Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32614 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 32614 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/12/2024
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
ha pronunciato la seguente sul ricorso n. 16592/2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALESwitzerland) RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE nelle persone dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentate e difese, dal Prof. Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO giusta procura in calce al controricorso.
– ricorrenti –
contro
Dogane e dei Monopoli, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i
cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, n. 168/2023, depositata in data 18 gennaio 2023, non notificata; udita la relazione della causa udita svolta nella pubblica udienza del 24 settembre 2024, dal Consigliere NOME COGNOME udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; udito, per la parte ricorrente, l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso per cassazione; udito per la parte controricorrente, l’Avv. NOME COGNOME che ha
chiesto il rigetto del ricorso per cassazione;
FATTI DI CAUSA
La Commissione tributaria regionale ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dalle società RAGIONE_SOCIALE, quale rappresentante doganale indiretto, RAGIONE_SOCIALESwitzerland) SA, quale importatore, e RAGIONE_SOCIALE quale rappresentante fiscale, avente ad oggetto l’annullamento dei processi verbali di rettifica e constatazione del 6 e 22 novembre 2019 e del 3, 5, 6, 9, 10, 11, 13 e 16 dicembre 2019, nonché dei processi verbali di rettifica e constatazione di illeciti doganali del 9, 22 e 30 gennaio 2020, del 3, 4, 5, 6, 12 e 28 febbraio 2020 e del 2 marzo 2020.
I giudici di secondo grado, riuniti per motivi di connessione soggettiva ed oggettiva i procedimenti nn. 3154 e 3159 del 2021, hanno affermato che:
-) nel caso in specie il licenziante esercitava un controllo ferreo sul produttore, altrimenti questi avrebbe potuto vendere le merci anche ad altri acquirenti, senza versare diritti di licenza, con un grave danno anche per la società licenziataria;
-) dal contratto di licenza risultava, infatti, che il licenziante sceglieva ed approvava il produttore; qualsiasi ordine di acquisto doveva essere approvato dal licenziante; il licenziante decideva a chi il produttore poteva vendere le merci ed aveva il diritto di esaminare la contabilità del produttore e dell’acquirente; il licenziante sceglieva i metodi di produzione da utilizzare ovvero forniva i relativi modelli; la società licenziataria non poteva operare gli acquisti direttamente, ma tramite la società licenziante;
-) era indubbio, come sopra indicato, che la società licenziante aveva un rapporto di subordinazione con il produttore ed era, quindi, corretto comprendere nel valore delle merci importate anche gli altri valori che determinavano il reale prezzo delle merci importati, che consisteva in q uanto versato per l’utilizzo dei diritti di licenza indissolubilmente legati alle merci;
-) nel caso in esame, come risultava dal contratto di licenza (clausola di cui all’art. 4.2), qualora il licenziante riteneva che i prodotti non ottemperassero ai propri standard qualitativi, nonché alle caratteristiche e ai requisiti tecnici, doveva notificare i difetti riscontrati e il licenziatario non poteva distribuire o vendere, ovvero autorizzare la distribuzione o la vendita dei prodotti in cui fossero riscontrati tali difetti, fino a quando non venivano corretti in maniera ragionevolmente soddisfacente per il licenziante, fatta eccezione per i prodotti di seconda scelta;
-) era evidente che il contratto de quo rispondeva all’esigenza della società licenziante che non solo doveva realizzare profitto dalla cessione del diritto dell’uso del proprio marchio, ma soprattutto doveva tutelare l’immagine del marchio stesso e che il licenziatario, per
ottenere il diritto allo sfruttamento del marchio «famoso», accettava il controllo diretto e totale imposto dal licenziante sulle attività del licenziatario;
-) in questo contesto il terzo «venditore» ossia il fabbricante orientale non era in alcun modo titolare del diritto di licenza e non poteva mai chiedere all’acquirente di effettuare tale pagamento, che ovviamente non aveva nessun interesse al pagamento o meno delle royalties, anche se era tenuto al rispetto delle stringenti clausole previste nel relativo contratto, diventando egli stesso «parte» del contratto di licenza ed acquisiva la funzione di vera e propria longa manus del licenziante;
-) i produttori non potevano immettere liberamente i prodotti sul mercato, ma dovevano ritrasferirli ai licenziatari, i quali corrispondevano ai licenzianti i diritti di licenza.;
-) nel caso di specie, il licenziante esercitava il controllo nei confronti dei venditori attraverso la valutazione dei prodotti realizzati, per cui i diritti di licenza dovevano essere aggiunti al prezzo di acquisto ai fini del valore da dichiarare in Dogana, che prescindeva dal prezzo effettivamente pagato o da pagare delle royalties, che costituiva un’obbligazione civilistica tra le parti.
Le società RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE (Switzerland) RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE hanno proposto ricorso per cassazione con atto affidato a sei motivi.
L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli resiste con controricorso.
Le società RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE (Switzerland) RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., in via preliminare, la nullità della sentenza
impugnata, ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., per contrarietà a giudicato intervenuto tra le stesse parti e relativamente alle stesse questioni, in quanto successivamente all’udienza di discussione in appello nel procedimento relativo alla sentenza impugnata (udienza che si era tenuta il data 17 gennaio 2023), era passata in giudicato la sentenza n. 4715/2019, depositata il 25 novembre 2019, a seguito di ordinanza n. 13307/2020, pubblicata il 15 maggio 2023, con cui la Corte di Cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ( « Da quanto risulta dalle clausole dell’accordo appare evidente che nessuna dell e tre condizioni sopra elencate per l’inclusione delle royalties nel valore delle merci in dogana è realizzata. A ciò aggiungasi che nel caso in esame è carente l’ulteriore elemento del controllo penetrante della licenziante sulla licenziataria che, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si concretizza qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia destinatario del corrispettivo dei diritti, nel qual caso soltanto i diritti di licenza possono essere aggiunti al valore della transazione in dogana»). Nel caso in esame trovava applicazione il principio del giudicato esterno, stante la comunanza dei presupposti oggettivi tra le pronunce definitive sopra richiamate e quella oggetto del presente giudizio (i.e. identici contratti di fornitura di merce e medesimi rilievi sulle relative clausole), nonché l’identità delle parti e del tipo di imposte richieste, con conseguente nullità della sentenza impugnata per contrasto con pronunce definitive, anche ai sensi dell’art. 2909 cod. civ..
