Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24798 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24798 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 16307/2016 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO giusta procura in calce al ricorso per cassazione.
Pec: EMAIL
Pec: EMAIL
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore;
– intimata –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della SICILIA, sezione staccata di Caltanissetta, n. 2221/21/2015, depositata in data 28 maggio 2015, non notificata; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25 giugno 2025 dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME, depositate il 28
maggio 2025;
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello principale proposto dalla RAGIONE_SOCIALE (ed anche quello incidentale proposto dall’Agenzia delle Entrate) avverso la sentenza di primo grado che aveva parzialmente accolto il ricorso (avente ad oggetto l’avviso di accertamento con il quale erano stati recuperati a tassazione, per l’anno d’imposta 2002, maggiori ricavi non dichiarati pari ad euro 471.990,00), disponendo l’annullamento dell’atto impugnato limitatamente al recupero della somma di euro 40.000,00 relativa al valore degli accreditamenti dei soci privi di giustificazione e confermando il recupero di euro 406.167,00 per il valore del terreno avuto in permuta per costruirvi appartamenti e di euro 25.823,00 per il valore della differenza della permuta.
I giudici di secondo grado, per quel che rileva in questa sede, hanno ritenuto che:
-) dall’esame dell’atto in contestazione si evinceva che lo stesso conteneva tutti gli elementi utili, imponibile accertato, aliquote applicate, importo delle imposte, presupposti giuridici e di fatto, che avevano determinato l’obbligazione tributaria, l’ esplicazione dell’ iter logico giuridico che aveva condotto l’Amministrazione ad accertare l’obbligazione ed il relativo importo, etc.;
-) l’Amministrazione aveva contestato alla società contribuente che in sede di verifica era stato rilevato che la stessa non aveva riportato sul registro degli inventari i beni oggetto di rimanenze finali raggruppati in categorie omogenee per natura e valore, ma solo per importo complessivo e ciò in violazione dell’art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973;
-) sul punto le argomentazioni difensive erano risultate generiche e non sufficientemente persuasive ed, infatti, stante l’irregolare tenuta delle scritture contabili l’Amministrazione finanziaria era legittimata ad operare induttivamente e ad avvalersi di presunzioni semplici prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza;
-) legittimamente i giudici di primo grado si erano pronunciati sull’esenzione IRPEG ed ILOR, atteso che tale eccezione non era stata sollevata in quella sede e che, di conseguenza, la medesima eccezione non poteva trovare considerazione processuale, nel giudizio di secondo grado, ex art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992.
La RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a sette motivi.
L ‘Agenzia delle Entrate non ha svolto difese.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento del primo, del secondo e del settimo motivo di ricorso.
CONSIDERATO CHE
Il primo motivo del ricorso principale deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. e specificamente del fatto che il valore del terreno di euro 284.051,00, oggetto del contratto di permuta, a seguito della adesione del 7 marzo 2002 con l’Ufficio del Registro di Enna, era stato definito in euro 406.167,00. La CTR riguardo a tale punto della controversia aveva omesso di esprimere qualunque giudizio, limitandosi a ritenere genericamente esatto l’ammontare dei ricavi recuperati in quanto induttivamente
determinati. La questione dell’illegittimità del valore del terreno oggetto di permuta preso in considerazione dall’Ente impositore per l’accertamento era stato un fatto assolutamente ignorato dai giudici della CTR. Se la CTR avesse vagliato la questione del corretto inserimento in contabilità del valore del terreno come pattuito nella permuta vi sarebbe stata una ricostruzione del fatto «certamente diversa» da quella decisa.
