Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 33018 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 33018 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/12/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 4036/2022 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME (CODICE_FISCALE, COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
AGENZIA DELLE RAGIONE_SOCIALE -intimato-
Avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della LOMBARDIA n. 2426/2021 depositata il 29/06/2021.
Udite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME e dell’avv. NOME COGNOME per la parte ricorrente e del Sost. Proc. dr. NOME COGNOME per la PROCURA GENERALE della Corte di Cassazione all’udienza del 25/09/2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/09/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Commissione Tributaria Regionale della Lombardia ( hinc: CTR), con sentenza n. 2426/2021, depositata in data 29/06/2021, ha rigettato l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE e da RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano (n. 5796/23/2019), che aveva respinto il ricorso proposto contro l’avviso di rettifica dell’accertamento n. 811 28 2018 e il provvedimento di irrogazione delle sanzioni n. 81129 2018, relativi a importazioni eseguite nel 2016.
La CTR ha evidenziato come il contenzioso fosse scaturito da un PVC di revisione dell’accertamento del 05/11/2018 del Servizio Antifrode, finalizzato alla verifica della correttezza del valore dichiarato in dogana dalla società RAGIONE_SOCIALE
con sede in Olanda. In relazione alle contestazioni inerenti alla mancata inclusione nel valore di dogana dei costi per RAGIONE_SOCIALE (TAC), diritti di licenza e commissioni di acquisto, il giudice di seconde cure ha così motivato la propria decisione:
1) con riferimento alla contestata inclusione dei diritti di licenza (cd. royalties ) nel valore delle merci a fini doganali ha evidenziato come i giudici di prime cure avessero dato rilievo al fatto che dalla documentazione in atti risultasse la stipulazione, ad opera della parte appellante, di una serie di contratti di licenza per l’uso dei marchi (con i relativi titolari) e di un contratto di produzione concernente prodotti relativi ai marchi oggetto di licenza con i produttori. Entrambi i contratti presentavano una stretta connessione tra i diversi soggetti e i rapporti che vi erano disciplinati. Era infatti previsto che il licenziatario potesse affidare ai subcontraenti la produzione dei beni oggetto di licenza, a condizione che questi ultimi fossero di competenza e reputazione adeguata alla produzione e fornitura dei beni stessi, in conformità agli standards del gruppo Adidas e ai termini del contratto. Nei contratti di licenza era, poi, stabilito l’obbligo del licenziatario di stipulare con i produttori appositi contratti tesi ad assicurare il rispetto degli standards con l’ assunzione nei confronti del licenziante di specifici impegni in termini di controllo di qualità. Il contratto di produzione prevedeva, inoltre , in capo all’importatore (licenziatario del marchio) pregnanti poteri di controllo sul produttore per tutelare l’integrità del marchio e, in particolare, l’obbligo di realizzare i prodotti recanti quest’ultimo solo per l’importatore. Rileva, poi, che « l’analisi degli accordi intercorsi tra le parti conduce a concludere per la sussistenza di svariati indici indicatori del potere di orientamento ed anche di costrizione che esula dal semplice controllo di qualità e che consente di ritenere comprovata la condizione di vendita necessaria affinché
le royalties possano essere aggiunte al valore dichiarato in dogana. » Evidenzia, poi, come secondo i giudici di prime cure la complessa operazione risulti confermata dal potere della licenziante di incidere sull’individuazione dei fornitori, sia in virtù di pattuizioni specifiche del contratto di licenza, sia per mezzo dell’operato dell’importatore, a sua volta controllato dal licenziante. A tal fine rileva che, se ADIDAS non fosse stata libera di controllare il produttore, quest’ultimo sarebbe stato libero di vendere i prodotti recanti i marchi oggetto di licenza direttamente o indirettamente ai distributori e la titolare dei beni immateriali non avrebbe incassato le relative royalties . Invece, i contratti di licenza prevedevano che se il canone o il costo di licenza non fosse stato pagato al produttore era vietato produrre e vendere all’importatore i beni che incorporavano la proprietà intellettuale del licenziante. Richiama, poi, le clausole contrattuali che prevedevano « il potere di subordinare la vendita della merce all’approvazione del licenziante dei campioni di pre-produzione e dei materiali accessori, il potere del licenziante di estendere a terzi produttori il rispetto degli obblighi derivanti dal contratto di licenza, il potere del licenziante di ispezionare gli impianti, le attrezzature, le tecniche di produzione, assemblaggio e immagazzinamento del licenziatario e dei suoi subcontraenti (produttori e distributori); le merci del fabbricante sono specifiche del licenziante con riguardo al marchio di fabbrica.» Ha poi citato la giurisprudenza di questa Corte (Cass., n. 8473 del 2018) evidenziando che: « lo spartiacque tra royalties comprese e royalties escluse dal valore doganale è individuato nel loro essere o meno strettamente connesse al contratto di compravendita internazionale: se il prezzo della licenza è un elemento irrinunciabile dell’accordo, all ora tale prezzo concorre a determinare il valore complessivo dell’operazione e va di conseguenza assoggettato alla
tassazione doganale; qualora l’acquisto del prodotto estero non comporti obbligatoriamente il pagamento di royalties, queste ultime dovranno essere aggiunte al prezzo di acquisto ai fini della determinazione del valore in dogana della merce.»