2. Il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 e 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ.. La Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia aveva omesso di considerare che le odierne ricorrenti avevano eccepito la presenza di almeno un pregresso giudicato avente il medesimo oggetto, titolo e relativo alle medesime parti della sentenza qui impugnata, favorevole
alle stesse odierne ricorrenti. Si trattava, nello specifico, della sentenza n. 4718/2019, depositata in data 25 novembre 2019, che aveva escluso, in relazione al medesimo contratto di licenza, che le royalties dovessero essere incluse nel valore in dogana e ciò con effetti preclusivi per l’appello proposto dall’Agenzia delle Dogane, trovando applicazione il principio del giudicato esterno. La sentenza impugnata, oltre all’omesso esame degli eccepiti effetti esterni del giudicato, aveva altresì violato l’ar t. 2909 cod. civ., sicché, doveva trovare applicazione il principio del giudicato esterno (che doveva essere applicato d’ufficio dal Giudice), stante la comunanza dei presupposti oggettivi tra la pronuncia definitiva e quella oggetto del presente giudizio (i.e. identico contratto di fornitura di merce e medesimi rilievi sulle relative clausole), l’identità delle parti e del tipo di imposte richieste.
3. Il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. e, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 36, primo comma, n. 4 del decreto legislativo n. 546 del 19 92 e dell’art. 132, quarto comma, n. 4, c od. proc. civ. e dell’art. 111 Cost … Nessuno degli elementi richiamati dall’impugnata sentenza era rilevabile dal contratto di licenza (né risultavano dai documenti versati nel corso dei giudizi di merito) e, in particolare, nessuna clausola del contratto di licenza prevedeva che « il licenziante (i) scelga e approvi il produttore, (ii) approvi qualsiasi ordine di acquisto, (iii) decida a chi il produttore possa vendere le merci, (iv) possa esaminare la contabilità del produttore, (v) scelga i metodi di produzione, (vi) fornisca i relativi modelli », così come nessuna clausola del contratto di licenza prevedeva che la licenziante dovesse operare gli acquisti tramite il licenziante. Ciò comportava, oltre che un travisamento delle prove, l’impossibilità logica di ricavare, da tali elementi, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito avere ritenuto di poter trarre per escludere la daziabilità delle royalties. Se il Giudice d’appello avesse
considerato la totale assenza degli elementi richiamati nella sentenza avrebbe dovuto necessariamente concludere l’assenza di qualsivoglia controllo o condizionamento del licenziante sul produttore e sul processo di produzione, escludendo così, per necessaria conseguenza, la sussistenza della condizione di vendita e la daziabilità delle royalties. 4. Il quarto motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 69-76 e, in particolare dell’art. 71, paragrafo 1, lett. c), del Codice Doganale dell’Unione (CDU) Reg. (UE) 952/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio, entrato in vigore il 1° maggio 2016, nonché dell’art. 71 del Regolamento Delegato (UE) 2015/2446 della Commissione, degli artt. 127146 e, in particolare, dell’art. 136 del Regolamento di Esecuzione (UE) 2015/2447 della Commissione e della specifica disciplina fissata al Commento n. 11 del Taxud/800/2002-IT Bruxelles, nonché la violazione dell’art. 1362 cod. civ.. L’impugnata sentenza aveva errato nel valutare la clausola n. 4.2 di cui al contratto di licenza, che prevedeva solo controlli di qualità che potevano essere effettuati dal licenziante sul licenziatario, peraltro successivamente all’importazione della merce. Nel caso di specie, nessuna delle condizioni previste dalla normativa unio nale per l’inclusione delle royalties nel valore in dogana era sussistente.
5. Il quinto motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc . civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per omesso esame della doglianza di appello, che era stata oggetto di discussione tra le parti, relativa alla violazione dell’art. 17, comma 1 bis , del decreto legislativo n. 165 del 2001, dell’art. 15, comma 7, del decreto legislativo n. 78 del 2009, dell’art. 21 octies , della legge n. 241 del 1990, dell’art. 4, comma 2, dello Statuto dell’Agenzia delle Dogane, approvato da ultimo il 12 luglio 2021, dell’art. 1, comma 3, e dell’art. 4, comma 1, del Regolamento di Amministrazione dell’Agenzia delle Dogane, approvato con delibera n. 431 del 2021, dell’art. 4 bis , comma
2, del decreto legge n. 78 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 125 del 2015, anche alla luce dell’art. 97 Cost.. L’impugnata sentenza aveva omesso di esaminare e di pronunciarsi in merito a un rilievo decisivo delle odierne ricorrenti, già formulato come motivo di ricorso in primo grado e ribadito nelle controdeduzioni in appello, ovvero che gli atti impugnati erano illegittimi in quanto sottoscritti da un funzionario dell’ufficio e non dal direttore pro tempore , non risultando la prova della delega dal direttore al funzionario che ha sottoscritto gli atti impositivi. Inoltre, la delega doveva essere scritta, motivata, personale e a tempo determinato, non potendo ritenersi ammesse né prevedibili «deleghe a cascata».
6. Il sesto motivo deduce, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, discusso tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 136, comma 4, del regolamento UE 2447 del 2015 e dell’art. 1362 cod. civ., nonché degli artt. 70 e 71, par. 1, lett. c), CDU (Regolamento UE 952 del 2014) e art. 136 del Regolamento UE n. 2447 del 2015, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.. L’impugnata sentenza aveva omesso di considerare un’ulteriore decisiva circostanza dedotta dalle società ricorrenti nei giudizi di merito, ovvero che l’art. 3.2. (b) prevedeva che il licenziatario poteva procurarsi i prodotti da qualsiasi fonte indipendentemente dal pagamento delle royalties. L’impugnata sentenza non aveva considerato quanto dedotto dalle odierne ricorrenti nei giudizi di merito in relazione all’art. 4.1 del « Sublicense agreemen », ovvero che esso, nel prevedere che « i requisiti di pagamento delle Royalty così come definiti nell’Articolo 3 dovranno regolare tutte le vendite di Prodotti (da parte del Licenziatario N.d.R.) indipendentemente dalle modalità di approvvigionamento del Licenziatario » non faceva che confermare quanto precedentemente previsto all’art. 3.2 e, cioè, che i pagamenti delle royalties erano
indipendenti dalla fornitura delle merci con incorporati i marchi «RAGIONE_SOCIALE».
7. Il primo e il secondo motivo, che trattano entrambi della questione del giudicato esterno, con riferimento alle sentenze n. 4715/2019 della Commissione tributaria regionale della Lombardia e n. 177/2023 della Commissione tributaria provinciale di Como (cfr. anche memoria depositata con modalità informatiche in data 12-13 settembre 2024), devono essere esaminati congiuntamente e sono inammissibili, occorrendo muovere dal rilievo che « il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con l’onere di autosufficienza del ricorso; pertanto, la parte ricorrente che deduca l’esistenza del giudicato deve, a pena d’inammissibilità del ricorso, riprodurre in quest’ultimo il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione » (Cass., 27 febbraio 2024, n. 5126; Cass., 23 giugno 2017, n. 15737), necessitando, in particolare, il « richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo » (Cass., 8 marzo 2018, n. 5508), onere che, nel caso in esame, non è stato assolto dalle società ricorrenti.