2. Il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 53 (oggi art. 85) del d.P.R. n. 917 del 1986 e dell’art. 5 del decreto legge n. 446 del 1997 e dell’art. 53 Cost., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.. Applicazione dello ius superveniens di cui all’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 147 del 2015 in vigore dal 7 ottobre 2015. La CTR non aveva attribuito al terreno il valore effettivo che i contraenti avevano pattuito con contratto di permuta (poi, riportato in contabilità), ma il valore venale dello stesso derivante dalla definizione ai fini dell’imposta di registro, del tutto irrilevante ai fini dell’accertamento dei maggiori redditi, e così facendo aveva violato il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. La definizione di un accertamento ai fini dell’imposta di registro per legge non aveva automatica efficacia ai fini di un accertamento delle imposte sul reddito effettuato sia ai sensi dell’articolo 39, primo comma, sia ai sensi del secondo comma del medesimo articolo del d.P.R. n. 600 del 1973. Questo in quanto i molteplici elementi presi a base dell’accertamento ai fini dell’imposta di registro concernevano il valore e non il corrispettivo percepito e potevano, quindi, rappresentare solamente una presunzione semplice, che doveva essere integrata con elementi aggiuntivi, con onere a carico dell’Ente impositore. Nella fattispecie, i giudici della CTR, laddove non avevano ritenuto ininfluente ai fini delle II.DD. il valore definito ai fini dell’imposta di registro, erano incorsi nella violazione delle norme relative alla determinazione del reddito e del valore della produzione lorda. Nel caso in esame, inoltre,
doveva ritenersi applicabile lo ius superveniens di cui al comma 3 dell’art. 5 del d.lgs. n. 147 del 2015 (norma ritenuta applicabile anche ai giudizi in corso), rilevabile, anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, al fine di evitare che la decisione, con riferimento al diritto vigente, potesse risultare adottata contra legem.
3. Il terzo motivo deduce la violazione dell’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.. La sentenza impugnata doveva ritenersi nulla, laddove i giudici di secondo grado avevano considerato inammissibile, in quanto sollevata per la prima volta dinanzi al giudice di secondo grado, l’eccezione relativa alla sussistenza in capo alla società nell’anno di imposta 2002 della agevolazione disciplinata dalla legge n. 64 del 1986, che era stata invece, regolarmente avanzata in seno al ricorso introduttivo. La questione dell’esistenza del provvedimento in autotutela risultava regolarmente sollevata sia nel primo, che nel secondo grado del giudizio ed esattamente la società aveva sollevato l’omessa pronuncia sulla questione da parte della CTP. Inoltre, era evidente che si trattava di una questione non controversa, considerato che era stato lo stesso Ufficio a fornire in seno all’atto di appello i contenuti specifici del provvedimento in autotutela. Considerato, quindi, che la contestazione relativa alla esenzione IRPEG ed RAGIONE_SOCIALE era stata eccepita sin dal primo grado del giudizio, non era la società ad aver violato il citato articolo 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 quanto, piuttosto, i giudici per aver ritenuto nuova una questione che non era nuova. Anche sotto tale profilo la sentenza doveva, pertanto, ritenersi nulla.
4. Il quarto motivo deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 in relazione al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del principio dispositivo ex art. 369, primo comma, n. 4, c.p.c. La sentenza impugnata andava censurata, in quanto il Collegio, nello statuire sulla infondatezza dell’eccezione di congruità dei ricavi accertati, aveva fatto riferimento alla procedura di
accertamento induttivo, ex articolo 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, travisando così il thema decidendum della controversia avente ad oggetto un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate ex art. 39, comma primo, del d.P.R. n. 600 del 1973. Nel caso in esame l’avviso di accertamento impugnato era stato emesso dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 39, comma primo, del d.P.R. n. 600 del 1973 e la materia del contendere era delimitata, da una parte, dalla pretesa tributaria avanzata dall’Ufficio con un avviso di accertamento emesso ex art. 39, comma primo, del d.P.R. citato il cui fondamento non poteva nel corso del giudizio assumere una latitudine diversa da quanto cristallizzato nell’atto impositivo e, dall’altra, dai motivi specifici dedotti nel ricorso introduttivo dal contribuente per confutare la citata pretesa. Il Giudice invece, nel caso in esame, non si era attenuto alla motivazione del provvedimento ed all’esame dei motivi di ricorso e aveva superato illegittimamente l’oggetto della lite, sostenendo che il reddito accertato doveva ritenersi legittimo alla luce di una procedura accertativa assolutamente differente da quella originariamente usata dalla Agenzia delle Entrate.
5. Il quinto motivo deduce la falsa applicazione dell’art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.. I giudici avevano applicato l’articolo 39, comma secondo, del d.P.R. n. 600 del 1973, ritenendo legittimo l’uso delle presunzioni prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza, in assenza di qualunque presupposto che autorizzasse l’utilizzo di una simile procedura. La rettifica dell’Ufficio si era basata su elementi oggettivi e tangibili, emersi dalla stessa contabilità, ritenuta semplicemente irregolare sotto alcuni profili. Il maggior reddito accertato prendeva le mosse dai dati indicati nella stessa contabilità: la società aveva irregolarmente riportato sul registro degli inventari l’importo delle rimanenze, costituito dal valore di acquisto del terreno anziché dal valore venale dello stesso
definito ai fini delle imposte indirette «complessivamente» anziché «per categorie omogenee»; la società non aveva contabilizzato né la cessione degli appartamenti, né il valore del terreno oggetto della permuta. Nessun ragionamento presuntivo, privo dei requisiti di gravità precisione e concordanza risultava essere stato applicato dall’Ufficio. L’unico dato presunto su cui l’Ente impositore appariva essersi basato per imputare a reddito la somma di euro 431.990,00 quali ricavi della cessione degli immobili, era la consegna degli appartamenti al 31 dicembre 2002, per come i ndicato nell’atto di permuta, ma concretamente disatteso dai dati di bilancio e dall’atto di convalida del 2 settembre 2003.