2) con riferimento alla contestazione relativa all’inclusione delle commissioni di acquisto nel valore di dogana (cd. buying commissions ) ha rilevato che RAGIONE_SOCIALE nel caso di specie non ha svolto il ruolo tipico dell’agente di vendita, ma semmai un’attività accostabile all’intermediazione. Gli ordini di acquisto risultano, infatti, eseguiti da RAGIONE_SOCIALE direttamente nei confronti dei produttori, senza alcun riferimento all’agente. I pagamenti nei confronti dei produttori selezionati avvengono da parte di RAGIONE_SOCIALE tramite il sistema RAGIONE_SOCIALE , con la conseguenza che il file di pagamento viene approvato da RAGIONE_SOCIALE e inviato alla banca di riferimento tramite il sistema SAP. Nei manufacturing agreement stipulati tra RAGIONE_SOCIALE e i vari produttori si legge che il produttore deve accettare ordini di acquisto provenienti solo da RAGIONE_SOCIALE, deve emettere le fatture nei confronti di quest’ultima e riscuotere i relativi pagamenti. L’agente non agisce in rappresentanza dell’importatore al momento dell’acquisto, ma svolge una serie di servizi propri di un’ altra fattispecie contrattuale, assimilabile all’intermediazione per conto dell’importatore o procacciamento di affari. Di conseguenza, il corrispettivo riconosciuto all’agente non può essere considerato come ‘commissione d’acquisto’ ai sensi dell’art. 32, par. 4, Reg. CEE n. 2913 del 1992, ma rientra nella più generica definizione di commissioni e spese di mediazione cui fa riferimento la medesima norma;
con rifermento ai cd. Technical assistance charges (TAC) ha evidenziato come, in sede di accertamento, fosse stato precisato che non possono essere considerati come campioni le merci importate con bollette doganali a cui è allegata una fattura del fornitore contenente le sigle ‘SMS’ e ‘PRESELL’, trattandosi di merci destinate alla vendita sul territorio nazionale, regolarmente fatturate e pagate.
Infine, con riferimento alla contestazione relativa al mancato rispetto del principio di proporzionalità in relazione alle sanzioni applicate ha rilevato che l’art. 303 T.U.L.D. è stato applicato con gli scaglioni nel minimo, « applicando ad ogni singolo compreso nella dichiarazione una sanzione autonoma » e che la norma consente, comunque, margini di discrezionalità e segue la ratio che il legislatore ha impresso alla disposizione, con la conseguenza che l’amministrazione è priva di ogni discrezionalità in m erito alla scelta delle sanzioni.
Avverso la sentenza della CTR la società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE hanno proposto ricorso in cassazione con quattro motivi.
La parte intimata non si è costituita.
La Procura Generale presso la Corte di cassazione ha depositato requisitoria scritta , chiedendo l’accoglimento del quarto motivo e il rigetto dei primi tre motivi di ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE hanno contestato la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 del Codice Doganale Comunitario (Reg. CEE n. 2913 del 1992, hinc : CDC), in relazione all’art. 360, primo comma,
n. 3, cod. proc. civ., per l’erronea inclusione dei costi d’acquisto nel valore doganale delle merci.
1.1. La parte ricorrente, richiamato l’art. 32 CDU, evidenzia come la disposizione comunitaria escluda espressamente gli importi corrisposti a titolo di commissione d’acquisto, riconosciuti a chi, in esecuzione di uno specifico obbligo contrattuale, si pone al di là del mero procacciamento d’affari. Rileva, quindi, che in forza del cd. Buying Agency Agreement concluso in data 01/10/2008 tra la ricorrente (in qualità di Principal) e RAGIONE_SOCIALE (in qualità di Agente) con sede a Hong Kong (facente parte sempre del gruppo Adidas) la seconda ha incaricato la prima di agire per suo conto al fine di svolgere le funzioni richieste in relazione all’acquisto dei beni, comprese quelle relative ai rapporti commerciali con i produttori per conto del Principal . La ricorrente evidenzia come l’Ufficio abbia incentrato le proprie contestazioni sull’assenza del potere di rappresentanza diretta del Principal . Tuttavia, era palese che le attività svolte dall’agente fossero nell’esclusivo interesse di quest’ultimo ( i.e. RAGIONE_SOCIALE).
1.2. Rileva come il CDC elenchi tassativamente gli oneri che possono essere addizionati al prezzo effettivamente pagato o da pagare e che sarebbe stato necessario che l’Ufficio avesse provveduto a dettagliare e motivare l’inclusione dei singoli servizi compresi nel Buying Agency Agreement in ciascuna delle categorie espressamente indicate nel codice doganale. Inoltre, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto esaminare le caratteristiche di RAGIONE_SOCIALE per inferirne un ruolo di mediazione (assente nel caso di specie), senza limitarsi a un generico riferimento all’intermediazione.
1.3. La parte ricorrente ha, quindi, concluso evidenziando l’irrilevanza del concetto di intermediazione e di specifica spendita
del nome del mandante dell’agente agli acquisti qualora le commissioni siano, comunque, corrisposte a soggetti appartenenti al medesimo gruppo, a fronte di attività contrattualizzate e condotte nel solo interesse dell’acquirente/importatore.
Con il secondo motivo di ricorso è stata contestata la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 CDU (Reg. CEE n. 2913 del 1992) in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per l’erronea inclusione dei costi di assistenza tecnica ( cd. TAC) nel valore doganale delle merci.
Si tratta di costi di design e sviluppo, rimanenze e costi legati ai macchinari di produzione (solo calzature). La rettifica è stata determinata dalla mancata inclusione di tali costi su articoli di campionario in relazione ai quali alle bollette doganali erano allegate delle fatture riportanti la chiara dicitura ‘SMS’ o ‘PRESELL’. Secondo l’Ufficio l’allegazione delle bollette alle fatture non sarebbe circostanza sufficiente a farle escludere dall’assoggettamento agli oneri doganali. La parte ricorrente contesta la motivazione dei giudici di merito, evidenziando, in primo luogo, che si tratta di merce non destinata alla vendita e non riconducibile a una determinata produzione, qualificabile come campionario o merce destinata agli showroom aziendali.
In secondo luogo, rileva che i costi di assistenza tecnica possono essere contabilizzati e applicati solo ex post sulla produzione effettiva e non anche su campionari o sulla preproduzione, considerata l’impossibilità di determinazione degli oneri. Richiam a in particolare la dichiarazione resa in data 07/02/2017, evidenziando che il Gruppo Adidas non aggiunge alcun importo per Oneri di assistenza tecnica (cd. TAC) alle importazioni di campionario, perché « il costo complessivo di design e sviluppo, quello pe r l’attrezzatura, nonché i costi accessori, ammontari non disponibili al momento
dell’importazione dei campioni comunque denominati, sono inclusi nel calcolo complessivo dei TACs e integralmente ripartiti sulle spedizioni in blocco. Ciò significa che i TACs sono già interamente ripartiti e dichiarati all’interno della spedizione in blo cco, a prescindere dal volume delle spedizioni di campionario, che sono irrilevanti a tal fine .»
