Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 1743 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 1743 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/01/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 31820/2020 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE, COGNOME NOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
contro
AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI ;
-intimata- e da
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
RAGIONE_SOCIALE , domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende;
-controricorrente e ricorrente incidentale- avverso la SENTENZA di COMM.TRIB.REG. MILANO n. 762/2020 depositata il 14/05/2020.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25/09/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Uditi l’avv. NOME COGNOME per la RAGIONE_SOCIALE, gli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME per l’Adidas e l’avv. dello Stato NOME COGNOME per la controcorrente.
FATTI DI CAUSA
La RAGIONE_SOCIALE società di diritto olandese, e lo spedizioniere RAGIONE_SOCIALE impugnavano nanti la Commissione Tributaria provinciale (CTP) di Milano avviso di accertamento RU 40215/2017 recante la revisione del valore doganale delle merci importate nel 2014 per euro 2.395.517,64 (di cui euro 843.716,78 per dazi ed euro 1.322.229,38 per IVA all’importazione) e il conseguente provvedimento di irrogazione sanzioni per euro 7.770.946,00.
L’accertamento contestava il mancato inserimento, nel valore indicato nelle dichiarazioni doganali, di costi per design e sviluppo, rimanenze, costi legati ai macchinari utilizzati per la produzione, per commissione di acquisti e noli e per diritti di licenza.
La CTP di Milano respingeva il ricorso.
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Commissione Tributaria Regionale (CTR) di Milano, a sua volta, rigettava gli appelli riuniti proposti dalla RAGIONE_SOCIALE e dalla RAGIONE_SOCIALE.
La CTR, decidendo sui motivi d’appello, riteneva che la CTP non fosse incorsa in omessa pronunzia sui motivi di ricorso preliminari. Riteneva altresì fondato l’inserimento delle royalties che l’appellante doveva pagare alla licenziante RAGIONE_SOCIALE in relazione alle merci acquistate da produttori terzi. La CTR osservava che il pagamento dei diritti di licenza, non inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare e relativi alla merce da valutare, aveva costituito « condizione della vendita delle merci da valutare » in quanto, tenuto conto degli accordi commerciali, l’assolvimento di quegli obblighi rivestiva una importanza tale per il venditore che, in difetto, non sarebbe stato disposto a vendere; secondo la CTR, infatti, sussisteva un legame tra il fornitore asiatico e il licenziante ricorrendo più di uno degli indicatori del potere di controllo del secondo sul primo.
Quanto alla responsabilità dello spedizioniere, trattandosi di rappresentanza indiretta, lo stesso era responsabile a mente dell’art. 201 par. 1, 2 e 3 CDC dal momento della accettazione della dichiarazione in dogana, quale autore della stessa.
Infine, la CTR respingeva le questioni, « del tutto generiche» , relative alle sanzioni.
Con atto notificato l’11.12.2020 la RAGIONE_SOCIALE già RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza fondato su cinque motivi.
Con separato atto notificato il 14.12.2020 ha proposto ricorso per cassazione anche la RAGIONE_SOCIALE che si è affidata a sette motivi.
Nei confronti della RAGIONE_SOCIALE ha resistito l’Agenzia delle Dogane con controricorso con cui ha proposto un motivo di ricorso incidentale.
Le ricorrenti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va osservato che il ricorso della RAGIONE_SOCIALE, essendo stato notificato per primo, si pone come ricorso principale, mentre quello della RAGIONE_SOCIALE vale quale ricorso incidentale. Secondo giurisprudenza di questa Corte, infatti, « Il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso. Tuttavia, quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (l’abbreviato e l’annuale) di impugnazione in astratto operativi. Detto termine decorre dall’ultima notificazione dell’impugnazione principale nel caso in cui tale impugnazione sia stata notificata anche alla parte che propone l’impugnazione incidentale » (Cass. n. 27680 del 2021; Cass. n. 11602 del 2002).
RICORSO ADIDAS
Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 35 comma 3 del d.lgs. n. 546/1992 e 112 c.p.c., « nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia con riferimento a
plurimi ed autonomi motivi di ricorso ». In particolare, la ricorrente lamenta omessa pronuncia della CTR sulla domanda di nullità della sentenza di primo grado che non aveva deciso sulle domande di « erroneità ed infondatezza della rettifica sui TAC » (costi di assistenza tecnica) e « violazione e falsa applicazione delle disposizioni di cui all’art. 32 del CDC quanto all’inclusione nel valore doganale delle commissioni d’acquisto ».
2.1. Il motivo è infondato. La CTR si è pronunziata sulla domanda in questione, riportata al n. 1 della espositiva (« nullità della sentenza per omessa pronunzia con riferimento a plurimi ed autonomi motivi di ricorso non valutati .. »), laddove ha osservato « Non è fondato il primo motivo perché il primo giudice non ha omesso di prendere in considerazione e valutare, rispondendo puntualmente, le specifiche censure ….», e ha confermato la decisione dei primi giudici di rigetto delle questioni: « il primo giudice ha fatto, legittimamente, specifico rinvio alle considerazioni in fatto ed in diritto presenti nel verbale di rettifica impugnato, condividendole e rilevando una genericità totale delle censure mosse ..».
Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 32 CDC per « erronea inclusione delle commissioni d’acquisto nel valore doganale delle merci ».
Il motivo è fondato.