7.1 I motivi sono, pure, infondati.
7.1.1 E ‘ necessario premettere che nel caso in esame viene in rilievo il giudicato sostanziale che trova la sua fonte normativa nell’art. 2909 cod. civ., a tenore del quale « l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa » e che, a differenza del giudicato formale di cui all’ art. 324 cod. proc. civ. (che determina il momento nel quale gli effetti della sentenza diventano immutabili, momento che viene individuato nell’esaurimento di tutti i mezzi di impugnazione oppure nel mancato esercizio del potere di impugnazione nei termini stabiliti), stabilisce i limiti oggettivi e soggettivi degli effetti sostanziali, ormai non più soggetti a modificazione, determinati dalla sentenza.
7.1.2 I limiti oggettivi del giudicato, che sono delineati dall’accertamento contenuto nella sentenza, corrispondono all’oggetto del processo e riguarda non solo quanto dedotto dalle parti (il c.d. giudicato esplicito o dedotto), ma anche le ragioni non specificamente dedotte che si presentano come un antecedente logico necessario rispetto alla pronuncia (c.d. deducibile o giudicato implicito) (Cass., 9 novembre 2022, n. 33021; Cass., 7 dicembre 2021, n. 38767; Cass., 12 marzo 2020, n. 7115; Cass., 26 febbraio 2019, n. 5486).
7.1.3 Come affermato da questa Corte, anche di recente, « il principio in virtù del quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile concerne i limiti oggettivi del giudicato, il cui ambito di operatività è correlato all’oggetto del processo e riguarda, perciò, tutto quanto rientri nel suo perimetro, estendendosi non soltanto alle ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio, ma anche a tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia; i limiti oggettivi del giudicato, pertanto, anche con riguardo al deducibile, non si estendono a domande diverse per petitum e causa petendi, rispetto alle quali può porsi soltanto il problema di una eventuale preclusione che, tuttavia, non può ritenersi sussistente in ragione del mero rapporto di connessione intercorrente con una domanda già proposta in un giudizio precedente, in quanto la connessione incide normalmente sulla competenza del giudice, ma non postula il necessario cumulo delle domande connesse » (Cass., 11 gennaio 2024, n. 1259).
7.1.4 Ancora, nell’ambito del giudicato, si opera un’ulteriore distinzione tra giudicato interno e giudicato esterno (che è quello che rileva nel caso in esame) e mentre il giudicato interno si forma nell’ambito dello stesso processo, tra le stesse parti e sul medesimo oggetto, per effetto di una impugnazione parziale, con il conseguente corollario che sono coperti da giudicato i punti della sentenza non
impugnati (Cass., 30 giugno 2022, n. 20951; Cass., 15 dicembre 2021, n. 40276; Cass., 18 settembre 2017, n. 21566; Cass., 17 settembre 2008, n. 23747; Cass., 23 agosto 2007, n. 17935), i l giudicato esterno si forma in un diverso giudizio, tra le stesse parti ed avente lo stesso oggetto e ciò anche se il giudizio successivo ha delle finalità diverse (Cass., 29 dicembre 2021, n. 41895, Cass., 1 luglio 2015, n. 13498; Cass., 30 ottobre 2012, n. 24433; Cass., 29 luglio 2011, n. 16675; Cass., Sez. U., 16 giugno 2006, n. 13916).
7.1.5 Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sussiste giudicato esterno qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato; in tal caso, l’accertamento compiuto nel giudicato in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo del giudicato, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo (cfr. Cass., 29 dicembre 2021, n. 41895, in motivazione; Cass., 3 gennaio 2019, n. 37).
7.1.6 Più specificamente, il giudicato esterno impedisce la proposizione di un nuovo giudizio caratterizzato dalla identità dei predetti elementi (soggetti e oggetto) ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, anche nell’ipotesi in cui il medesimo si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, trattandosi di un dato che può essere assimilato agli elementi normativi astratti, in quanto destinato a fissare la regola del caso concreto, sicché il suo accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del «ne bis in idem», corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo
e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione (Cass., 11 gennaio 2022, n. 571; Cass., 26 luglio 2021, n. 21375).
7.1.7 Dunque, qualora due giudizi tra le stesse parti facciano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto e tale efficacia, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio dell’autonomia dei periodi d’imposta, in quanto l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente. In riferimento a tali elementi, il riconoscimento della capacità espansiva del giudicato appare d’altronde coerente non solo con l’oggetto del giudizio tributario, che attraverso l’impugnazione dell’atto mira all’accertamento nel merito della pretesa tributaria, entro i limiti posti dalle domande di parte, e quindi ad una pronuncia sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria (salvo che il giudizio non si risolva nell’annullamento dell’atto per vizi formali o per vizio di motivazione), ma anche con la considerazione unitaria del tributo dettata dalla sua stessa ciclicità, la quale impone, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e di effettività della tutela giurisdizionale, di valorizzare
l’efficacia regolamentare del giudicato tributario, quale «norma agendi» cui devono conformarsi tanto l’Amministrazione finanziaria quanto il contribuente nell’individuazione dei presupposti impositivi relativi ai successivi periodi d’imposta (Cass., 24 maggio 2022, n. 16684; Cass., 27 ottobre 2021, n. 38950; Cass., 20 febbraio 2020, n. 15171; Cass., 20 dicembre 2018, n. 32957).
7.2 Ciò posto, osserva la Corte che, nel caso di specie, non sia invocabile l’autorità del giudicato sostanziale esterno che opera, come già detto, entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione, e presuppone, quindi, che la causa precedente e quella in atto abbiano in comune, oltre ai soggetti, anche il petitum e la causa petendi , restando irrilevante, a tal fine, l’eventuale identità delle questioni giuridiche o di fatto da esaminare per pervenire alla decisione (cfr. Cass., 1 marzo 2024, n. 5515; Cass., 7 giugno 2021, n. 15817; Cass., 25 giugno 2018, n. 16688; Cass., 24 marzo 2014, n. 6830).
7.2.1 Ed invero, è sufficiente rilevare, al riguardo, che la causa in esame riguarda bollette doganali afferenti ad operazioni doganali diverse rispetto a quelle in relazione alle quali le società hanno dedotto la sussistenza del giudicato esterno, ciò che rende diverso il « petitum » degli atti di contestazione degli illeciti doganali oggetto di impugnazione nelle rispettive cause.