Con il terzo motivo è stata contestata la violazione e falsa applicazione degli artt. 32 CDC e 157 d.att. del CDC (Regolamento CEE n. 2454 del 1993), in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per l’erronea inclusione dei diritti di licenza nel valore doganale delle merci.
3.1. La ricorrente ha contestato la contrarietà della sentenza impugnata alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sent. 09/07/2020, causa C-76/19), secondo la quale nel caso in cui le cd. royalties siano versate a un soggetto diverso dal fornitore della merce -come nel caso di specie -è necessario accertare se la persona legata al venditore sia in grado di garantire che l’importazione delle merci sia subordinata al pagamento in suo favore dei diritti di licenza.
La ricorrente evidenzia come secondo la CGUE l’inclusione automatica dei corrispettivi versati dalla licenziataria in favore della licenziante nel valore doganale delle merci impone di verificare possibilità di controllo (inteso come potere di costrizione o di orientamento) da parte della società licenziante sui fornitori delle merci e la circostanza che il pagamento dei corrispettivi sia una condizione di vendita delle merci (senza la quale tale contratto non potrebbe essere concluso e le merci non potrebbero essere consegnate).
Nel caso di specie non è stata fatta nessuna verifica da parte della CTR, che non ha accertato i contenuti delle clausole contrattuali,
limitandosi a dedurre dalla sola esistenza di due distinti rapporti (uno di licenza e uno di vendita) l’automatismo di una loro fantomatica connessione, senza verificare da quali fatti e documenti emergesse il controllo del licenziante sul produttore e se, in assenza di pagamento, la vendita e la consegna delle merci avrebbero potuto avere luogo. La CTR è giunta, invece, a individuare un controllo di fatto, facendo leva sui rapporti intercompany. In particolare, la ricorrente rileva che: « Detto in altre parole, viene asserito -ma mai provato! -un controllo di fatto del licenziatario sul produttore in ragione della mera ‘possibilità’, riconducibile ad un fisiologico controllo sulla qualità della produzione, che aITBV, in ragione dell’assetto del Gruppo e de lle funzioni svolte dalle varie società allo stesso appartenenti, possa in ipotesi designare un altro membro del Gruppo cui appartiene (e non certo solo la licenziante) per la verifica del rispetto da parte dei produttori delle obbligazioni dedotte in contratto. »
Rileva come non sia stato adeguatamente considerato l’assetto del gruppo multinazionale, così come le sue dimensioni e la sua complessità. Non è stata considerata, poi, la tecnica redazionale dei contratti, in ragione della quale non solo il licenziante, ma anche altre società del gruppo possono interagire con i produttori. Ha richiamato, poi, la necessità di tutelarsi contro l’immissione sul mercato ‘alla cieca’ di prodotti contraddistinti da marchi particolarmente noti per i quali le licenzianti e il gruppo rispondono ai clienti in termini di immagine, nonché l’attenzione che un gruppo come Adidas deve rivolgere al rispetto dei diritti umani e lavorativi delle persone di cui si avvalgono le imprese manufatturiere terze. Nel caso di specie, tuttavia, i contratti di licenza si limitano a prevedere che l’inadempimento del licenziatario alle proprie
obbligazioni di pagamento, non rimediato nel termine essenziale di dieci giorni, costituisca causa di risoluzione dell’accordo.
3.2. La ricorrente evidenzia come si giunga alle stesse conclusioni anche attraverso l’analisi della cd. soft law dell’Organizzazione Mondiale delle Dogane (Word Customs Organisation, WCO), secondo le quali si può parlare di condizioni di vendita, se viene fatto riferimento alle royalties nell’accordo di produzione e vendita o nei documenti allegati, alla vendita nel contratto di licenza, alla cessazione dell’accordo di produzione e vendita quale conseguenza diretta dell’infrazione del contratto di licenza, al divieto nel contratto di licenza di produrre o vendere i beni che incorporano diritti di proprietà intellettuale se le royalties non vengono corrisposte, alla possibilità, concessa all’interno del contratto di licenza, che il licenziante possa ingerirsi nella produzione e nella vendita tra importatore e produttore, al di là delle ipotesi di controllo della qualità.
Nessuno degli indicatori appena menzionati -conformi alle indicazioni formulate dal Comitato Tecnico per la Valutazione Doganale della WCO nell’Advisory Opinion n. 4.13 ricorre nel caso di specie.
3.3. Rileva, inoltre, come l’esistenza di un controllo sul produttore sia da escludere in considerazione sia delle dimensioni di uno dei più importanti manufacturer di cui si avvale Adidas, cioè NOME COGNOME (una società di Hong Kong con un fatturato superiore, addirittura, a quest’ultima), sia del fatto che quest’ultimo produce anche per i maggiori competitors di Adidas.
3.4. Richiama, infine, la giurisprudenza di questa Corte che ritiene non daziabili le royalties in caso di controllo di qualità a differenza delle ipotesi di controllo sul produttore, individuate in presenza degli indici di cui alla normativa di soft law unionale.
Con il quarto motivo è stata contestata la violazione dell’art. 303 del T.U. delle leggi doganali, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
4.1. La ricorrente richiama quanto affermato a pag. 7 della sentenza impugnata, evidenziando come il giudice d’appello non abbia considerato le censure riportate a pag. 54 dell’atto d’appello in relazione alla richiesta di applicazione diretta dei principi stabiliti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
4.2. La ricorrente sottolinea di aver dedotto il contrasto tra l’art. 303 TULD e il principio di proporzionalità della sanzione, riconosciuto dalla pacifica giurisprudenza della CGUE (17/07/2014, causa C272/13), secondo la quale le sanzioni amministrative devono essere proporzionali al disvalore dell’illecito e non eccedere quanto n ecessario a scongiurare l’evasione dei tributi.