3.1. Va premesso che per le operazioni in questione, eseguite nel 2014, trova applicazione il reg. CEE n. 2913/1992 (CDC) atteso che il reg. n. 450/2008 (CDA) non ha trovato attuazione e il reg. n. 952/2013 (CDU) con riguardo alle norme relative alla determinazione del valore doganale (artt. 69 e segg.) trova applicazione a decorrere da 1 giugno 2016 (v. art. 288 parr. 1 e 2). In particolare, si applica l’art. 32 CDC, secondo cui, p er
determinare il valore in dogana ai sensi dell’art. 29, si addizionano al prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate: «a) i seguenti elementi, nella misura in cui sono a carico del compratore ma non sono stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci: (..) i) commissioni e spese di mediazione, escluse le commissioni di acquisto» -(par. 1). La stessa disposizione precisa che « Ai fini del presente capitolo, per “commissioni d’acquisto” si intendono le somme versate da un importatore al suo agente per il servizio da questi fornito nel rappresentarlo al momento dell’acquisto delle merci da valutare» -(par. 4). Secondo il ricorrente, la differenza tra mediazione (il cui costo è inserito nel valore doganale) e la commissione d’acquisto (il cui costo è invece escluso) va rinvenuta nella posizione del soggetto terzo: nel primo caso è di ‘assoluta terzietà’ rispetto alle altre parti negoziali, mentre nel secondo caso il soggetto risponde ad obblighi contrattuali che lo pongono tra produttore/venditore e importatore/acquirente, non richiedendosi una rappresentanza diretta in forza della quale il terzo agisce in nome del compratore/importatore ed essendo sufficiente l’agire ‘per conto’ anche se in nome proprio.
3.2. In tal senso si esprime, seppure con riferimento alla normativa anteriore al CDC, la Corte di giustizia, 25.07.91 -causa C-299/90, Hauptzollamt Karlsruhe, secondo cui «.. quando un commissionario per l’acquisto è intervenuto in nome proprio, ma ha rappresentato l’importatore il quale ha sostenuto da solo il rischio finanziario dell’avvenuta transazione (…) la transazione da prendere in considerazione per determinare il valore in dogana della merce importata è quella avvenuta fra il produttore/fornitore e l’importatore ‘. Per tale motivo, «… la commissione d’acquisto versata dall’importatore al commissionario per l’acquisto non deve essere inclusa nel valore in dogana anche qualora l’importatore abbia qualificato come venditore il commissionario per l’acquisto
nella sua dichiarazione di valore in dogana ed abbia dichiarato il prezzo della merce fatturato da detto commissionario… ». Ove, invece, si configuri l’esistenza di un terzo che agisce in favore di entrambi (venditore ed acquirente), mettendo in contatto le parti ed avendo come unico fine la conclusione dell’affare, totalmente svincolato dal rapporto di fiducia che caratterizza invece la commissione d’acquisto, ricorre la figura del mediatore (broker) la cui commissione deve essere aggiunta al prezzo di vendita. Spetta, quindi all’importatore fornire prova all’Ufficio delle dogane della natura del rapporto e del ruolo svolto dall’intermediario, attraverso contratti, pagamenti, corrispondenza, lettere di credito e altri elementi fattuali da valutare caso per caso. Questa pronuncia è ancora significativa riguardando il regolamento (CEE) del Consiglio 28 maggio 1980, n. 1224, relativo al valore in dogana delle merci, che all’art. 8 n. 4 dava una definizione delle ‘commissioni d’ acquisto” analoga a quella del CDC, come le « somme versate da un importatore al suo agente per il servizio da questi fornito nel rappresentarlo per l’acquisto delle merci da valutare ».
3.3. Le stesse regole sono recepite dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli (v. circolare 16/D del 6.11.2015, par. 2), la quale aggiunge che « occorre che la Dogana, al di là del ‘nomen’ utilizzato dal dichiarante, sia messa in condizione di controllare se nella fattispecie concreta ricorra o meno la figura del commissario d’acquisto o del mediatore ai fini, rispettivamente, dell’esclusione o dell’inclusione di tali elementi nella determinazione della base imponibile oggetto di accertamento» . In questo caso era stato prodotto il Buying Agency Agreement , concluso in data 1.10.2008, in forza del quale l’Agente, una società facente parte dello stesso gruppo Adidas, doveva agire per conto della società ricorrente ( Principal ) nei rapporti con i produttori, cosicché deve escludersi una posizione di terzietà del l’Agente , non rilevando il fatto che
costui aveva agito in nome proprio e non era munito di poteri di rappresentanza diretta.
Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 32 CDC per « erronea inclusione dei costi di assistenza tecnica ‘TAC’ nel valore doganale delle merci ». In particolare, secondo la ricorrente, i costi in questione (relativi a costi per design e sviluppo, per rimanenze, costi legati ai macchinari di produzione) riguardavano merce non destinata alla vendita, cioè campionari o merce non ancora in produzione, e potevano essere applicati solo ex post sulla produzione effettiva e non anche su campioni o preproduzione. Il motivo è inammissibile perché non è stata accertato il presupposto fattuale della doglianza e cioè il riferimento di questi costi a merce non destinata alla vendita. Secondo la ricorrente la circostanza era pacifica ma, come ammesso in ricorso (v. pag. 21), l’Agenzia aveva contestato che la merce fosse da ricondurre a campionario, ritenendo insufficiente la prova fornita, e non vi è stato alcun accertamento in tal senso da parte del giudice di merito.
Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 32 CDC e 157 delle Disposizioni di Attuazione (reg. CEE 2454/1993) per « erronea inclusione dei diritti di licenza nel valore doganale delle merci ». Si osserva che la mera sussistenza di un contratto di licenza non può comportare automaticamente l’inclusione dei corrispettivi versati dalla licenziataria alla licenziante nel valore doganale, dovendosi verificare puntualmente che il pagamento di quei corrispettivi costituisce condizione della vendita delle merci, attraverso l’accertamento del controllo che il licenziante è in grado di svolgere sui fornitori esercitando sugli stessi un potere di costrizione e orientamento; secondo la ricorrente il giudice d’appello si era limitato a porre in connessione il contratto di
licenza con quello di produzione, senza svolgere una puntuale verifica delle clausole contrattuali, e aveva evidenziato elementi contrattuali che non hanno diretta attinenza alle royalties ma che dimostrano solo un controllo di qualità da parte del licenziante; aggiunge che non sarebbe neppure concepibile un controllo del licenziante nei confronti del fornitore, che ha dimensioni assai maggiori del primo ed opera anche per una vasta platea di concorrenti della Adidas.