7.2.2 E’ utile precisare che, nel caso di specie, il fatto generatore dell’imposta è retto dalla dichiarazione in dogana e sul valore doganale delle merci importate oggetto della bolletta doganale; vi è, dunque, una dichiarazione doganale, atto con il quale il soggetto interessato manifesta la volontà di vincolare quelle determinate merci dichiarate ad uno specifico regime doganale e la merce dichiarata è proprio quella oggetto della dichiarazione, con il valore doganale esposto in dichiarazione, ovvero il fatto generatore dell’obbligazione doganale è retto dalla dichiarazione in dogana (Cass., 26 febbraio 2019, n. 5560).
Inoltre, questa Corte ha pure affermato che, nella specifica materia doganale, non sussiste un equipollente alla « diversità di periodo d’imposta », che, sicuramente, non è identificabile nel compimento delle singole operazioni doganali e ha statuito il principio di diritto secondo cui « In tema di sanzioni doganali è inapplicabile il regime della continuazione di cui all’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 472 del 1997, che postula che le violazioni siano state “commesse in periodi d’imposta diversi”, nozione questa estranea alla materia doganale, senza che ad essa possa ritenersi equivalente il compimento delle singole operazioni d’importazione o esportazione » (Cass., 21 settembre 2020, n. 19663), il che esclude, al contempo, la problematica della configurabilità, nella vicenda in esame, dell’istituto del giudicato esterno in caso di situazioni giuridiche di durata, (nella specie, per quanto rilevato, del tutto assenti), che, come già rilevato, opera in presenza di elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta, assumono carattere tendenzialmente permanente.
7.3 Né, all’evidenza, in assenza di un giudicato, viene in rilievo un problema di compatibilità o di contrasto tra norme europee produttive di effetti diretti e disposizioni nazionali di diritto sostanziale, quale quella di cui all’art. 2909 cod. civ., con la conseguente disapplicazione delle disposizioni nazionali in virtù del carattere di supremazia dell’ordinamento dell’Unione.
7.3.1 In proposito, occorre precisare che la questione dei rapporti tra la normativa nazionale che fissa la autorità del giudicato ed il diritto dell’Unione è stata già esaminata da questa Corte sulla base dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia, che ha affermato che « Il diritto dell ‘UE, così come costantemente interpretato dalla corte di giustizia (sentenze 3 settembre 2009, in causa C-2/08, RAGIONE_SOCIALE, e 16 marzo 2006, in causa C234/04, COGNOME) non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa
giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione del diritto unionale da parte di tale decisione. Invero, la corte di giustizia ha fatto salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, in cui il rinvio pregiudiziale è possibile o obbligatorio anche a fronte di passaggio in giudicato della sentenza impugnata, ipotesi che ricorrono allorquando sussistano discriminazioni tra situazioni di diritto unionale e situazioni di diritto interno ovvero che sia reso in pratica impossibile o estremamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento UE. Neppure sussistono le ipotesi eccezionali in cui, invece, il giudice nazionale può superare il giudicato: non vertesi in ipotesi di discriminazioni tra situazioni di diritto dell’UE e situazioni di diritto interno, né le norme dell’ordinamento nazionale da cui deriva l’inammissibilità del ricorso in cassazione rendono in pratica impossibile o estremamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento unionale » (Cass., 13 luglio 2018, n. 18642 e, più di recente, Cass., 6 agosto 2019, n. 2100 e Cass., 14 dicembre 2021, n. 397902).
7.3.2 Ed invero, « Il giudice dell’Unione ha, con plurime pronunce (per tutte: Corte di Giustizia 4 marzo 2020, in causa C-34/19, punti 65-71, Telecom s.p.a. e giurisprudenza ivi citata ) evidenziato che: – qualora le norme procedurali interne applicabili prevedano la possibilità, a determinate condizioni, per il giudice nazionale di ritornare su una decisione munita di autorità di giudicato, per rendere la situazione compatibile con il diritto nazionale, tale possibilità deve essere esercitata – conformemente ai principi di equivalenza e di effettività e sempre che dette condizioni siano soddisfatte – per ripristinare la conformità della situazione oggetto di giudizio alla normativa dell’Unione; – in caso diverso, il diritto dell’Unione non impone che, per tener conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto adottata dalla Corte, un organo giurisdizionale nazionale debba necessariamente riesaminare una sua decisione che goda dell’autorità
di cosa giudicata . A tale riguardo la Corte di Giustizia ha evidenziato l’importanza che riveste, sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali, il principio dell’autorità della cosa giudicata. Infatti, al fine di garantire tanto la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici quanto una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione. Il diritto dell’Unione non impone, dunque, ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetta di porre rimedio alla violazione di una disposizione del diritto dell’Unione, di qualunque natura essa sia. Nella sentenza del 10 luglio 2014 in causa C-213/13 COGNOME la Corte di Giustizia ha chiarito che il suddetto principio non è posto in discussione dalla propria sentenza 18 luglio 2008, in causa C-119/05 COGNOME spa (secondo la quale il diritto dell’Unione osta all’applicazione di una disposizione nazionale, come l’articolo 2909 del codice civile italiano, che mira a consacrare il principio dell’intangibilità del giudicato nei limiti in cui la sua applicazione impedirebbe il recupero di un aiuto di Stato concesso in violazione del diritto dell’Unione e dichiarato incompatibile con il mercato comune da una decisione della Commissione europea divenuta definitiva). Si è precisato che nel caso ivi esaminato si trattava di una situazione del tutto particolare, in cui erano in questione principi di disciplina della ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e l’Unione europea in materia di aiuti di Stato » (Cass., 12 maggio 2022, n. 15102, in motivazione; Cass. 14 dicembre 2021, n. 39790).