6. Il sesto motivo deduce la violazione dell’art. 53 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.. I giudici della CTR, travisando il thema decidendum del giudizio, avevano ritenuto che nel caso in esame si trattava di un accertamento induttivo puro. In caso di accertamenti induttivi l’articolo 53 della Costituzione imponeva l’obbligo di prendere in considerazione eventuali costi extracontabili che avevano contribuito a raggiungere il maggior reddito accertato. Laddove i giudici della CTR avevano ritenuto che la fattispecie in esame era da ricondurre all’ipotesi disciplinata al comma due dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, e che il reddito di euro 431.990,00 era stato induttivamente accertato, avrebbero dovuto riconoscere la deducibilità in percentuale dei costi, in modo tale da non incorrere nella violazione dell’articolo 53 della Costituzione e di tassare solo il reddito effettivo e non anche i costi, che tali non sono.
7. Il settimo motivo deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 132 c.p.c. e 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.. La decisone impugnata era nulla, in quanto conteneva una motivazione apparente, assolutamente disancorata dalla vicenda processuale. Dalla stessa risultava tangibile una totale assenza
di valutazione da parte del giudice degli atti del giudizio, manifestando erroneità, superficialità e confusione con riguardo alle questioni contestate. Nel caso in esame, quindi, la sentenza della CTR aveva statuito prescindendo del tutto dalle reali argomentazioni ed eccezioni rilevate in seno agli atti di causa. Dall’avviso di accertamento, come da tutti gli altri atti della causa, risultava assolutamente chiaro che la controversia avesse ad oggetto una ripresa analitica e non una ricostruzione induttiva del reddito. L’accertamento, infatti, era scaturito analiticamente dalla questione se erano stati omessi i ricavi della vendita degli appartamenti e se era maturato o meno, secondo i principi di competenza, l’obbligo di appostare ricavi della vendita degli appartamenti. Il giudice di secondo grado o aveva frainteso la questione trattata, o, impegnato esclusivamente in un procedimento di ‘copia incolla’, non si era reso conto dei contenuti. Non esisteva alcun accertamento induttivo, nessuna ricostruzione basata su presunzioni né gravi, né tantomeno precise e concordanti, ma solo un accertamento analitico.
Il quarto e il settimo motivo, la cui trattazione è prioritaria, devono essere trattati unitariamente perché strettamente connessi. Il settimo deve essere rigettato mentre il quarto è fondato.
Deve ritenersi, infatti, che non sussiste il vizio di motivazione denunciato per aver la CTR, a pag. 4, affermato che l’Amministrazione finanziaria era legittimata ad operare induttivamente e ad avvalersi di presunzioni semplici prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza stante l’irregolare tenuta delle scritture contabili.
Per quanto concerne, invece, la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., deve premettersi che l’art. 39, comma 2, lett. c), del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede che « In deroga alle disposizioni del comma precedente l’ufficio delle imposte determina il reddito d’impresa
sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d) del precedente comma: c) quando dal verbale di ispezione redatto ai sensi dell’art. 33 risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all’ispezione una o più delle scritture contabili prescritte dall’art. 14 ovvero quando le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore »
10.1 In materia di IVA, poi, l’art. 55 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevede che « Se il contribuente non ha presentato la dichiarazione annuale l’ufficio dell’imposta sul valore aggiunto può procedere in ogni caso all’accertamento dell’imposta dovuta indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità. In tal caso l’ammontare imponibile complessivo e l’aliquota applicabile sono determinati induttivamente sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza dell’ufficio ».