5.1. Il motivo è inammissibile laddove si cerca di rimettere in discussione l’accertamento in fatto svolto dal giudice di merito che è incensurabile nel giudizio di legittimità ; come noto, è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., Sez. Un., n. 34476 del 2019).
5.1.1. In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura é possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione ( ex multis Cass., n. 26110 del 2015); ancora si rileva che-« Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è
conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione » (Cass. n. 9097 del 2017); con specifico riguardo all’interpretazione dei contratti, inoltre, va osservato che l’accertamento della volontà negoziale si sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014), riservato all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006; da ultimo, Cass. n. 22318 del 2023); tali valutazioni del giudice di merito in proposito soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente (Cass. n. 21576 del 2019; Cass. n. 20634 del 2018; Cass. n. 4851 del 2009; Cass. n. 3187 del 2009; Cass. n. 15339 del 2008).
5.2. Il motivo è, in ogni caso, infondato in quanto la CTR ha fatto buon governo dei principi in materia.
5.2.1. Poiché il valore della merce dichiarato in dogana deve considerare tutti i fattori economicamente rilevanti (v. da ultimo Corte di Giustizia, 20 dicembre 2017, in C-529/16, Hamamatsu ), sullo stesso incidono anche i diritti di licenza. In particolare, se il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate non include l’importo dei diritti di licenza, l’art. 32 CDC stabilisce che al prezzo si addizionano «c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare» . L’art. 157 DAC chiarisce che i diritti di licenza concorrono alla formazione del valore doganale, laddove, come
nella specie, non siano già inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare, in presenza delle seguenti condizioni: siano specificatamente riferiti alle merci da valutare; l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi come condizione del contratto di vendita delle merci. Qualora il diritto di licenza si riferisca a un marchio di fabbrica, ossia al diritto di importare e di commercializzare prodotti riportanti marchi commerciali, l’art. 159 DAC specifica che il relativo importo si aggiunge al prezzo effettivamente pagato o da pagare « soltanto se: – il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all’importazione, – le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, – l’acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore» . L’art. 160 DAC, infine, stabilisce che, qualora l’acquirente paghi un corrispettivo o un diritto di licenza a un terzo, «le condizioni previste dall’articolo 157, paragrafo 2, si considerano soddisfatte solo se il venditore o una persona ad esso legata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento» .
5.2.2. Così ricostruito il quadro normativo deve concludersi, in coerenza con quanto affermato nella sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 9 marzo 2017, RAGIONE_SOCIALE , che la rettifica prevista dall’articolo 32, par. 1, lett. c), del CDC si applica quando ricorrono le seguenti tre condizioni cumulative: in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare; e, in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare. Nella specie è pacifico che i diritti di licenza non erano stati inclusi nella determinazione del valore doganale, mentre era controverso
se il versamento di tali diritti costituiva una condizione del contratto di vendita.
5.2.3. Premesso che né l’art. 32, comma 1, lett. c) CDC né l’art. 157, comma 2, DAC precisano cosa si debba intendere per ‘condizione di vendita’ delle merci da valutare, la Corte di giustizia (sentenza 9 marzo 2017, in C-173/15, RAGIONE_SOCIALE c. RAGIONE_SOCIALE Dusseldorf, punto 58) ha stabilito, facendo leva sul punto 12 del Commento n. 3 del Comitato del codice doganale (sezione del valore in dogana), relativo all’incidenza dei corrispettivi e dei diritti di licenza sul valore in dogana, che l’identificazione della condizione di vendita si traduce nella verifica se il venditore sia o meno disposto a vendere le merci senza che sia pagato il corrispettivo dei diritti di licenza; il pagamento dei diritti di licenza è, dunque, una ‘condizione di vendita’ delle merci da valutare qualora, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore -o la persona ad esso legata -e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo dei diritti di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere; in un caso come quello in esame, in cui i diritti di licenza riguardano il marchio di fabbrica e vanno corrisposti ad un soggetto diverso dal venditore (il licenziante), per l’identificazione delle ‘condizioni di vendita’ è sufficiente che il pagamento dei corrispettivi dei diritti di licenza sia richiesto all’acquirente da ‘una persona legata al venditore’ (punto 67 della sentenza C-173/15 cit.); di conseguenza, occorre verificare se sussista o meno un legame, diretto o indiretto, tra il fornitore della licenziataria -acquirente e la società titolare del diritto di licenza, nel senso che occorre verificare «se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente» (punto 68
della sentenza C-173/15 cit.), dovendosi considerare che il concetto di ‘legame’ in ambito doganale è più ampio e comprende rapporti di influenza, di fatto e di diritto, che vanno al di là del legame propriamente societario, come si evince dall’allegato 23 delle DAC (Note interpretative in materia di valore in dogana all’articolo 143, comma 1, lett. e) (a norma del quale due o più persone sono considerate legate se l’una controlla direttamente o indirettamente l’altra), secondo il quale «si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda» .
5.2.4. Sul punto possono trarsi utili indicatori dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) contenuto nel documento TAXUD/800/2002, nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, paragrafo 1, lettera c), CDC; si tratta di indicazioni che «sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sé considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice» (Corte di Giustizia C-173/15 cit., punto 45). Fra i parametri elencati per stabilire se vi sia una situazione di controllo vi sono i seguenti: -il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente; -il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione); – il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente; – il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti; – il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il
produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci; – il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc.; – il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti; – il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre; – il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore; – il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante; – le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/nel loro design e con riguardo al marchio di fabbrica); le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante. Come è stato precisato nello stesso Commento n. 11 del Comitato del codice doganale, ciascuno di questi elementi non costituisce di per sé una condizione di vendita, ma la combinazione di questi elementi potrebbe dimostrare l’esistenza di una relazione nel senso di un « potere di orientamento » della licenziante sulla venditrice, che non si risolve in un mero controllo di qualità dei beni ma investe segmenti del processo produttivo, tale per cui il pagamento dei diritti di licenza costituisce una condizione di vendita.
