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Valutazione ramo d’azienda: il marchio conta sempre

La Cassazione ha stabilito che nella valutazione di un ramo d’azienda ai fini fiscali, il valore del marchio è un asset fondamentale, anche se l’impresa ha registrato perdite. L’Agenzia delle Entrate può legittimamente basare la rettifica del valore dichiarato su stime che considerano il potenziale del brand e utilizzare dati comparativi non recenti per gli immobili se il mercato è stazionario. Il ricorso dell’azienda è stato respinto.

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Pubblicato il 8 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Valutazione ramo d’azienda: anche se in perdita, il marchio ha un valore per il Fisco

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato un tema cruciale per le operazioni di cessione aziendale: la valutazione del ramo d’azienda ai fini dell’imposta di registro. La decisione chiarisce che il valore di un marchio storico e noto non può essere ignorato, nemmeno quando l’azienda ceduta attraversa un periodo di difficoltà economiche e registra perdite. Per l’amministrazione finanziaria, il potenziale futuro del brand è un elemento chiave che giustifica una valutazione superiore a quella basata sulla redditività corrente.

I fatti del caso

Una nota società produttrice di bevande aveva ceduto un ramo d’azienda, comprensivo di un marchio storico di acqua minerale, a un’altra impresa del settore. Al momento della cessione, il ramo d’azienda produceva perdite da alcuni anni e necessitava di investimenti significativi in tecnologia e marketing per tornare a essere competitivo.

L’Agenzia delle Entrate, non ritenendo congruo il valore dichiarato nell’atto di cessione, emetteva un avviso di rettifica e liquidazione, ricalcolando l’imposta di registro sulla base di un valore più elevato. La rettifica si fondava su due pilastri:
1. Avviamento: L’Ufficio valorizzava l’avviamento non sulla base della redditività negativa, ma sul valore intrinseco del marchio, considerato il principale asset strategico per fidelizzare la clientela.
2. Immobili: Il valore degli immobili veniva rideterminato utilizzando il metodo comparativo, basandosi su atti di compravendita di beni simili, anche se risalenti a tre anni prima e situati in comuni limitrofi.

La Commissione Tributaria Regionale accoglieva parzialmente l’impostazione dell’Agenzia, dando il via al ricorso per Cassazione da parte dell’azienda cedente.

L’importanza del marchio nella valutazione ramo d’azienda

Il primo punto contestato dalla società riguardava la presunta illogicità della sentenza di secondo grado. Secondo la ricorrente, era contraddittorio escludere il metodo basato sulla redditività (poiché l’azienda era in perdita) per poi far coincidere il valore dell’avviamento con quello del marchio, il cui potenziale si sarebbe manifestato solo dopo gli investimenti del nuovo acquirente.

La Cassazione ha respinto questa tesi, affermando che la motivazione dei giudici di merito non era né apparente né contraddittoria. La scelta di identificare il valore dell’avviamento con quello del marchio è un criterio estimativo legittimo. Il marchio, specialmente se storico e radicato in un territorio, costituisce un bene suscettibile di autonoma valutazione economica, a prescindere dalla redditività contingente dell’azienda. La sua capacità di attrarre e mantenere la clientela rappresenta un valore attuale e non solo futuro.

La determinazione del tasso di royalty

L’azienda aveva inoltre criticato la scelta di un tasso di royalty del 3% per la stima del marchio, ritenendola immotivata e proponendo un tasso dell’1%, supportato da una consulenza di parte. Anche su questo punto, la Corte ha ritenuto la censura inammissibile, in quanto mirava a una rivalutazione del merito della decisione. La determinazione della percentuale è una valutazione di fatto che, se non palesemente illogica o priva di motivazione, non può essere sindacata in sede di legittimità.

I criteri per la valutazione degli immobili

Il secondo fronte di scontro era la stima del valore degli immobili aziendali. La società lamentava che l’Agenzia avesse utilizzato dati comparativi non idonei, ossia compravendite troppo datate (tre anni prima) e relative a terreni non contigui. Secondo la ricorrente, il giudice avrebbe dovuto attualizzare i dati e considerare la perizia di parte che applicava il principio del fair value.