7.3.3 Le considerazioni sopra espresse sono state esaminate anche alla luce della giurisprudenza unionale in materia di limiti di applicabilità del giudicato quando la pretesa impositiva ha avuto ad oggetto, quale quella in esame, tributi armonizzati, cioè sottoposti alla specifica
disciplina e questa Corte ha rilevato che « Peraltro trattandosi pur sempre dell’opponibilità di un giudicato, con riferimento ai tributi armonizzati occorre tenere conto della regola di diritto ricavabile da CGUE 3 settembre 2009, in causa C-2/08, RAGIONE_SOCIALE, secondo la quale, in assenza di una normativa unionale in materia, ‘ le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi. Esse non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) ‘ ; 2.4.1. Sicché, secondo la menzionata sentenza, il diritto unionale osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 cod. civ., in una causa vertente sull’IVA concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, ‘ in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta ‘ . 2.4.2. Tale principio è stato già recepito dalla giurisprudenza della S.C. in materia di IVA, affermando che non è possibile estendere ad altri periodi di imposta un giudicato in contrasto con la disciplina unionale, avente carattere imperativo, proprio perché ne comprometterebbe la sua effettività (Cass. n. 9710 del 19/04/2018; conf. Cass. n. 8855 del 04/05/2016; Cass. 5 ottobre 2012, n. 16996; Cass. 19 maggio 2010, n. 12249). 2.4.3. Peraltro, è la stessa sentenza RAGIONE_SOCIALE a chiarire che, in linea di principio, gli effetti del giudicato vanno salvaguardati salvo ipotesi del tutto particolari (si veda, in senso analogo, anche CGUE 10 luglio 2014, in causa C-213/13, COGNOME § 58) o che investono la stessa ripartizione di competenze tra gli Stati membri e la UE (cfr. CGUE 18 luglio 2007,
in causa C-119/05, COGNOME). Si tratta, pertanto, di un principio da applicare restrittivamente, in quanto ‘ il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto ‘ (CGUE 10 luglio 2014, cit., § 59) » e ha concluso affermando che «2.5. Orbene, non è dubbio che la materia dei dazi doganali risenta, al pari dell’IVA, delle norme dettate dalla UE, trattandosi di risorsa propria dell’Unione. E, tuttavia, non può non evidenziarsi che, diversamente dall’IVA, l’imposta non è suscettibile di applicazione periodica, ma riguarda singole importazioni, sicché l’occasionale impedimento all’effettività del diritto unionale conseguente all’applicabilità della regola prevista dall’art. 2909 cod. civ. non è di rilevanza pari a quanto prospettato dalla CGUE nella sentenza RAGIONE_SOCIALE, laddove la non corretta applicazione del diritto dell’unione «si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia possibile correggere tale erronea interpretazione» (CGUE 3 settembre 2009, cit., § 30 )» (Cass., 16 dicembre 2019, n. 33095, in motivazione).
7.3.4 In conclusione, la Corte di giustizia, tenuto conto dei precedenti sopra indicati, ha confermato il valore che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario che negli ordinamenti giuridici nazionali e che il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, fatte salve situazioni eccezionali (a titolo di esempio, aiuti di Stato e pratiche abusive in tema di Iva), in cui il giudicato non può impedire al giudice nazionale di applicare le norme comunitarie, precisando che una interpretazione dell’art. 2909 cod. civ., che consenta di ritenere comunque prevalente
l’autorità della cosa giudicata rispetto all’esigenza di tutelare l ‘ applicazione del diritto comunitario, non è corretta, in quanto ostacoli di tale portata all’applicazione effettiva delle norme comunitarie in materia di tributi unionali non possono essere ragionevolmente giustificati dal principio della certezza del diritto e devono essere, dunque, considerati in contrasto con il principio di effettività. Ancora, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi (adesso principio di competenza ex art. del TUE, che richiama l’art 47 della Carta, cfr. Corte di giustizia, sentenza 2 marzo 2021, causa C-824/18) e non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività).
7.4 In ultimo, è utile precisare che il giudicato giammai può riguardare l’attività interpretativa delle norme di diritto, in quanto « l’attività interpretativa delle norme giuridiche compiuta dal Giudice, consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non può mai costituire limite all’attività esegetica esercitata da altro Giudice, dovendosi richiamare a tale proposito il distinto modo in cui opera il vincolo determinato dall’efficacia oggettiva del giudicato ex art. 2909 cod. civ. rispetto a quello imposto, in altri ordinamenti giuridici, dal principio dello ‘ stare decisis ‘ (cioè, del precedente giurisprudenziale vincolante) che non trova riconoscimento nell’attuale ordinamento processuale (cfr. Cass, 15 luglio 2016, n. 14509, Cass., 21 ottobre 2013, n. 23723) », con la conseguenza che « l’interpretazione ed individuazione della norma giuridica posta a fondamento della pronuncia -salvo che su tale pronuncia si sia formato il giudicato interno -non limitano il Giudice dell’impugnazione nel
potere di individuare ed interpretare la norma applicabile al caso concreto e non sono, quindi, suscettibili di passare in giudicato autonomamente dalla domanda o dal capo cui si riferiscono, assolvendo ad una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione (cfr. Cass. 20 ottobre 2010, n. 216561, Cass. 23 dicembre 2003, n. 19679) » (cfr. Cass., 5 marzo 2024, n. 5822, in motivazione). 7.5 Né può farsi richiamo al principio, più volte enunciato in sede di legittimità, in forza del quale « se l’accertamento dell’esistenza, validità e natura giuridica di un contratto, fonte di un rapporto obbligatorio, costituisce il presupposto logico -giuridico di un diritto derivatone, il giudicato si estende al predetto accertamento e pertanto spiega effetto in ogni altro giudizio, tra le stesse parti, nel quale il medesimo contratto è posto a fondamento di ulteriori diritti, inerenti al medesimo rapporto (Cass., Sez. 3, 24 marzo 2006, n. 6628; Cass., Sez. L, 14 agosto 1999, n. 8680; Cass., Sez. 3, 29 settembre 1997, n. 9548; Cass., Sez. L, 13 maggio 1995, n. 5243; Cass., Sez. 1, 22 novembre 1990, n. 11277) » (Cass., 14 giugno 2024, 16618, in motivazione), poiché, per quanto rilevato, tale principio postula che i giudizi interessati siano fra le stesse parti e vertano sul medesimo negozio o rapporto giuridico, ancorché le finalità dei due giudizi siano diverse, evenienza che non sussiste nella fattispecie in esame. Solo in tal caso « la denuncia di violazione del giudicato esterno attribuisce poi a questa Corte il potere di accertare direttamente l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito » (Cass., Sez. U., 28 novembre 2007, n. 24664).
7.6 In conclusione, il primo e il secondo motivo vanno rigettati in applicazione del seguente principio di diritto: « Il diritto dell’UE, come interpretato dalla Corte di giustizia nel rispetto del principio di
competenza ex art. 4 del TFUE, non impone al giudice nazionale, anche in tema di tributi armonizzati, di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione del diritto unionale da parte di tale decisione, fatte salve situazioni eccezionali (a titolo di esempio, aiuti di Stato e pratiche abusive in tema di Iva), in cui il giudicato, in ossequio ai principi di equivalenza e di effettività, non può impedire al giudice nazionale di applicare le norme comunitarie».
Il terzo, quarto e sesto motivo, che devono essere trattati unitariamente perché connessi, sono infondati.
8.1 Deve premettersi che la presente fattispecie è regolata dal Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio (UE) del 9 ottobre 2013, n. 952/2013, istitutivo del Codice doganale dell’Unione europea (CDU), e dal corrispondente Regolamento di esecuzione Reg (UE) del 24 novembre 2015, n. 2447/2015 (che hanno fatto seguito al Regolamento (CEE) n. 2913/92, del 12 ottobre 1992, istitutivo del Codice doganale comunitario e al Regolamento Ce del 2 luglio 1993, n. 2454/1993, contenente disposizioni di attuazione del codice doganale comunitario).