5.2.5. La CTR ha esplicitamente seguito l’interpretazione della normativa data da Corte giust. 9 marzo 2017, C-173/15, osservando che « più d’uno di tali indicatori », tra quelli indicati al citato Commento 11 TAXUD/800/2002, « ricorrono nella ipotesi in esame »: si richiama la clausola secondo cui « le merci fabbricate sono specifiche del licenziante, con riguardo al marchio di fabbrica » nonché il « potere del licenziante di ispezionare gli impianti, le attrezzature, le tecniche di produzione, assemblaggio ed immagazzinamento del licenziatario e dei suoi subcontraent i». Ha concluso che secondo i contratti di licenza e di produzione, non solo
la licenziataria era obbligata al rispetto di standard di qualità e a controlli sul produttore, ma era previsto un « penetrante controllo » della licenziante sulla produzione che « esautora il licenziatario di buona parte del potere decisionale in materia di scelta della merce e del contraente ».
5.2.6. La decisione è in linea anche con la giurisprudenza di questa Corte che ha più volte esaminato la questione riguardante l’inclusione dei diritti di licenza nel valore dichiarato in dogana stabilendo come, nella determinazione di detto valore ai sensi del regolamento (CEE) n. 2913 del 1992 (vigente ” ratione temporis “) e degli artt. 159 e 160 del DAC, deve tenersi conto, oltre che del valore economico reale della merce importata, anche dei diritti di licenza, purché non inclusi nel prezzo, riferiti alla suddetta merce e dovuti quale condizione per la vendita di quest’ultima, e rilevando per la sussistenza di tale ultimo presupposto, indipendentemente da un’espressa previsione tra le parti, il fatto che il licenziante sia in grado di esercitare poteri di controllo e orientamento, di fatto o di diritto, anche su singoli segmenti del processo produttivo, come quello dell’approvazione preventiva dei fornitori scelti dal licenziatario (Cass. n. 10685 del 2020; Cass. n. 30776 del 2019). E’ stato altresì precisato che deve tenersi conto anche dei diritti di licenza quando, sulla base dei rapporti contrattuali tra acquirente e venditore -o persona ad esso legata -l’assolvimento del corrispettivo o del diritto di licenza condizioni, per l’importanza rivestita, la stessa volontà di quest’ultimo di procedere alla vendita, mentre, in caso di corresponsione spettante a soggetto diverso dal venditore, deve verificarsi la sussistenza di un legame, diretto o indiretto, tra venditore e licenziante, tale da comportare, sulla base del contenuto specifico delle clausole dell’accordo di licenza, l’esercizio di un controllo, anche indiretto, di quest’ultimo sul primo, secondo gli indicatori tratti dall’esemplificazione presente
nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale, contenuto nel TAXUD/800/2002 (Cass. 33119 del 2019).
6. Con il quinto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 303 TULD (d.P.R. n. 43/1973) per « violazione del principio di proporzionalità di cui alla giurisprudenza della Corte di Giustizia », lamentandosi che, essendosi in presenza di plurime dichiarazioni contenenti più partite di merci, l’applicazione dell’art. 303 comma 3 ad ogni singola partita all’interno delle dichiarazioni ha comportato l’irrogazione di una sanzione complessivamente eccedente il 250% dell’importo dei dazi asseritamente non corrisposti . Come emerge dall’espositiva in ricorso, la questione della proporzionalità delle sanzioni era stata agitata sin dal primo grado, in cui la ricorrente aveva chiesto « una declaratoria di nullità dell’atto di irrogazione di sanzioni collegate al tributo », lamentando la sproporzionalità delle sanzioni irrogate.
Il motivo è fondato.
6.1. Questa disposizione, come sostituita dall’art. 11 del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla l. 26 aprile 2012, n. 44, stabilisce che ‘Se i diritti di confine complessivamente dovuti secondo l’accertamento sono maggiori di quelli calcolati in base alla dichiarazione e la differenza dei diritti supera il cinque per cento, la sanzione amministrativa, qualora il fatto non costituisca più grave reato, è applicata come segue: a) per diritti fino a 500 euro si applica la sanzione amministrativa da 103 a 500 euro; b) per i diritti da 500,1 a 1.000 euro, si applica la sanzione amministrativa da 1.000 a 5.000 euro; c) per i diritti da 1000,1 a 2.000 euro, si applica la sanzione amministrativa da 5.000 a 15.000 euro; d) per i diritti da 2.000,1 a 3.999,99 euro, si applica la sanzione amministrativa da 15.000 a 30.000 euro; e) oltre 4.000, si applica la sanzione amministrativa da 30.000 euro a dieci volte l’importo dei diritti. ‘. L’art. 303, comma 1, del TULD, poi,
prevede che se l’inesatta indicazione del valore non abbia comportato la rideterminazione dei diritti di confine, si applica la sanzione amministrativa da euro 103 a euro 516.