10.2 Da tali disposizioni discende che, ai sensi dell’art. 39, comma secondo, lett. d), d.P.R. n. 600/1973, la determinazione del reddito di impresa può essere compiuta dall’amministrazione finanziaria prescindendo dalle presunzioni dotate dei caratteri della gravità, precisione e concordanza, quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ai sensi del precedente comma ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica; si tratta, dunque, di una metodologia di controllo che può essere attivata dall’Amministrazione finanziaria soltanto al ricorrere di precise condizioni caratterizzate da irregolarità estreme o comunque gravissime ed è in tali circostanze che i verificatori hanno facoltà di prescindere, in tutto o in parte, dalle
risultanze del bilancio e delle scritture contabili nei casi in cui siano esistenti e di utilizzare, oltre che prove dirette, anche elementi indiziari connotati da una valenza dimostrativa non particolarmente pregnante, vale a dire presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, c.d. presunzioni semplicissime; in questo contesto, il discrimine tra l’accertamento condotto con il metodo analitico induttivo e con il metodo induttivo puro va ricercato nella parziale od assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili; ed invero, nel primo caso, la incompletezza, falsità od inesattezza degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, essendo legittimato l’Ufficio accertatore a completare le lacune riscontrate utilizzando ai fini della dimostrazione della esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati ovvero della inesistenza di componenti negativi dichiarati anche presunzioni semplici rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 cod. civ.; nel secondo caso, invece, le omissioni o le false o inesatte indicazioni risultano tali da inficiare la attendibilità -e dunque la utilizzabilità, ai fini dell’accertamento – anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari), con la conseguenza che in questo caso l’Amministrazione finanziaria può prescindere in tutto od in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 cod. civ. (Cass., 18 dicembre 2019, n. 33604, in motivazione).
10.3 Anche in tema di accertamento analitico-induttivo e di ripartizione dell’onere probatorio, questa Corte ha statuito il principio secondo cui « In tema di accertamento analitico-induttivo, a fronte dell’incompletezza, falsità o inesattezza dei dati contenuti nelle scritture contabili, l’amministrazione finanziaria può completare le lacune riscontrate utilizzando, ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni
semplici, aventi i requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ., con la conseguenza che l’onere della prova si sposta sul contribuente e che l’eventuale errore qualificatorio del giudice di merito, sul tipo di accertamento, non rileva “ex se” come violazione di legge, ma refluisce in un errore sulla selezione e valutazione del materiale probatorio ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. » (Cass., 2 novembre 2021, n. 30985).
10.4 Nel caso in esame, in cui la società ricorrente sia nel ricorso introduttivo, che nell’atto di appello, aveva evidenziato che l’accertamento posto in essere dall’Ufficio era un accertamento di tipo analitico-induttivo, si lamenta che la sentenza impugnata è del tutto avulsa sia rispetto alla motivazione dell’avviso di accertamento impugnato, sia rispetto ai motivi del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, che si basavano entrambi su una rettifica analitica ai sensi dell’art. 39, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973.
10.5 Tanto premesso, nella specie, nel rispetto del principio di autosufficienza, avendo la società ricorrente trascritto, a pag. 25 del ricorso per cassazione, il contenuto dell’avviso di accertamento da cui rileva che l’Ufficio ha proceduto, ai fini dell’accertamento dei redditi della so cietà contribuente, ai sensi dell’art. 39, comma 1 e 40 del d.P.R. n. 600 del 1973, il giudice del gravame, non ha tenuto conto delle ragioni fondanti la pretesa nell’avviso di accertamento, né ha preso in considerazione la fattispecie concreta, come prospettata nell’avviso di accertamento, ai fini della qualificazione della natura dell’accertamento compiuto, specificando che la società contribuente non aveva riportato sul registro degli inventari i beni oggetto di rimanenze finali raggruppati in categorie omogene per natura e valore, ma solo per importo complessivo; più specificamente la CTR ha evidenziato che la sola mancanza del libro inventari legittimav a l’accertamento induttivo e che stante l’irregolare tenut a delle scritture contabili l’Amministrazione finanziaria era legittimata ad operare induttivamente e ad avvalersi di
presunzioni semplici (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata). Il giudice d’appello, dunque, richiamando sul punto anche giurisprudenza di questa Corte riferita specificamente all’accertamento di tipo induttivo (Cass., 31 marzo 2011, n. 7360) ha accertato che, nel caso in esame, si era in presenza di un accertamento induttivo fondato su presunzioni cd. ‘ supersemplici ‘ , ossia prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, in presenza di una delle tassative condizioni previste dallo stesso art. 39, comma 2, con ciò configurandosi il vizio dedotto dalla società contribuente, avendo rigettato l’appello per ragioni diverse da quelle contestate dall’Ufficio nell’avviso di accertamento impugnato e considerato motivi differenti da quelli dedotti nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
10.6 Questa Corte ha, invero, affermato che « il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione («petitum» e «causa petendi»), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti » (Cass., 3 luglio 2019, n. 17897 Cass., 5 agosto 2019, n. 20932).