La Corte Suprema ha rigettato anche questo motivo, ricordando che la legge tributaria (art. 51, D.P.R. 131/1986) consente all’Amministrazione Finanziaria di utilizzare un triplice ordine di presupposti per l’accertamento: il parametro comparativo, quello reddituale e “altri elementi di valutazione”. Tra questi ultimi rientra a pieno titolo la stima operata dall’Agenzia del Territorio.

La legittimità dei dati comparativi utilizzati

I giudici hanno confermato la correttezza dell’operato dell’Ufficio e della sentenza di merito. La scelta di utilizzare atti di compravendita non recenti era giustificata dalla “sostanziale stazionarietà” del mercato immobiliare locale in quel periodo. Allo stesso modo, il ricorso a immobili situati in comuni vicini era legittimo in virtù della “omogeneità territoriale” delle aree considerate. Pertanto, i dati usati erano stati ritenuti congrui e pertinenti.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso, ha ribadito alcuni principi fondamentali in materia di accertamento tributario. In primo luogo, il sindacato della Corte sulla motivazione di una sentenza di merito è limitato al cosiddetto “minimo costituzionale”. Non si può contestare una motivazione solo perché non è sufficientemente dettagliata, ma solo se è del tutto assente, meramente apparente, perplessa o irriducibilmente contraddittoria. Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale aveva fornito ragioni chiare e comprensibili per le sue decisioni, sia sulla valutazione del marchio sia su quella degli immobili.

In secondo luogo, la Corte ha sottolineato che contestare i dati probatori scelti dal giudice di merito (come il tasso di royalty o i beni usati per la comparazione) equivale a chiedere un nuovo esame del fatto, attività preclusa nel giudizio di legittimità. Il ricorso per Cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio in cui rimettere in discussione l’attendibilità e la concludenza delle prove.

Le conclusioni

La sentenza consolida un orientamento importante: nella valutazione di un ramo d’azienda, il Fisco può legittimamente attribuire un valore significativo al marchio anche quando i risultati economici correnti sono negativi. Il potenziale di un brand di generare redditi futuri, nelle mani di un acquirente capace di rilanciarlo, è un elemento concreto e attuale che incide sul valore di cessione. Allo stesso modo, la scelta dei criteri di stima immobiliare da parte dell’Agenzia gode di ampia discrezionalità, purché sia logicamente motivata, ad esempio con riferimento alle condizioni del mercato locale. Per le imprese, ciò significa che la redazione di perizie di parte a supporto dei valori dichiarati è fondamentale, ma non è sufficiente a scardinare una valutazione dell’Agenzia se questa si basa su presupposti normativamente consentiti e logicamente argomentati.

Come viene valutato l’avviamento di un ramo d’azienda in perdita ai fini fiscali?
Secondo la Corte di Cassazione, anche se l’azienda è in perdita, l’avviamento può essere valorizzato sulla base di altri elementi, come il valore del marchio. Se il marchio è storico e noto, costituisce un bene suscettibile di autonoma valutazione economica che prescinde dalla redditività contingente, in quanto rappresenta un asset strategico per fidelizzare la clientela e generare redditi futuri.

L’Agenzia delle Entrate può usare dati di compravendita vecchi o di comuni vicini per stimare il valore di un immobile?
Sì. La Corte ha confermato che l’utilizzo di dati comparativi non recenti (nel caso di specie, di tre anni prima) è legittimo se giustificato da una sostanziale stazionarietà del mercato immobiliare. Allo stesso modo, è possibile usare dati di immobili situati in comuni limitrofi se viene dimostrata l’omogeneità territoriale delle aree a confronto.

La scelta di un tasso di royalty per la valutazione di un marchio può essere contestata in Cassazione?
No, se la contestazione mira a una semplice rivalutazione del merito. La determinazione di un parametro tecnico come il tasso di royalty è una valutazione di fatto riservata al giudice di merito. Può essere contestata in Cassazione solo se la motivazione a supporto è totalmente assente, illogica o contraddittoria, ma non se è semplicemente ritenuta non condivisibile dalla parte.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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