8.1.1 In proposito, l’art. 70 del vigente codice doganale comunitario, pone, al comma 1, la regola generale che il valore in dogana è quello di transazione, ossia « il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci », mentre il comma successivo dispone che questo « è il pagamento totale che è stato o deve essere effettuato dal compratore nei confronti del venditore, o dal compratore a una terza parte, a beneficio del venditore, per le merci importate, e comprende tutti i pagamenti che sono stati o devono essere effettuati, come condizione della vendita delle merci importate ».
8.1.2 Tale valore può essere adottato ove ricorrano tutte le condizioni seguenti: « a) non esistano restrizioni per la cessione o per
l’utilizzazione delle merci da parte del compratore, oltre a una qualsiasi delle seguenti: i) restrizioni imposte o richieste dalla legge o dalle autorità pubbliche nell’Unione; ii) limitazioni dell’area geografica nella quale le merci possono essere rivendute; iii) restrizioni che non intaccano sostanzialmente il valore in dogana delle merci; b) la vendita o il prezzo non siano subordinati a condizioni o prestazioni per le quali non possa essere determinato un valore in relazione alle merci da valutare; c) nessuna parte dei proventi di qualsiasi rivendita, cessione o utilizzazione successiva delle merci da parte del compratore ritorni, direttamente o indirettamente, al venditore, a meno che non possa essere operato un appropriato adeguamento; d) il compratore e il venditore non siano collegati o la relazione non abbia influenzato il prezzo » (art. 70, par. 1, del Reg. (UE) n. 952/2013)
8.1.3 Il prezzo effettivamente pagato o da pagare coincide con il « pagamento totale che è stato o deve essere effettuato dal compratore nei confronti del venditore, o dal compratore a una terza parte, a beneficio del venditore, per le merci importate, e comprende tutti i pagamenti che sono stati o devono essere effettuati, come condizione della vendita delle merci importate » (art. 70, par. 2, del Reg. (UE) n. 952/2013).
8.1.4 Il successivo art. 71, poi, individua tra gli elementi da includere nel valore di transazione « a) i seguenti elementi, nella misura in cui sono a carico del compratore ma non inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci: i) le commissioni e le spese di mediazione, fatta eccezione per le commissioni di acquisto; ii) il costo dei container considerati, ai fini doganali, come formanti un tutt’uno con la merce; e iii) il costo dell’imballaggio comprendente sia la manodopera sia i materiali; b) il valore, attribuito in misura adeguata, dei prodotti e servizi qui di seguito elencati, qualora questi siano forniti direttamente o indirettamente dal compratore, senza spese o a costo ridotto e siano utilizzati nel corso della produzione e della vendita per
l’esportazione delle merci importate, nella misura in cui detto valore non sia stato incluso nel prezzo effettivamente pagato o da pagare: i) materie, componenti, parti e elementi similari incorporati nelle merci importate; ii) utensili, matrici, stampi e oggetti similari utilizzati per la produzione delle merci importate; iii) materie consumate durante la produzione delle merci importate; e iv) i lavori di ingegneria, di sviluppo, d’arte e di design, i piani e gli schizzi eseguiti in un paese non membro dell’Unione e necessari per produrre le merci importate; c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; d) il valore di tutte le quote dei proventi di qualsiasi ulteriore rivendita, cessione o utilizzo delle merci importate spettanti, direttamente o indirettamente, al venditore; e) le seguenti spese fino al luogo d’introduzione delle merci nel territorio doganale dell’Unione: i) le spese di trasporto e di assicurazione delle merci importate; e ii) le spese di carico e movimentazione connesse al trasporto delle merci importate ».
8.1.5 Ai sensi dell’art. 71, par. 2, CDU, « Le aggiunte al prezzo effettivamente pagato o da pagare (…) sono effettuate esclusivamente sulla base di dati oggettivi e quantificabili ».
8.1.6 Il Reg. di esecuzione ( UE) 2015/2447 della Commissione, all’ art. 136, precisa, poi, che « I corrispettivi e i diritti di licenza sono considerati pagati come condizione della vendita delle merci importate quando è soddisfatta una delle seguenti condizioni: a) il venditore o una persona ad esso collegata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento; b) il pagamento da parte dell’acquirente è effettuato per soddisfare un obbligo del venditore, conformemente agli obblighi contrattuali; c) le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questo acquistate senza versamento dei corrispettivi o dei diritti di
licenza a un licenziante » (comma 4), giudicando irrilevante il paese in cui è stabilito il destinatario del pagamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza (comma 5).
8.2 Dunque, con specifico riferimento ai diritti di licenza, il legislatore unionale ha previsto tra gli elementi che devono essere addizionati per determinare il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate ai fini della determinazione del valore delle merci l’art. 71, par. 1, lett. c), CDU, anche « i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare », con la conseguenza che le royalties devono essere addizionate al valore di transazione se sono integrate tutte le seguenti condizioni: a) non sono già state incluse nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; b) sono relative alle merci da valutare; c) il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagarle come condizione per la vendita delle merci da valutare e le integrazioni di tale valore devono avvenire sulla base di dati oggettivi e quantificabili. Anche i diritti di licenza, allora, sono destinati ad incidere sulla determinazione del valore doganale qualora i corrispondenti beni immateriali siano incorporati nella merce, così esprimendone o contribuendo ad esprimerne il valore economico.
8.2.1 Il valore in dogana deve, dunque, riflettere il valore economico reale della merce importata e, come è stato affermato anche di recente dai giudici unionali, deve considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti. In particolare, è stato precisato che « Il diritto dell’Unione in materia di valutazione doganale mira a stabilire un sistema equo, uniforme e neutro che escluda l’impiego di valori in dogana arbitrari o fittizi. Il valore in dogana deve quindi riflettere il valore economico reale di una merce importata e tale obiettivo deve prevalere anche quando
il valore in dogana è determinato in forza di disposizioni speciali » (CGUE, 21 settembre 2023, n. 770/21) e che « Sebbene un operatore economico non possa sottrarsi al diritto dell’Unione invocando i propri obblighi contrattuali, la determinazione del valore in dogana di merci importate non può tuttavia essere stabilita in maniera astratta. Conformemente alla giurisprudenza della Corte, essa trova il suo fondamento nelle condizioni in base alle quali è stata effettuata la vendita di cui trattasi, anche se queste differiscono dagli usi commerciali o possono essere considerate inabituali per il tipo di contratto considerato. In tal senso, al fine di valutare se il valore in dogana delle merci importate rifletta il loro valore economico reale, occorre prendere in considerazione la situazione giuridica concreta delle parti del contratto di vendita. Pertanto, non tener conto delle condizioni di vendita nell’ambito della determinazione del valore in dogana di tali merci sarebbe non solo contrario alle disposizioni dell’articolo 29, paragrafo 1, del codice doganale comunitario e dell’articolo 70, paragrafo 1, del codice doganale dell’Unione, ma condurrebbe inoltre a un risultato che non consente di riflettere il valore economico reale di dette merci » (CGUE, 22 aprile 2021, n. 75/20).