10.7 E’ utile, inoltre, precisare che nel processo tributario l’avviso di accertamento costituisce nel suo complesso, e nei limiti delle censure del ricorrente, l’oggetto del giudizio, con la duplice conseguenza che le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario e che l’Ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse da quelle fatte valere con l’atto impugnato; ciò perché l’amministrazione fonda la pretesa su un atto preesistente al processo, nel quale i fatti costitutivi sono stati già allegati in modo ovviamente difforme da quanto ritenuto dal contribuente e, dunque, l’onere di completezza della linea di difesa, che
in concreto si desume dall’art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992, non può essere considerato come base per affermare esistente, in capo all’amministrazione, un onere aggiuntivo di allegazione rispetto a quanto già dedotto nell’atto impositivo (Cass., 13 marzo 2019, n. 7127; Cass., 23 luglio 2019, n. 19806).
10.8 È noto, inoltre, che nel processo tributario, caratterizzato dall’introduzione della domanda nella forma dell’impugnazione dell’atto fiscale, l’indagine sul rapporto sostanziale è limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione, che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso introduttivo di primo grado (Cass., 13 aprile 2017, n. 9637; Cass., 2 luglio 2014, n. 15051; Cass., 15 ottobre 2013, n. 23326). Ne consegue che il giudice deve attenersi all’esame dei vizi di invalidità dedotti in ricorso, il cui ambito può essere modificato solo con la presentazione di motivi aggiunti, ammissibile, ex art. 24 del d.lgs. n. 546 del 1992, esclusivamente in caso di «deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione». Ed è altrettanto pacifico che, nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto all’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale (Cass., 29 dicembre 2017, n. 31224).
Dall’accoglimento del quarto motivo di ricorso discende l’assorbimento del quinto e sesto motivo.
Il primo e il secondo motivo di ricorso, che devono essere trattati unitariamente perché connessi, sono pure fondati.
12.1 Deve premettersi che l’art. 5 del d.lgs. n. 147 del 2015 espressamente disposto che: « Gli articoli 58, 68, 85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5 bis, 6 e 7
del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore, anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347 ».
12.2 Sulla scia della novella legislativa, la cui norma appena richiamata vale come interpretazione autentica della previgente disciplina, con efficacia retroattiva, dunque, questa Corte ha mutato orientamento e ha statuito che, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, l’art. 5 citato esclude che l’Amministrazione possa ancora procedere a determinare, in via induttiva, la plusvalenza realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro (Cass., 18 aprile 2018, n. 9513; Cass., 17 maggio 2017, n. 12265;Cass., 6 giugno 2016, n. 11543).
12.3 Pertanto, l’automatica trasposizione del valore dato al cespite ai fini dell’imposta di registro in sede di accertamento della plusvalenza per la tassazione IRPEF, non trova più ingresso in sede di valutazione della prova, nel senso che non è possibile ricondurre a quel solo dato il fondamento dell’accertamento, dovendo invece provvedere l’Ufficio a individuare ulteriori indizi, dotati di precisione, gravità e concordanza, che supportino adeguatamente il diverso valore della cessione rispetto a quanto dichiarato dal contribuente, con il conseguente corollario che allegate le prove, anche presuntive, spetterà poi a quest’ultimo, con prova contraria, contraddire alle risultanze probatorie offerte dall’Agenzia (Cass., 8 maggio 2019, n. 12131; Cass., 30 gennaio 2019, n. 2610).
12.4 Anche di recente, questa Corte ha affermato che « In tema di imposte sui redditi, la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 147 del 2015, avente efficacia retroattiva, esclude che l’Amministrazione finanziaria possa determinare, in via induttiva, la plusvalenza realizzata dalla cessione di immobili e di aziende solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria o catastale, dovendo l’Ufficio individuare ulteriori indizi, gravi, precisi e concordanti, che supportino l’accertamento del maggior corrispettivo rispetto a quanto dichiarato dal contribuente, su cui grava la prova contraria » (Cass., 6 dicembre 2024, n. 31372).