Come già rilevato nella parte espositiva i primi tre motivi di ricorso attengono alla determinazione del valore in dogana relativo alle merci importate da RAGIONE_SOCIALE con particolare riferimento ai cd. technical assistance charges, alle commissione di acquisto e alle royalties.
I parametri normativi di riferimento sono costituiti dagli artt. 29 e 32 Reg. (CEE) n. 2913/92 del 12/10/1992 e 157 ss. Reg. CEE n. 2454/93 del 02/07/1993.
L’art. 29 Reg. (CEE) n. 2913/92 stabilisce che: il « valore in dogana delle merci importate è il valore di transazione, cioè il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale della Comunità, previa eventuale rettifica effettuata conformemente agli articoli 32 e 33. » Il valore in dogana si identifica con il valore di transazione, rettificato secondo le previsioni degli artt. 32 e 33 Reg. (CEE) n. 2913/92 del 12/10/1992.
5.1. Il primo motivo si incentra sulla violazione della norma appena richiamata sotto il profilo della mancata esclusione dei costi d’acquisto del valore in dogana delle merci. L’art. 32 Reg. (CEE) n. 2913/1992 prevede che: « Per determinare il valore in dogana ai sensi dell’articolo 29 si addizionano al prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate: a) i seguenti elementi, nella misura in cui sono a carico del compratore ma non sono stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci: i) commissioni e spese di mediazione, escluse le commissioni di acquisto ».
Secondo l’art. 32, par. 4, Reg. (CEE) n. 2913/1992: « Ai fini del presente capitolo, per «commissioni d’acquisto» si intendono le somme versate da un importatore al suo agente per il servizio da questi fornito nel rappresentarlo al momento dell’acquisto delle merci da valutare. »
La CTR -nel recepire le conclusioni del giudice di prime cure -ha escluso, di fatto, che nel caso di specie ricorresse l’ipotesi delineata dalla norma appena richiamata, ritenendo che il ruolo svolto da RAGIONE_SOCIALE non fosse, in realtà, quello di agente, ma fosse piuttosto riconducibile a un’attività di intermediazione.
Ad avviso della ricorrente nel caso di specie era irrilevante che l’agente non avesse un potere di rappresentanza diretta di RAGIONE_SOCIALE svolgendo, comunque, la propria attività nell’interesse di quest’ultima.
Il motivo è fondato.
Dall’art. 32 Reg. (CEE) n. 2913/92 emerge, infatti, una nozione di commissione di acquisto che viene in rilievo in relazione a un’attività contrattuale tipizzata (servizio di rappresentanza fornito dall’agente in favore dell’importatore al momento dell’acq uisto delle merci da valutare). Il servizio da cui scaturisce la commissione d’acquisto
viene, quindi, delimitato in relazione a una precisa cadenza temporale (cioè come attività compiuta al momento dell’acquisto dall’agente in rappresentanza dell’importatore) e oggettiva (riferita cioè alla singola vendita) e non in una prospettiva genericamente funzionale (attività svolta dall’agente nell’interesse dell’importatore).
L ‘art. 32, par. 1, lett. a) Reg. (CEE) n. 2913 del 1992 fa rientrare nel valore di dogana le «commissioni e spese di mediazione», ad esclusione delle (sole) commissioni d’acquisto.
Il costo di acquisto non deve essere aggiunto al prezzo pagato o da pagare per le merci importate, solamente nell’ipotesi in cui costituisca corrispettivo per l’attività di rappresentanza svolta al momento dell’acquisto dei beni, mentre non vengono in rilie vo ulteriori attività accessorie alla commercializzazione dei beni importati. Sul punto non è importante tanto verificare l’inserimento nell’ordine di acquisto del nome del licenziatario importatore, quanto il tipo di incarico dato a quest’ultimo e per ch i agisse effettivamente.
In particolare, è importante verificare se l’incarico era stato dato da entrambe le parti oppure solamente da Adidas, essendo evidente da considerare un procacciatore. Tale verifica manca nella sentenza impugnata e dovrà essere, pertanto, eseguita dalla Corte di giustizia come, solo in quest’ultima ipotesi, il licenziatario fosse tributaria di secondo grado in sede di rinvio.
5.2. Con il secondo motivo la ricorrente contesta, invece, la violazione dell’art. 32 Reg. (CEE) n. 2913/92 in relazione ai cd. TACS (technical assistance charges) nel valore in dogana delle merci importate. La CTR -nel far proprie le considerazioni del giudice di primo grado -ha ritenuto che tali costi (per design e sviluppo, rimanenze e spese legate ai macchinari usati) fossero da considerare nella determinazione del valore in dogana, dal momento che dalle
risultanze documentali emergeva che si trattasse di merci destinate alla vendita e come tali erano state fatturate e contabilizzate. La ricorrente conclude chiedendo di « statuire, ai fini dell’esclusione dei costi di assistenza tecnica dal valore a fini doganali, l’irrilevanza delle spedizioni di campionario destinate esclusivamente ad agenti e showroom, alla luce dell’impossibilità di calcolarli ex ante e della loro inclusione nelle successive spedizioni in blocco a seguito della messa in produzione. »
Il motivo presenta profili di indeterminatezza e di genericità, a partire dalla mancata indicazione delle argomentazioni inerenti alla violazione dell’art. 32 Reg. (CEE) n. 2913 del 1992, tanto più se si considera che la ricorrente non dichiara che tali spese non siano dovute in assoluto, ma che non possano essere determinate ex ante sui campionari. Non viene, poi, chiarito adeguatamente come tali spese sarebbero ripartite all’interno delle spedizioni in blocco. Infine, il motivo di ricorso non si confronta con la ratio della decisione impugnata, che ha ritenuto corretta l’inclusione dei TACS nel valore di dogana, dal momento che risultava documentalmente provato che si trattasse, comunque, di beni destinati alla vendita. Si legge, infatti, nella sentenza impugnata: « Invero, in sede di accertamento è stato precisato che non possono essere considerati campioni le merci importate con bollette doganali a cui è allegata una fattura del fornitore contenente le sigle ‘SMS’ e ‘PRESELL’ in quanto tali merci destinate alla vendita sul territorio nazionale sono state regolarmente fatturate e pagate. Inoltre, anche all’importazione sono state regolarmente sdoganate come merci e non classificate come campioni.»