8.2.2 Ed invero, la Corte unionale, sul presupposto appunto che né l’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del precedente codice doganale, né l’art. 157, paragrafo 2, del regolamento 2454/93, hanno precisato cosa si debba intendere per «condizione di vendita» delle merci da valutare e, più in particolare, quando ricorra la terza condizione sopra indicata, secondo cui l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare), ha affermato che la nozione « condizione di vendita» sta ad indicare la situazione in cui, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore o la persona ad esso legata – e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo o del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere,
circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Ha, quindi, aggiunto, che qualora, come nel caso in esame, il beneficiario delle royalties sia soggetto diverso dal venditore, occorre «verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente » (CGUE, 9 marzo 2017, RAGIONE_SOCIALE, C-173/15 ed anche Cass. 6 aprile 2018, n. 8473, in motivazione).
8.2.3 Anche questa Corte ha precisato che « Per determinare il valore in dogana delle merci da importare, il prezzo effettivamente pagato o da pagare è integrato dai corrispettivi e i diritti di licenza relativi, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci stesse. Ciò sempre considerando, da un lato, che devono essere valutati una pluralità di profili specificamente concernenti ciascuna fattispecie concreta e, dall’altro, che il mero controllo di qualità non è rilevante » (Cass., 1 dicembre 2022, n. 35359; Cass., 30 gennaio 2020, n. 2140; Cass. 6 aprile 2018, n. 8473, in motivazione).
8.2.4 E ciò, per l’appunto, in coerenza con l’art. 160 del Reg. n. 2454/93, secondo cui il pagamento delle royalties costituisce una condizione della vendita quando il venditore o una persona ad esso «legata» chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento e con l’art. 143 dello stesso Regolamento di esecuzione che stabilisce quando due o più soggetti sono «legati» («a) l’una fa parte della direzione o del consiglio di amministrazione dell’impresa dell’altra e viceversa; b) hanno la veste giuridica di associati; c) l’una è il datore di lavoro dell’altra; d) una persona qualsiasi possegga, controlli o detenga, direttamente o indirettamente, il 5 % o più delle azioni o quote con diritto di voto delle imprese dell’una e dell’altra; e) l’una controlla direttamente o indirettamente l’altra; f) l’una e l’altra sono direttamente o indirettamente controllate da una terza persona; g) esse controllano assieme, direttamente o indirettamente, una terza persona; oppure se h) appartengono alla stessa famiglia.
Secondo tale disciplina, si consideravano appartenenti alla stessa famiglia solo le persone tra le quali intercorreva uno dei seguenti rapporti: (i) marito e moglie, (ii) ascendenti e discendenti, in linea diretta, di primo grado, (iii) fratelli e sorelle (germani e consanguinei o uterini), (iv) ascendenti e discendenti, in linea diretta, di secondo grado, (v) zii/zie e nipoti – suoceri e generi o nuore – cognati e cognate» ).
8.3 Con il nuovo codice doganale l’esigenza di stabilire l’esistenza di un «legame» tra i soggetti coinvolti nelle operazioni che danno luogo all’importazione delle merci e al pagamento dei corrispettivi e diritti di licenza si è attenuta, in quanto, con il nuovo codice doganale l’esistenza di un collegamento fra il terzo che richiede il pagamento delle royalties e il venditore non è più indispensabile, ma costituisce solo una delle condizioni, in sé sufficiente ma non necessaria per dimostrare l’obbligatorietà del pagamento delle royalties quale condizione della vendita, con la conseguenza che, nei rapporti trilaterali, i corrispettivi e i diritti di licenza concorrono ad integrare il valore delle merci importate se sono versati in un contesto in cui il licenziante può controllare i produttori che vendono i beni al licenziatario e per stabilire se ricorrono tali condizioni è necessario esaminare tutti i contratti commerciali, ivi compresi i contratti di licenza.
8.3.1 Come già precisato da questa Corte, in modo condivisibile, « deve dunque concludersi che con il nuovo codice doganale l’esistenza di un collegamento fra il terzo che richiede il pagamento delle royalties e il venditore non è più, come invece previsto dal Reg. (CEE) n. 2454 del 1993, art. 157, par. 1, indispensabile, ma costituisce solo una delle condizioni, in sé sufficiente ma non necessaria per dimostrare l’obbligatorietà del pagamento delle royalties quale condizione della vendita; sicché, la nuova disciplina consente, pertanto, di includere le royalties nel valore delle merci anche in assenza di un collegamento tra il venditore e il licenziante, escludendo che tale circostanza abbia valore essenziale » e che la nozione di controllo prevista dal Regolamento di esecuzione (UE) 2015/2447 « è più generica ed ampia
di quella precedente e non richiede necessariamente che il potere di orientamento investa la totalità delle attività del soggetto controllato » (Cass., 13 febbraio 2020, n. 3606, in motivazione).
8.3.2 In tal senso si esprime il Taxud/B4/2016: « il criterio applicabile è capire se il venditore può vendere o se il compratore può comprare le merci senza pagare royalties o diritti di licenza. La condizione può essere implicita o esplicita. In alcuni casi sarà specificato nell’accordo di licenza se la vendita delle merci importate è subordinato al pagamento di un corrispettivo o di un diritto di licenza. Tuttavia, non è richiesto che ciò debba essere precisato negli accordi ».
8.3.3 Ciò che, come precisato anche nel citato documento TAXUD del 2016, rispecchia le indicazioni del Commentario 25.1 del 2011 del World Customs Organization (WCO), che, a loro volta, sono congruenti con quelle del Taxud/800/2002, con la conseguenza che il documento Taxud/800/2002 mantiene inalterato il suo valore orientativo, perché la normativa successivamente introdotta fornisce una regolamentazione della materia che privilegia in misura più incisiva la rilevanza delle royalties pagate ai fini della determinazione del valore delle merci ed anche il nuovo documento TAXUD del 2016 non si discosta dalle linee generali fondamentali già affermate (cfr. Cass., 16 maggio 2023, n. 13338; Cass., 13 febbraio 2020, n. 3606).
8.3.4 E’, dunque, evidente che il documento TAXUD-800-2002 mantiene inalterato il suo valore orientativo, sia perché riferito alla disciplina contenuta nel codice doganale comunitario applicabile ratione temporis, sia perché la normativa successivamente introdotta fornisce una regolamentazione della materia che privilegia in misura più incisiva la rilevanza delle royalties pagate ai fini della determinazione del valore delle merci, sia perché anche il nuovo documento TAXUD del 2016 non si discosta dalle linee generali fondamentali già affermate (Cass., 16 maggio 2023, n. 13338).
