scelta di merito, logica e ben argomentata dal giudice d’appello. Il marchio, infatti, rappresenta un “bene suscettibile di valutazione quale componente del valore di avviamento” e può essere stimato autonomamente, soprattutto quando si tratta dell’asset principale in grado di fidelizzare la clientela.

Sul secondo motivo, relativo al tasso di royalty, la Cassazione ha concluso che la scelta di un tasso specifico (il 3%) rientra nella valutazione di merito del giudice e non è sindacabile in sede di legittimità, a meno che la motivazione non sia del tutto assente, cosa che non si è verificata.

Infine, anche la censura sulla valutazione degli immobili è stata respinta. La Corte ha ricordato che l’Amministrazione Finanziaria può utilizzare diversi “elementi di valutazione”, inclusi metodi analitici (come il costo di costruzione deprezzato) quando mancano dati comparativi diretti e recenti. La giustificazione dell’Agenzia sull’uso di dati più vecchi, a causa della stazionarietà del mercato immobiliare locale, è stata considerata plausibile e sufficiente.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un principio di grande rilevanza pratica: nella valutazione di un ramo d’azienda ai fini fiscali, il potenziale futuro, incarnato dal valore di un marchio, può legittimamente prevalere sulla performance economica passata. L’avviamento non è solo un riflesso dei profitti storici, ma anche e soprattutto della capacità di generarne di futuri. Per le imprese coinvolte in operazioni di M&A, ciò significa che la valorizzazione degli asset immateriali, come i brand, deve essere effettuata con estrema attenzione, poiché l’amministrazione finanziaria può legittimamente basare le proprie rettifiche su stime prospettiche, anche a fronte di bilanci in perdita.

Come va valutato l’avviamento di un’azienda in perdita ai fini fiscali?
Secondo la Corte di Cassazione, l’avviamento può essere valutato attraverso le sue singole componenti, come il marchio. Il valore del marchio, che rappresenta il potenziale di generare redditi futuri e fidelizzare la clientela, può essere determinato autonomamente e può giustificare un valore di avviamento positivo anche se l’azienda ha registrato perdite.

È legittimo per l’Agenzia delle Entrate utilizzare il metodo dei canoni di royalty per stimare il valore di un marchio?
Sì. La sentenza conferma che il metodo basato sulla stima di una royalty (la percentuale del fatturato che un’impresa pagherebbe per usare quel marchio) è un criterio condivisibile per la valutazione del marchio come componente dell’avviamento, specialmente in settori dove il brand è un asset strategico fondamentale.

Quali sono i limiti del controllo della Corte di Cassazione sulla motivazione di una sentenza tributaria?
Dopo la riforma del 2012, la Cassazione può censurare la motivazione solo se è del tutto assente, meramente apparente, perplessa, obiettivamente incomprensibile o caratterizzata da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili. Non può più riesaminare il merito della valutazione dei fatti o la sufficienza della motivazione, se questa esiste e permette di comprendere l’iter logico seguito dal giudice.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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