5 .3. Con il terzo motivo la ricorrente contesta l’inclusione delle cd. royalties nel valore in dogana delle merci. Secondo l’art. 32 Reg. (CEE) n. 2913/1992: « Per determinare il valore in dogana ai sensi
dell’articolo 29 si addizionano al prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate: … c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non sono stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare. »
L’art. 157 Reg. (CEE) n. 2954/1993 prevede che: « 1. Ai fini dell’articolo 32, paragrafo 1 , lettera c) del codice, per corrispettivi e diritti di licenza, si intende, in particolare, il pagamento per l’uso di diritti inerenti:
-alla fabbricazione delle merci importate (in particolare brevetti, progetti, modelli e «know-how» per la fabbricazione);
-alla vendita per l’esportazione della merce importata (in particolare marchi commerciali o di fabbrica e modelli depositati);
-all’impiego e alla rivendita delle merci importate (in particolare diritti d’autore e procedimento di produzione incorporati in modo inscindibile nelle merci importate).
Indipendentemente dai casi di cui all’articolo 32, paragrafo 5 del codice, quando si determina il valore in dogana di merci importate in conformità delle disposizioni dell’articolo 29 del codice si deve aggiungere un corrispettivo o un diritto di licenza al prezzo effettivamente pagato o pagabile soltanto se tale pagamento:
-si riferisce alle merci oggetto della valutazione, e
-costituisce una condizione di vendita delle merci in causa. » Con riferimento alle ipotesi in cui la licenza riguardi un marchio commerciale o di fabbrica l’art. 159 Reg. (CEE) n. 2954/1993 precisa che: « Al prezzo effettivamente pagato o pagabile per le merci importate va aggiunto un corrispettivo o diritto di licenza relativo al diritto di utilizzare un marchio commerciale o di fabbrica soltanto se:
-il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti soggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all’importazione,
-le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, e
-l’acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore. »
Sul punto questa Corte ha affermato che: « In tema di dazi doganali, nella determinazione del valore delle merci in dogana ai sensi del regolamento (CEE) n. 2913 del 1992 (vigente “ratione temporis”) e degli artt. 159 e 160 del DAC, deve tenersi conto, oltre che del valore economico reale della merce importata, anche dei diritti di licenza, purché non inclusi nel prezzo, riferiti alla suddetta merce e dovuti quale condizione per la vendita di quest’ultima, rilevando per la sussistenza di tale ultimo presupposto, indipendentemente da un’espressa previsione tra le parti, il fatto che il licenziante sia in grado di esercitare poteri di controllo e orientamento, di fatto o di diritto, anche su singoli segmenti del processo produttivo, come quello dell’approvazione preventiva dei fornitori scelti dal licenziatario. » (Cass., 05/06/2020, n. 10685).
È stato inoltre rilevato che: « Con riferimento alla nozione di controllo utilizzata nella richiamata pronuncia della Corte di Giustizia e presa in considerazione dall’art. 143, par. 1, lett. e), Reg. (CEE) n. 2454/93, si osserva che l’allegato 23 a tale Regolamento chiarisce che «si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda». Il controllo è dunque inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perché è assunto per la sua rilevanza anche di fatto; dall’altro, su
quello degli effetti, perché ci si contenta del potere di «orientamento» del soggetto controllato (così, Cass. n. 8473/18).
Quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale degli elementi che » (Cass. 05/06/2020, n.
si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, definiscono il valore economico del bene. 10686).
La ricorrente contesta che la CTR -richiamandosi alle motivazioni del giudice di prime cure -non abbia verificato se la società licenziante fosse stata in grado di controllare i fornitori delle merci, attraverso un potere di costrizione o di orientamento, se il pagamento dei corrispettivi fosse una condizione di vendita delle merci. Evidenzia che il controllo di fatto del licenziatario sul produttore sia stato desunto dalla mera possibilità riconducibile a un fisiologico controllo sulla qualità della produzione. Rileva come i contratti di licenza si limitassero a prevedere (art. 10.3) che l’inadempimento del licenziatario alle proprie obbligazioni di pagamento, non rimediato nel termine essenziale di dieci giorni, costituisse causa di risoluzione dell’accordo, così come l’insolvenza e/o la fuoriuscita di RAGIONE_SOCIALE dal gruppo RAGIONE_SOCIALE
La sentenza impugnata ha, tuttavia, ritenuto che dall’analisi degli accordi delle parti emergevano « svariati indici indicatori del potere di orientamento ed anche di costrizione che esula dal semplice controllo di qualità e che consente di ritenere comprovata la condizione di vendita necessaria affinché le royalties possano essere aggiunte al valore dichiarato in dogana.»
Gli indici sono stati poi espressamente esplicitati e individuati nel potere di subordinare la vendita della merce all’approvazione del licenziante dei campioni di pre-produzione e dei materiali accessori,
il potere del licenziante di estendere a terzi produttori il rispetto degli obblighi derivanti dal contratto di licenza e di ispezionare gli impianti, le attrezzature, le tecniche di produzione, assemblaggio e immagazzinamento (compresa la relativa documentazione) del licenziatario e dei suoi subcontraenti).
La motivazione della sentenza impugnata non contrasta con gli artt. 32 Reg. (CEE) n. 2913 del 1992 e 157 e 159 Reg. (CEE) n. 2954 del 1993: l’esistenza di poteri di orientamento o di controllo sul produttore costituisce, infatti, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice di merito. Quest’ultimo nella propria motivazione non ha operato alcuna impropria sovrapposizione tra controllo di qualità e potere di controllo o di orientamento sulle scelte del produttore.