6.2. Ciò premesso, la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea ha più volte applicato il principio di proporzionalità in materia di sanzioni, affermando specificamente che esse non debbono eccedere quanto necessario per conseguire gli obiettivi di garantire l’esatta riscossione dell’IVA all’importazione e di evitare l’evasione (Corte di Giustizia sentenze 8 maggio 2008, Ecotrade, C-95/07 e C-96/07, punti da 65 a 67; 12 luglio 2012, EMS-Bulgaria Transport, C-284/11, punto 67) e tale principio si applica anche al diritto doganale, in quanto materia armonizzata (cfr. Regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013). Più in particolare, i giudici unionali hanno affermato che, «in mancanza di armonizzazione della normativa dell’Unione nel settore delle sanzioni applicabili in caso di condizioni previste da un regime istituito da tale normativa, gli Stati membri possono scegliere le sanzioni che sembrano loro appropriate », ma «sono tuttavia tenuti a esercitare le loro competenze nel rispetto del diritto dell’Unione e dei suoi principi generali e, di conseguenza, nel rispetto del principio di proporzionalità (v., in tal senso, sentenza del 6 ottobre 2021, RAGIONE_SOCIALE, C-544/19, EU:C:2021:803, punto 84 e giurisprudenza ivi citata) », che impone l’adozione di misure che non eccedano «i limiti di ciò che è appropriato e necessario alla realizzazione degli obiettivi legittimamente perseguiti da tale normativa», sicché «il rigore delle sanzioni deve essere adeguato alla gravità delle violazioni che esse reprimono, garantendo, in particolare, un effetto realmente dissuasivo, fermo restando il rispetto del principio generale di proporzionalità (ordinanza del 12 luglio 2018, COGNOME e Cirstinoiu, C-707/17, non pubblicata, EU:C:2018:574, punto 28 e giurisprudenza ivi citata) » (CGUE, sentenza 24 febbraio 2022, in causa C-452/20).
6.3. Il principio di proporzionalità costituisce, quindi, un principio generale del diritto dell’Unione, che ‘ si impone agli Stati membri nell’attuazione di tale diritto anche in assenza di armonizzazione della normativa dell’Unione nel settore delle sanzioni applicabili ‘ (CGUE sentenza 8 marzo 2022, in causa C -205/20, NE , punto 31); occorre considerare, peraltro, che detto principio ‘si impone agli Stati membri non solamente per quanto concerne la determinazione degli elementi costitutivi di un’infrazione e delle norme relative all’importo delle sanzioni pecuniarie, ma anche riguardo alla valutazione degli elementi di cui si può tenere conto per la fissazione dell’importo della sanzione (sentenza del 22 marzo 2017, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, C-497/15 e C-498/15, EU:C:2017:229, punto 43 e giurisprudenza citata) ‘ (CGUE sentenza 23 novembre 2023, in causa C-653/22, J.P. Mali , punto 33). Al fine di valutare se una sanzione sia conforme al principio di proporzionalità, occorre tener conto, in particolare, della natura e della gravità dell’infrazione che detta sanzione mira a penalizzare, nonché delle modalità di determinazione dell’importo della sanzione stessa (Corte di Giustizia sentenza 17 luglio 2014 Equoland , C272/13, par. 35). E’ stato anche statuito come, nella determinazione della misura della sanzione irrogabile, laddove vi sia un’entità percentuale fissata per la maggiorazione e l’impossibilità di adeguarla alle circostanze specifiche di ogni caso di specie, non è escluso che tale modalità di determinazione dell’importo della sanzione, e dunque la parte corrispondente della medesima, possa rivelarsi sproporzionata (Corte di Giustizia, sentenza 19 luglio 2012, Rēdlihs , C-263/11, punto 52; sentenza Equoland cit., par. 45).
6.4. Sempre il giudice unionale avverte, poi, che « al fine di garantire l’effettività dell’insieme delle disposizioni del diritto dell’Unione, il principio del primato impone, in particolare, ai giudici nazionali di interpretare, per quanto possibile, il loro diritto interno
in modo conforme al diritto dell’Unione (sentenza del 24 giugno 2019, COGNOME, C -573/17, EU:C:2019:530, punto 57). L’obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale, tuttavia, è soggetto ad alcuni limiti e non può, in particolare, servire da fondamento ad un’interpretazione ‘contra legem’ del diritto nazionale (sentenza del 6 ottobre 2021, Sumal, C-882/19, EU:C:2021:800, punto 72 e giurisprudenza ivi citata). Occorre altresì ricordare che il principio del primato impone al giudice nazionale che è incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto dell’Unione, l’obbligo, ove non possa procedere a un’interpretazione della normativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, di garantire la piena efficacia delle prescrizioni di tale diritto nell’ambito della controversia di cui è investito, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi normativa o prassi nazionale, anche posteriore, contraria a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto, senza dover chiedere o attendere la previa rimozione di tale normativa o prassi nazionale in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v., in tal senso, sentenze del 24 giugno 2019, COGNOME, C -573/17, EU:C:2019:530, punti 58 e 61, nonché del 21 dicembre 2021, RAGIONE_SOCIALE e a., C-357/19, C-379/19, C-547/19, C-811/19 e C-840/19, EU:C:2021:1034, punto 252) » (Corte giust. 8 marzo 2022 NE, C -205/20, punti 29, 30, 31).
6.5. In applicazione di tali principi, questa Corte ha già fatto ricorso alla disapplicazione del regime sanzionatorio per contrasto con il principio di proporzionalità, affermando, ad esempio, in materia d’IVA, che la sanzione prevista dall’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997, applicabile all’importatore che si sia avvalso del sistema di sospensione del versamento dell’imposta all’importazione senza immettere materialmente la merce nel deposito fiscale, deve essere disapplicata per contrarietà al diritto comunitario, così come
interpretato dalla Corte di Giustizia, ove ecceda, in ragione della percentuale fissata per la maggiorazione e dell’impossibilità di graduarne la misura alle circostanze concrete, il limite necessario per assicurare l’esatta riscossione ed evitare l’evasione, atteso che, tenuto conto della natura formale della violazione, potrebbero costituire un’adeguata sanzione anche i soli interessi moratori (Cass. 8 settembre 2015, n. 17814). Sempre in tema di IVA, è stato anche statuito che le modalità di determinazione delle sanzioni previste dagli artt. 5, comma 4, e 6, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, che le ragguagliano ad una forbice dal cento al duecento per cento della differenza rispetto all’imposta dovuta e dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato o registrato nel corso dell’esercizio, eccedono il limite necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta ed evitare l’evasione attesa l’entità minima della percentuale fissata per la maggiorazione e l’impossibilità di adeguarla alle circostanze specifiche di ogni singolo caso, per cui vanno disapplicate in quanto contrarie al diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia (Cass. n. 14767 del 2015).