12.5 La decisione della CTR non si è attenuta ai suddetti princìpi e, quindi, va cassata, dovendo il giudice del rinvio verificare se risulta accertata la percezione di una plusvalenza imponibile da parte della società contribuente (che aveva stabilito un valore del terreno pari ad euro 284.051,00 nel contratto di permuta), sul fondamento di criteri di stima diversi rispetto al valore del terreno come definito in euro 406.167,00, a seguito di adesione del 7 marzo 2022, ai fini dell’imposta di registro.
13. Il terzo motivo è, invece, inammissibile, per difetto di autosufficienza, non essendo stato trascritto nel ricorso per cassazione il contenuto del ricorso introduttivo di primo grado nella parte in cui la società ricorrente assume di avere proposto la questione della sussistenza in capo alla società, nell’anno di imposta 2002, dell’agevolazione disciplinata dalla legge n. 64 del 1986 , impedendo, in tal modo, la necessaria verifica dell’astratta idoneità della censura ad incrinare il fondamento logico giuridico delle argomentazioni che sorreggono la decisione dei giudici di secondo grado che, in merito, hanno espressamente affermato che legittimamente i giudici di primo grado si erano pronunciati sull’esenzione IRPEG ed ILOR, atteso che tale eccezione non era stata sollevata in quella sede e che, di
conseguenza, la medesima eccezione non poteva trovare considerazione processuale, nel giudizio di secondo grado, ex art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata). Ed invero, la società ricorrente afferma, alle pagine 21 e 22 del ricorso per cassazione, di avere « affrontato » la questione già in seno all’istanza di accertamento con adesione e che « Nel ricorso, già a pag. 2, veniva rilevata l’esistenza di tale provvedimento di annullamento in autotutela » e che era stata lamentata l’illegittimità dell’avviso di accertamento perché la società aveva goduto delle esenzioni Irpeg e Ilor ai sensi della legge n. 64 del 1996 fino al 27 ottobre 1992 (il presente giudizio tratta dall’anno d’imposta 2002) e non tra scrive, come era suo onere, il motivo di impugnazione formulato nel ricorso introduttivo di primo grado riguardante la spettanza dell’agevolazione, onere ancor più necessario alla luce della circostanza, pure dedotta a pag. 22 del ricorso per cassazione, che i giudici di primo grado non avevano fatto alcun riferimento al provvedimento di autotutela assunto dall’Ufficio in data 14 novembre 2008 e alla spettanza della citata agevolazione e del dictum affermato (e sopra riportato) nella sentenza di secondo grado a pag. 5 della sentenza impugnata. Né, rileva, all’evidenza la circostanza che l’Ente impositore avesse richiamato nell’atto di controdeduzioni e appello incidentale il provvedimento di autotutela, avendo, poi, l’Ufficio, per q uanto riferito dalla stessa società ricorrente sempre a pag. 22 del ricorso per cassazione, eccepito la violazione dell’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, assumendo che tale censura non era stata sollevata nel primo grado del giudizio.
13.1 Deve, invero, precisarsi che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo , presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza
impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per il principio di autosufficienza di esso (Cass., 23 dicembre 2020, n. 29495; Cass., 29 settembre 2017, n. 22880).
13.2 E’ utile, poi, precisare che q uesta Corte, in proposito ha stabilito che « Nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto all’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili » (Cass., 22 settembre 2017, n. 22015; Cass., 29 dicembre 2017, n. 31224; Cass., 31 maggio 2016, n. 11223) e che, nel caso in esame, la richiesta dell’agevolazione prevista dalla legge n. 64 del 1996 anche per l’anno d’imposta 2002 non poteva prescindere dalla formulazione di un motivo specifico di impugnazione nel ricorso introduttivo del giudizio, in quanto dallo stesso derivava un ampliamento del thema decidendum , non essendo sufficiente il richiamo del provvedimento in autotutela assunto dall’Ufficio con riferimento ad un anno d’imposta diverso o il dedurre genericamente di avere «affrontato» la questione in seno all’istanza di accertamento con adesione.
14. Per le ragioni di cui sopra, va accolto il primo, secondo e quarto motivo, con assorbimento del quinto e sesto motivo; va rigettato il settimo motivo, mentre il terzo motivo va dichiarato inammissibile; la sentenza impugnata va cassata, in relazione ai motivi accolti, e la causa va rinviata alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo, secondo e quarto motivo, con assorbimento del quinto e sesto motivo, rigetta il settimo motivo e dichiara inammissibile il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia la causa alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 25 giugno 2025.