È bene rilevare, infine, l’irrilevanza delle dimensioni del produttore ai fini dell’applicazione delle disposizioni appena evocate, dal momento che la nozione di controllo che viene in rilievo ai fini della loro applicazione è totalmente avulsa dalla nozione di controllo societario che viene in rilievo nell’art. 2359 cod. civ. e che si traduce nell’attività di direzione e coordinamento (art. 2497 cod. civ.).
Nel caso in esame il controllo è funzionale a « garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente.» (CGUE, 09/03/2017, C-173/15, § 68).
Ne consegue che anche il terzo motivo di ricorso è da ritenere infondato.
5.4. Con il quarto motivo la ricorrente contesta la violazione dell’art. 303 del T.U. delle leggi doganali e il principio di proporzionalità della sanzione. Nel caso di specie quest’ultima è stata irrogata per un importo di Euro 454.135 a fronte di maggiori tributi richiesti per l’importo di Euro 153.884. Dalla lettura della sentenza
impugnata emerge che le sanzioni sono state applicate nel minimo edittale.
Nel caso di specie è stato applicato l’art. 303, comma 3, T.U. 23/01/1973, n. 43, il quale prevede che: « Se i diritti di confine complessivamente dovuti secondo l’accertamento sono maggiori di quelli calcolati in base alla dichiarazione e la differenza dei diritti supera il cinque per cento, la sanzione amministrativa, qualora il fatto non costituisca più grave reato, è applicata come segue:
per i diritti fino a 500 euro si applica la sanzione amministrativa da 103 a 500 euro;
per i diritti da 500,1 a 1.000 euro, si applica la sanzione amministrativa da 1.000 a 5.000 euro;
per i diritti da 1000,1 a 2.000 euro, si applica la sanzione amministrativa da 5.000 a 15.000 euro;
per i diritti da 2.000,1 a 3.999,99 euro, si applica la sanzione amministrativa da 15.000 a 30.000 euro;
per i diritti pari o superiori a 4.000 euro, si applica la sanzione amministrativa da 30.000 euro a dieci volte l’importo dei diritti. »
La ricorrente evidenzia come la norma appena riportata preveda sanzioni, determinate per scaglioni da un importo minimo a un importo massimo del tutto sproporzionate.
5.5 . L’esame di tale motivo parte dalla constatazione che il principio di proporzionalità è uno dei principi regolatori generali che presidiano l’applicazione delle sanzioni tributarie. Il suo ambito applicativo non è, infatti, limitato alle sanzioni irrogate in conseguenza della violazione della disciplina in materia di cd. tributi armonizzati, ma trova solidi agganci nella disciplina generale contenuta nel d.lgs. 18/12/1997, n. 472 passando da una formulazione in negativo che ha caratterizzato, dapprima, l’art. 7,
comma 4 (con la previsione della possibilità di riduzione della sanzione fino alla metà del minimo in presenza di « circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione ») e l’ultima modifica (riconducibile all’art. 3 d.lgs. 14/06/2024, n. 87 e applicabile alle violazioni commesse dal 01/09/2024) che ha interessato la medesima norma che, al primo comma, stabilisce adesso che: « La determinazione della sanzione è effettuata in ragione del principio di proporzionalità di cui all’articolo 3, comma 3-bis. » A sua volta, l’art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 472 del 1997 -inserito sempre ad opera dell’art. 3 d.lgs. n. 87 del 2024 stabilisce che: « La disciplina delle violazioni e sanzioni tributarie è improntata ai principi di proporzionalità e di offensività. »
Anche nel vigore della precedente formulazione della norma la Corte costituzionale ha precisato che: « l’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 472 del 1997 si pone come una opportuna valvola di decompressione che è atta a mitigare l’applicazione di sanzioni, come quella stabilita dalla norma censurata, che, strutturate per garantire un forte effetto deterrente al fine di evitare evasioni anche totali delle imposte, tendono a divenire draconiane quando colpiscono contribuenti che invece tale intento chiaramente non rivelano .» (C. cost., 17/03/2023, n. 46).
La Corte costituzionale richiama, quindi, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 7, comma 4, d.lgs. n. 472 del 1997, secondo l’art. 3 Cost., veicolo di ingresso del cd. test di proporzionalità anche nel settore delle sanzioni tributarie.
È stato, in particolare, evidenziato che: « Tale valorizzazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 alla luce dell’art. 3 Cost. trova solide basi nell’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte, che in più occasioni ha precisato, da un lato, che «il principio di proporzionalità
della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito» è «applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative» (ex plurimis, sentenza n. 112 del 2019) e, dall’altro, che anche per le sanzioni amministrative si prospetta «l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato», in particolare dando rilievo «al disvalore concreto di fatti pure ricompresi nella sfera applicativa della norma» (sentenza n. 185 del 2021). Ciò in quanto «il principio di proporzionalità postula l’adeguatezza della sanzione al caso concreto e tale adeguatezza non può essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito» (sente nza n. 161 del 2018). »
Le affermazioni della Corte costituzionale appena riportate declinano il contenuto del principio di proporzionalità in ambito sanzionatorio in termini di adeguatezza della sanzione al caso concreto, consentendo di fissare le coordinate ermeneutiche in ordine all’interpretazione di norme come l’art. 303 TULD, dove la comminatoria della sanzione oscilla tra un minimo e un massimo che può arrivare a raggiungere una decuplicazione dell’importo erroneamente non assoggettato ad imposta da parte del contribuente.
5.6. Il quadro interno si arricchisce in relazione al rilievo (anche sovranazionale) che assume il principio di proporzionalità come principio generale del diritto dell’Unione Europea, considerato che, nel caso di specie, viene in rilievo un tributo cd. armonizzato, regolato, ratione temporis , dal cd. Codice doganale comunitario (Reg. n. 2913/1992 del 12 ottobre 1992, cd. CDC).