6.6. Con specifico riferimento alla materia doganale, è stato precisato che la sanzione prevista dall’art. 303 del d.P.R. n. 43 del 1973 è eccessiva ed irrispettosa dei principi dell’Unione europea in tema di proporzionalità delle sanzioni e non consente di contenere la sanzione adeguandola alla specificità del caso di specie; in particolare, si è dubitato della razionalità dell’art. 303 comma 3 del d.P.R. n. 43 del 1973 con riferimento alla soglia minima sanzionatoria rigidamente prevista per lo scaglione applicabile, così come sostituito dall’art. 11 del d.l. n. 16 del 2012 (Cass., 11 maggio 2022, n. 14908). Più di recente, è stato affermato, sempre in materia di sanzioni doganali, il seguente principio di diritto: « La disposizione dell’art. 303, comma 3, lett. e), del d.P.R. n. 43 del 1973 (TULD), come sostituito dall’art. 11 del d.l. n. 16 del 2012,
conv. con modif. dalla l. n. 44 del 2012, nel determinare la sanzione per il diritto di confine non dichiarato in un importo minimo fisso di 30.000 euro senza la possibilità di adeguamento della sanzione stessa alle circostanze specifiche del singolo caso, eccede il limite necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e per evitare l’evasione di un dazio doganale non versato in misura superiore a 4.000 euro, ma inferiore a 5.000 euro, e, pertanto, va disapplicata in quanto contraria al diritto dell’Unione europea, nell’interpretazione data dalla Corte di giustizia » (Cass., 13 luglio 2023, n. 20058).
6.7. Anche la Corte costituzionale (sentenza del 17 marzo 2023, n. 46) ha recentemente affermato (dopo avere dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, primo periodo e dell’art. 13, comma 1, del decreto legislativo n. 471/1997, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 53 e 76 della Costituzione) che l’ Amministrazione fiscale e/o il giudice sono tenuti a riportare le sanzioni tributarie al principio di ragionevolezza e proporzionalità. Il vulnus a tali principi, infatti, può essere evitato, senza necessità di incidere sulla dosimetria in astratto definita dal legislatore nella norma censurata, considerando, nella determinazione delle sanzioni, le potenzialità offerte dal citato art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 che, interpretato in correlazione con l’art. 3 Cost., può riportare la norma censurata in termini conformi al volto costituzionale del sistema sanzionatorio, consentendo al giudice a quo di ridurla a una misura proporzionata e ragionevole. Occorre quindi che, come del resto da tempo auspicato dalla dottrina, il comma 4 non venga letto atomisticamente, ma in rapporto con il comma 1 del medesimo art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997: in questi termini, infatti, il perimetro di applicazione del comma 4 viene dilatato, considerando, tra le «circostanze» -non più necessariamente ‘eccezionali’ che possono determinare la riduzione fino al dimezzamento della
sanzione, quanto indicato nel comma 1 di tale articolo, e in particolare la condotta dell’agente e l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze. Valorizzato in questi termini, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, che fornisce maggiore chiarezza ai criteri di determinazione delle sanzioni in esso stabiliti, l’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 472 del 1997 si pone come una opportuna valvola di decompressione che è atta a mitigare l’applicazione di sanzioni, come quella stabilita dalla norma censurata, che, strutturate per garantire un forte effetto deterrente al fine di evitare evasioni anche totali delle imposte, tendono a divenire eccessive quando colpiscono contribuenti che invece tale intento chiaramente non rivelano. Si tratta di una riduzione che può essere effettuata già dall’Agenzia delle entrate, poiché questa spesso dispone, fin dal momento della irrogazione della sanzione, degli elementi di valutazione utili al riguardo. In ogni caso ad essa potrà ricorrere il giudice nell’ambito del contenzioso, anche a prescindere da una formale istanza di parte, ogni qualvolta sia stato articolato un motivo di impugnazione sulla debenza o sull’entità delle sanzioni irrogate e risultino allegate circostanze tali da consentirlo.
6.8. Nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del resto, è stato più volte precisato, da un lato, che « il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito » è « applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative » ( ex plurimis , sentenza n. 112 del 2019) e, dall’altro, che anche per le sanzioni amministrative si prospetta « l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato », in particolare dando rilievo « al disvalore concreto di fatti pure ricompresi nella sfera applicativa della norma » (sentenza n. 185 del 2021). Ciò in quanto « il principio di proporzionalità postula l’adeguatezza della sanzione al caso concreto e tale adeguatezza non può essere raggiunta se non
attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito » (sentenza n.161 del 2018).
6.9. Non pare superfluo osservare che questi principi giurisprudenziali sono stati recentemente recepiti in termini generali dal legislatore con l’art. 3 del d.lgs. n. 87/2024 che ha introdotto, all’art. 3 del d.ls. n. 472/1997, il comma 3 bis secondo cui « la disciplina delle violazioni e sanzioni tributarie è improntata ai principi di proporzionalità e di offensività » e, all’art. 7 comma 1, il seguente periodo, anteposto al primo: « La determinazione della sanzione è effettuata in ragione del principio di proporzionalità di cui all’art. 3 comma 3 bis».