A differenza del successivo Codice doganale dell’Unione (Reg. UE n. 952/2013 del 09/10/2013, cd. CDU) il CDC del 1992 non contiene una norma come l’art. 42 del Codice del 2013, in base alla quale:
« Ciascuno Stato membro prevede sanzioni applicabili in caso di violazione della normativa doganale. Tali sanzioni devono essere effettive, proporzionate e dissuasive. »
Ciò non ha, tuttavia, impedito alla giurisprudenza europea di affermare il rilievo del principio di proporzionalità. In particolare, assume rilievo -proprio perché relativo all’applicazione del CDC del 1992 -quanto affermato dalla Corte di Giustizia (7 dicembre 2000, de Andrade, C-213/99, § 19-20) e in particolare: « Conformemente ad una costante giurisprudenza, ricordata al punto 20 della sentenza 26 ottobre 1995, causa C-36/94, Siesse (Racc. pag. I-3573), qualora una normativa comunitaria non contenga una specifica sanzione in caso di violazione delle proprie disposizioni ovvero rinvìi al riguardo alle disposizioni nazionali, l’art. 5 del Trattato (divenuto art. 10 CE) impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte a garantire la portata e l’efficacia del diritto comunitario. A tal fine, pur conservando un potere discrezionale in merito alla scelta delle sanzioni, essi devono vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura e per importanza, e che in ogni caso conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva. Per quanto riguarda le infrazioni doganali, la Corte ha precisato che, in assenza di armonizzazione delle normative comunitarie in questo settore, gli Stati membri hanno la competenza di scegliere le sanzioni che sembrano loro più appropriate. Essi sono tuttavia tenuti ad esercitare questa competenza nel rispetto del diritto comunitario e dei suoi principi generali e, di conseguenza, nel rispetto del principio di proporzionalità (v. sentenza COGNOME, citata, punto 21). »
L’esercizio della discrezionalità rimessa al legislatore nella scelta della sanzione in assenza di armonizzazione – ricollegata nella sentenza resa nel caso de Andrade all’obbligo degli Stati membri di adottare tutte le misure atte a garantire la portata e l’efficacia del diritto comunitario -trova, attualmente, riferimento nell’art. 4, par. 4-5, TUE, secondo il quale: « Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione.»
Anche in relazione alle sanzioni applicate in conseguenza delle violazioni al Reg. CE n. 2913/1992 cit. (CDC) il principio di proporzionalità vincola in singoli Stati membri quale principio generale del diritto europeo (CGUE, 07/02/2014, Causa C-424/12, §50) , in attuazione dapprima dell’art. 10 CE e adesso dell’art. 4, par. 4-5, TUE.
5.7. Il confronto tra la recente giurisprudenza costituzionale e quella europea (rilevante in materia di tributi armonizzati) presenta numerosi punti di convergenza, non solo in relazione all’applicazione del principio di proporzionalità con riferimento alle sanzioni amministrative inerenti alla violazione di norme tributarie, ma anche in merito alla declinazione dei suoi contenuti secondo un parametro di adeguatezza della sanzione irrogata in concreto in relazione agli « specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito » (C. cost. n. 46 del 2023) o alla natura o gravità della violazione (CGUE, 08/05/2019, Causa C-712/17).
Il riferimento alla natura e alla gravità della violazione operato dalla giurisprudenza europea evidenzia come non siano estranee alla
quantificazione della sanzione da irrogare nel caso concreto anche esigenze di carattere general preventivo e special preventivo, ma esclude che tali esigenze possano avere un valore preponderante ed escludente in relazione alla condotta tenuta dalla parte nella violazione della norma tributaria e alle sue conseguenze.
5.8. L ‘evidente connessione tra la declinazione del principio di proporzionalità in materia di sanzioni tributarie nell’ambito della giurisprudenza europea e di quella costituzionale impone, preliminarmente, di interpretare la norma sanzionatoria in conformità a tale principio.
5.9. Non di convergenza ermeneutica, ma di un sistema di tutele integrate (C. cost. n. 67 del 2022, punto 11 del Considerato) e attuativo del principio di primazia del diritto europeo si parla nell’ipotesi in cui l’interpretazione conforme ai principi costitu zionali ed europei non consenta di raggiungere risultati concreti a dare attuazione a tali principi. Sul punto occorre richiamare l’orientamento consolidato della Corte costituzionale secondo il quale: « il contrasto con il diritto dell’Unione europea co ndiziona l’applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo e di conseguenza la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si intendano sollevare sulla medesima (da ultimo, ordinanza n. 2 del 2017) -soltanto quando la norma europea è dotata di effetto diretto. Al riguardo deve richiamarsi l’insegnamento di questa Corte, in base al quale «conformemente ai principi affermati dalla sentenza della Corte di giustizia 9 marzo 1978, in causa C-106/77 (Simmenthal), e dalla successiva giurisprudenza di questa Corte, segnatamente con la sentenza n. 170 del 1984 (Granital), qualora si tratti di disposizione del diritto dell’Unione europea direttamente efficace, spetta al giudice nazionale comune valutare la compatibilità comunitaria della normativa interna censurata, utilizzando -se del
caso -il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, e nell’ipotesi di contrasto provvedere egli stesso all’applicazione della norma comunitaria in luogo della norma nazionale; mentre, in caso di contrasto con una norma comunitaria priva di efficacia diretta -contrasto accertato eventualmente mediante ricorso alla Corte di giustizia -e nell’impossibilità di risolvere il contrasto in via interpretativa, il giudice comune deve sollevare la questione di legittimità costituzionale, spettando poi a questa Corte valutare l’esistenza di un contrasto insanabile in via interpretativa e, eventualmente, annullare la legge incompatibile con il diritto comunitario (nello stesso senso sentenze n. 284 del 2007, n. 28 e n. 227 del 2010 e n. 75 del 2012)» (ordinanza n. 207 del 2013). » (C. cost. 14/12/2017, n. 269 e di recente v. anche C. cost. 12/02/2024, n. 15).