6.10. Alla luce di questo composito quadro può pertanto formularsi, con riguardo alla causa in oggetto, il seguente principio di diritto: In tema di tributi armonizzati, nel caso in cui sia stato proposto nell’ambito del giudizio tributario un motivo di impugnazione sull’entità delle sanzioni irrogate e risultino allegate circostanze tali da consentirlo, il giudice dovrà assicurare adeguatezza e proporzionalità della sanzione al caso concreto e, laddove ciò non sia possibile attraverso l’applicazione della vigente normativa sanzionatoria, interpretata in conformità alla Costituzione e ai principi unionali, potrà procedere alla sua disapplicazione al fine di garantire la piena efficacia delle prescrizioni del diritto dell’Unione nell’ambito della controversia di cui è investito.
6.11. Quindi, se, in linea di principio, la previsione di minimi edittali per le sanzioni amministrative riflette un giudizio di intrinseca gravità della condotta, effettuato a monte dal legislatore e non è, di per sé, in contrasto con il principio comunitario di proporzionalità, che può essere rispettato mediante la personalizzazione del trattamento sanzionatorio entro la forbice prevista dalla norma (Cass. n. 16276 del 2022), il ricorso ad istituti
come quello di cui al l’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 472 del 1997 , secondo la lettura indicata dalla Corte costituzionale, può contribuire a realizzare una ulteriore personalizzazione della sanzione, nei casi in cui si rende necessaria, in relazione alla condotta in concreto accertata, al fine di adeguare il trattamento sanzionatorio al criterio di proporzionalità. Laddove, tuttavia, in relazione alla censura dell’entità delle sanzioni, non sia possibile determinare una sanzione adeguata e proporzionata alla violazione in concreto accertata, attraverso l’interpretazione della vigente disciplina sanzionatoria in conformità alla Costituzione e ai principi unionali, il giudice di merito può procedere alla disapplicazione di detta disciplina, limitatamente alla quantificazione della sanzione, e determinare la sanzione in misura proporzionata alla condotta effettivamente tenuta alla stregua delle circostanze del caso concreto, al fine di garantire la piena efficacia delle prescrizioni dell’Unione europea. Nel caso in esame è mancata qualunque valutazione in ordine alla proporzionalità della sanzione irrogata, complessivamente pari al 250% dei diritto doganali evasi, da parte del giudice del merito, che si è limitato a rilevare la genericità della doglianza in assenza di « un approfondimento» della ricorrente in grado di chiarire « l’interesse all’impugnazione in relazione alla lesione subita», interesse che può ritenersi in re ipsa data l’entità della sanzione in rapporto all’ammontare dei diritti evasi.
RICORSO COGNOME
Passando al ricorso della RAGIONE_SOCIALE, con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 76, 201 e 202 CDC laddove la CTR ha ritenuto la responsabilità solidale dello spedizioniere soltanto perché ha agito quale rappresentante indiretto, mentre costui risponde se ha violato i suoi doveri di diligenza professionale,
evenienza la cui prova incombe sull’Ufficio, e, in ogni caso, non è debitore dell’IVA all’importazione.
Il motivo è fondato con riferimento all’IVA all’importazione.
7.1. Lo spedizioniere quale rappresentante indiretto, autore della dichiarazione ai sensi degli artt. 4 e 5 del CDC e 199 del DAC (“ratione temporis” applicabili), risponde in solido con l’importatore per il fatto di aver reso la dichiarazione in proprio, ancorché per conto di quest’ultimo,, ai sensi dell’art. 201, par. 3, prima parte, del CDC (Reg. CEE del 12 ottobre 1992 n. 2913), dell’esattezza dei dati forniti, rispetto ai quali è tenuto ad adempiere agli obblighi di verifica e informazione, funzionali al corretto espletamento dell’incarico conferitogli, con la diligenza ragguagliata alla natura dell’attività professionale espletata (Cass. n. 1848 del 2020; Cass. n. 26358 del 2019; Cass. n. 13383 del 2019; Cass. n. 5909 del 2019); non si tratta, peraltro, di responsabilità oggettiva, poiché egli può esimersi, in tutto o in parte, da essa, fornendo la prova di aver agito nella scrupolosa osservanza dei doveri, segnatamente d’informazione, derivanti dalla diligenza qualificata cui, a norma dell’art. 1176, comma 2, c.c., soggiace nell’espletamento dell’attività professionale e, comunque, dimostrando che il proprio comportamento sia stato improntato al rispetto del principio di buona fede, alle condizioni previste dall’art. 220, par. 2, lett. b, CDC ( ratione temporis applicabile) (Cass. n. 18627 del 2023).
7.2. Con riferimento all’IVA all’importazione, invece, è ormai consolidato l’orientamento secondo cui « a seguito dell’interpretazione data dalla Corte di Giustizia UE, con la sentenza del 12 maggio 2022 nella causa C-714/20, alle nozioni di obbligazione doganale e di soggetto debitore di cui, rispettivamente, agli artt. 5 e 77 del Regolamento UE n. 952 del 2013, istitutivo del codice doganale dell’Unione, solo l’importatore e non anche il suo rappresentante indiretto risponde del mancato pagamento del tributo e delle relative sanzioni, in assenza di
specifiche ed inequivoche disposizioni nazionali che prevedano la responsabilità solidale tra tali soggetti, non rinvenibili nell’art. 70 del d.P.R. n. 633 del 1972 » (Cass. n. 14382 del 2024; Cass. n. 23661 del 2023).
Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 5 comma 1 d.lgs. n. 472/1997 perché la CTR ha irrogato la sanzione amministrativa senza verificare la ricorrenza dell’elemento soggettivo della condotta.
Il motivo è infondato.
8.1. In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’art. 5 d.lgs. n. 472 del 1997, applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dall’art. 3 l. n. 689 del 1981, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, a cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente. È comunque sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza (Cass. n. 2139 del 2020; Cass. n. 13068 del 2011). Ai fini dell’esclusione di responsabilità per difetto dell’elemento soggettivo, grava sul contribuente ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997 la prova dell’assenza assoluta di colpa, con conseguente esclusione della rilevabilità d’ufficio, occorrendo a tal fine la dimostrazione di versare in stato di ignoranza incolpevole, non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza (Cass. n. 12901 del 2019).
Con il terzo motivo, in via subordinata, si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., « inapplicabilità delle sanzioni per obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito applicativo della norma ».
Anche questo motivo è infondato.
9.1. V arie disposizioni prevedono, come causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, le « obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione » della norma (art. 8, comma 1, del decreto legislativo n. 546 del 1992, come modificato dall’art. 4, comma 1, lett. a), della legge n. 130 del 2022; art. 6, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997, art. 10, comma 3, della legge n. 212 del 2000, come modificato dall’art. 1, comma 1, del decreto legge n. 106 del 2005, convertito con modificazioni, dalla legge n. 156 del 2005), da intendersi come « una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ossia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso la sua interpretazione » (Cass. n. 32082 del 2019 e altra giurisprudenza ivi citata), desunta da una serie di ‘fatti indice’ (Cass. n. 10313 del 2019) e da riferirsi soggettivamente ai soli giudici (e non anche al generico contribuente o ai contribuenti che pure, per la loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata o all’Ufficio tributario) (Cass. n. 3108 del 2019); la precedente esposizione mostra l’assenza di dubbi interpretativi sulla normativa di riferimento cosicché deve escludersi una incertezza che possa giustificare la disapplicazione delle sanzioni.
Con il quarto motivo, in via subordinata, si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 7 d.lgs. n. 472/1997 e del principio comunitario di proporzionalità. Il
motivo va accolto per le medesime ragioni di cui al quinto motivo del ricorso dell’Adidas a cui si rimanda.
Con il quinto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., omesso esame di fatti decisivi per la risoluzione della controversia nonché violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., laddove la CTR « ha statuito in maniera del tutto avulsa sia dalle circostanze pacifiche e non controverse, che dalle risultanze probatorie in atti ».
Il motivo è inammissibile.
11.1. Con riguardo alla censura ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., ricorre una cd. ‘doppia conforme’, prevista dall’art. 348 -ter, comma 5, c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), secondo cui il ricorrente in cassazione -per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 cit. ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del 2016). La disposizione presuppone che nei due gradi di merito le “questioni di fatto” siano state decise in base alle “stesse ragioni” (Cass. n. 29222 del 2019), e incombe sulla parte ricorrente l’onere di precisare e dimostrare che le ragioni di fatto poste rispettivamente a fondamento della decisione di primo e di secondo grado sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 5947 del 2023). Nel caso di specie tale onere non è stato assolto. Inoltre manca la puntuale indicazione del fatto storico il cui esame sarebbe stato omesso, richiedendosi piuttosto la rivalutazione del materiale probatorio. Come noto, la censura ex art. 360 comma 1
n. 5 c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012 , introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali e che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti avente carattere decisivo (Cass. n. 13024 del 2022; Cass. n. 14802 del 2017), senza che possano considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio (Cass. n. 10525 del 2022).
11.2. E’ inammissibile, poi, la censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt.115 e 116 c.p.c. che non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. n. 6774 del 2022; Cass. n. 1229 del 2019).
12. Con il sesto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e/o errata applicazione degli artt. 143, par. 1, lett. e), 157 comma 2, 159 e 160 del reg. CEE 2454/1993 (DAC) e degli artt. 1362 e 1363 c.c. nonché degli artt. 2727 e 2729 c.c. In articolare, secondo la ricorrente, la CTR aveva frainteso la nozione di ‘controllo’ perché l’eventuale controllo da
parte di Adidas sulla realizzazione dei prodotti era finalizzato soltanto al rispetto del codice etico della licenziante e della tutela della proprietà intellettuale. Il motivo è inammissibile e comunque infondato per le ragioni già esposte con riferimento al quarto motivo del ricorso dell’Adidas: anche questa censura tende a rimettere in discussione l’accertamento in fatto svolto dalla CTR che, come già osservato, ha fatto buon governo dei principi in materia.
13. Con il settimo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., violazione dell’art. 112 per « omessa pronuncia in ordine all’illegittima inclusione delle commissioni d’acquisto nel valore doganale ». Il motivo è infondato per le medesime ragioni di cui al primo motivo del ricorso principale.
RICORSO INCIDENTALE DELL’AGENZIA
14. Con il suo ricorso incidentale l’Agenzia deduce la violazione dell’art. 57 d.lgs. n. 546/1992 per « inammissibilità motivi nuovi con particolare riferimento all’atto di irrogazione delle sanzioni (pag. 32 appello avversario) », in quanto in primo grado la ricorrente COGNOME si era limitata a «p oche righe di contestazione della legittimità delle sanzioni irrogate » mentre in appello aveva dedotti nuovi e ampi motivi di ricorso.
14.1. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza in quanto, non essendo stato trascritto il contenuto del ricorso introduttivo, non si è in grado di valutare la doglianza senza esaminare gli atti di causa. Va rammentato che il principio di autosufficienza di cui all’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. in caso di deduzione di errores in procedendo , impone la trascrizione essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione
nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario, in misura tale da non inciderne la stessa sostanza ( ex multis , Cass. n. 21346 del 2024).
Conclusivamente, devono accogliersi il secondo e quarto motivo del ricorso dell’Adidas e il primo, nei limiti in motivazione, e il quarto motivo della RAGIONE_SOCIALE, e deve cassarsi la sentenza impugnata con rinvio al giudice del merito.
P.Q.M.
accoglie il secondo e quinto motivo del ricorso proposto dall’Adidas, rigettati gli altri; accoglie il primo motivo, nei limiti in motivazione, e il quarto motivo del ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE, rigettati gli altri; rigetta il ricorso incidentale dell’Agenzia;
cassa di conseguenza la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 25/09/2024.