5.10. In sintonia con tale orientamento la pronuncia della Grande Sezione della CGUE (sentenza 08/03/2022, C-205/20) ha affermato (§ 37) che: « Occorre altresì ricordare che il principio del primato impone al giudice nazionale che è incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto dell’Unione, l’obbligo, ove non possa procedere a un’interpretazione della no rmativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, di garantire la piena efficacia delle prescrizioni di tale diritto nell’ambito della controversia di cui è investito, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi normativa o prassi nazionale, anche posteriore, contraria a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diret to, senza dover chiedere o attendere la previa rimozione di tale normativa o prassi nazionale in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v., in tal senso, sentenze del 24 giugno 2019, COGNOME, C 573/17, EU:C:2019:530, punti 58 e 61, nonché del 21 dicembre 2021, Euro
Box Promotion e a., C 357/19, C 379/19, C 547/19, C 811/19 e C 840/19, EU:C:2021:1034, punto 252). »
La sentenza (appena citata) della Grande Sezione (§ 31), chiamata a pronunciarsi in relazione all’interpretazione dell’art. 20 Direttiva 2014/67/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, il quale prevede che: « Gli Stati membri stabiliscono le sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della presente direttiva e adottano tutte le misure necessarie per garantirne l’osservanza. Le sanzioni previste sono effettive, proporzionate e dissuasive. »
Come già rilevato una disposizione simile trova corrispondenza nell’art. 42 Reg. (UE) n. 952/2013 (cd. Codice doganale dell’Unione), ma non in quello del 1992 (Reg. CE n. 2913/1992) rilevante, ratione temporis , nel caso in esame.
5.11 . Nondimeno, in virtù del richiamo all’art. 10 CE (da riferire adesso all’art. 4, par. 4 -5, T.U.E.) nitidamente delineato dalla giurisprudenza europea (7 dicembre 2000, de Andrade, C-213/99, § 19-20 cit. ) in materia di sanzioni deve ritenersi che, in ragione della necessità di adottare ogni misura idonea (generale o particolare) atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione e dell’obbligo di astensione da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione, anche nell’ipotesi di infrazione alle disposizioni previste nel Reg. (CEE) n. 2913/1992 il giudice sia tenuto, in via preliminare, a dare alla norma interna sanzionatoria (nella specie l’art. 303, comma 3, T.U.L.D.) l’interpretazione conforme al principio di proporzionalità, quale principio generale del diritto unionale. Solo nell’ipotesi in cui tale operazione ermeneutica non consenta un esito conforme a tale principio sarà possibile procedere alla disapplicazione della norma
interna che si riveli in contrasto con il principio di proporzionalità, tenendo conto, a tal fine, degli « specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito » (C. cost. n. 46 del 2023), della natura o gravità della violazione (CGUE, 08/05/2019, Causa C712/17) e dell’obiettivo di garantire l’applicazione delle misure tariffarie e delle altre misure instaurate sul piano comunitario per gli scambi di merci tra la Comunità e i paesi terzi previsto nel terzo considerando del Reg. CEE n. 2913/1992 (tenuto conto di quanto precisato, in relazione all’analogo considerando n. 9 del Codice doganale dell’Unione del 2013, da CGUE 23 novembre 2023, C-653/22 § 31 e cioè che: « Una sanzione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, consistente in un’ammenda amministrativa pari al 50% della perdita di entrate provenienti dai dazi doganali causata dalle informazioni inaccurate fornite, può essere considerata effettiv a e dissuasiva, ai sensi dell’articolo 42, paragrafo 1, del regolamento n. 952/2013. Infatti, una sanzione del genere può incoraggiare gli operatori economici dell’Unione ad adottare tutte le misure necessarie per garantire la correttezza delle informazioni sulle merci che importano e l’accuratezza e la completezza delle informazioni fornite nelle dichiarazioni in dogana. In questo modo contribuisce a raggiungere l’obiettivo, indicato al considerando 9 di tale regolamento, di garantire l’applicazione delle misure tariffarie e delle altre misure di politica comune relative agli scambi di merci tra l’Unione e i paesi o territori non facenti parte del suo territorio doganale. »).
Deve essere, quindi, affermato il seguente principio di diritto: « nell’ipotesi in cui i diritti di confine complessivamente dovuti secondo l’accertamento siano maggiori di quelli calcolati in base alla dichiarazione e la differenza dei diritti superi il cinque per cento il giudice è tenuto a verificare se sia possibile, ai fini della
determinazione della sanzione tributaria, l’interpretazione conforme dell’art. 303, comma 3, del Testo Unico 23/01/1973, n. 43 al principio di proporzionalità (tenuto conto della natura e della gravità della violazione e dell’obiettivo di garantire l’applicazione delle misure tariffarie e delle altre misure di politica comune relative agli scambi di merci tra l’Unione e i paesi o territori non facenti parte del suo territorio doganale), dovendo procedere, in caso contrario, alla disapplicazione della norma. »
7 . Nella specie a fronte di maggiori tributi contestati per l’importo di Euro 153.884 l’irrogazione di sanzioni pari a Euro 454.135 (cioè quasi tre volte l’ importo accertato come dovuto) si rivela contraria al principio di proporzionalità, così come ricostruito nella giurisprudenza costituzionale ed europea richiamata supra . Spetterà, quindi, al giudice di rinvio verificare, alla luce del principio di proporzionalità, se sussistano margini per un’opzione interpretativa della norma conforme a tale principio o se debba esserne disposta la disapplicazione tout court , attenendosi a quanto previsto nella presente motivazione.
Alla luce di quanto sin qui rilevato anche il quarto motivo di ricorso è, pertanto, fondato nei termini di cui in motivazione.
Devono essere, quindi, accolti il primo e il quarto motivo di ricorso ed essere rigettati gli altri motivi.
La sentenza impugnata deve essere cassata con il rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia, che in diversa composizione deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il primo e il quarto motivo nei termini di cui in motivazione e rigetta gli altri motivi di ricorso.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia, che in diversa composizione deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 25/09/2024.