8.3.5 Più in particolare, questa Corte ha evidenziato che « La eliminazione del documento dalla raccolta non appare conseguenza della perdita del suo valore interpretativo, bensì dell’abrogazione del CDC e del DAC, che ha conseguentemente determinato la necessità di abbandonare il vecchio documento di prassi e sostituirlo con un nuovo documento che si riferisca alla nuova normativa unionale: Reg. n. 952/2013/UE-CDU (nuovo codice doganale) e Reg. n. 2015/2447/UERE (nuovo regolamento di esecuzione) » (Cass., 30 gennaio 2020, n. 2140), così evidenziando che gli indicatori di cui al documento TAXUD800-2002 non hanno perso il loro valore orientativo, in quanto la nuova normativa unionale ha disciplinato la materia in continuità con la precedente.
8.3.6 Ed invero, q uanto all’accertamento di quel potere di controllo, questo è inteso « in un’accezione ampia, secondo cui è sufficiente anche un mero potere di orientamento, e necessariamente casistica, che ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene » ed « utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana), contenuto nel documento TAXUD/800/2002, nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del codice doganale », avendo la Corte di giustizia, nella sentenza 7 marzo 2017, RAGIONE_SOCIALE, citata, stabilito che questi documenti « sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sé considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice » (Cass., 16 maggio 2023, n. 13338).
8.3.7 In particolare, il documento in questione annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri,
i seguenti: il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente; il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione); il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente; il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti; il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci; il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc.; il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti; il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre; il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore; il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante; le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/loro design e con riguardo al marchio di fabbrica); le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante (cfr. anche Cass., 13 settembre 2023, n. 26466, in motivazione).
8.4 Tutto ciò premesso, i diritti di licenza sono considerati pagati come condizione della vendita delle merci importate se il venditore o una persona ad esso collegata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento o il pagamento da parte dell’acquirente è effettuato per soddisfare un obbligo del venditore, conformemente agli obblighi contrattuali, oppure se le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questo acquistate senza versamento delle royalties a un licenziante, e l ‘operazione ermeneutica che l’interprete deve effettuare è quella di stabilire se il venditore possa
vendere o se il compratore possa acquistare le merci senza il pagamento di corrispettivi o diritti di licenza e, in questo, assume rilievo, oltre il contratto di vendita, anche il contratto di licenza o altri documenti relativi all’operazione dai quali emerga, anche in modo implicito, se la vendita delle merci importate sia o meno subordinata al pagamento delle royalties . Come già ricordato, l’art. 136, par. 4, lettera c), del Regolamento di esecuzione prevede che « I corrispettivi e i diritti di licenza sono considerati pagati come condizione della vendita delle merci importate quando è soddisfatta una delle seguenti condizioni: a) il venditore o una persona ad esso collegata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento; b) il pagamento da parte dell’acquirente è effettuato per soddisfare un obbligo del venditore, conformemente agli obblighi contrattuali; c) le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questo acquistate senza versamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza a un licenziante », con ciò mettendo in rilievo (come sottolineato da autorevole dottrina) che le disposizioni relative alle condizioni per la vendita si basano su impegni assunti dall’acquirente o dal venditore e sono vincolanti per gli stessi (dando così priorità agli elementi contrattuali) e che il criterio della «condizione di vendita» si riferisce non solo alle condizioni imposte dal o sul venditore, ma anche sull’acquirente, con la conseguenza che, al fine di stabilire se tali pagamenti debbano essere addizionati al valore delle merci occorre valutare non solo le condizioni imposte dal o al venditore, ma anche quelle imposte all’acquirente. In base a tali elementi è stata considerata come una condizione della vendita delle merci importate il pagamento preteso dal venditore come condizione per la distribuzione esclusiva delle merci sul territorio interessato, oppure la circostanza che il venditore delle merci, altresì beneficiario del pagamento, non avrebbe ceduto tali merci, senza tale pagamento, per la loro distribuzione esclusiva su un determinato territorio e, di contro, è stato ritenuto indifferente che detto pagamento dovesse
essere effettuato solo per un periodo limitato di tempo (cfr. CGUE, 19 novembre 2020, causa C-775/19). Analogamente deve operarsi nelle ipotesi in cui i diritti di licenza non siano pagati al venditore, ma a soggetti terzi, come, di sovente, accade, data la complessità delle relazioni economiche, in cui il terzo è il proprietario o il licenziante dei relativi diritti. In queste fattispecie deve, comunque, farsi riferimento all’art. 71, par. 1, lett. c ), CDU e all’art. 136, par. 4, del Regolamento di esecuzione, che disciplinano gli elementi fondamentali della vendita di merci, compreso il trasferimento del titolo di proprietà e di tutti i diritti sulle merci conformemente agli accordi contrattuali, con la necessità, in questi casi specifici, di esaminare tutte le circostanze relative alla vendita e all’importazione delle merci inclusi i possibili collegamenti tra gli accordi di vendita e i contratti di licenza, oltre che altre informazioni relativa alla vendita e all’importazione delle merci. In sintesi, dai principi sopra esposti, consegue che i corrispettivi o i diritti di licenza assumono rilevanza quale base imponibile e vanno considerati come «relativi alle merci da valutare» anche se non determinati al momento della conclusione del contratto di licenza o dell’insorgenza dell’obbligazione doganale. Con particolare riferimento alla terza condizione, ossia che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare, la nozione «condizione di vendita» sta ad indicare la situazione in cui, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore o la persona ad esso legata -e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo o del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Qualora (come nel caso in esame) il beneficiario delle royalties sia soggetto diverso dal venditore, occorre « verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di
licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente ». Può, dunque, ritenersi che il pagamento dei corrispettivi e i diritti di licenza (cd. royalties) dovuti dall’importatore in relazione alle merci importate costituisce una «condizione della vendita», ai fini della rilevanza degli stessi quale componente del valore della merce in dogana e, conseguentemente, dell’applicazione del potere di rettifica dell’Ufficio, non solo quando l’operazione è subordinata espressamente, nelle clausole dell’accordo di licenza, all’assolvimento di tali pagamenti, ma anche quando tale rapporto di subordinazione si evince dal tenore delle clausole contrattuali che interessano anche diversi soggetti che possono intervenire nell’operazione medesima, quando, come nel caso in esame, il venditore è soggetto diverso dall’avente diritto alla percezione delle royalties. Con riferimento alla nozione di controllo si tratta di una nozione ampia che ben si coordina con la nozione economica del valore doganale (la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene) che opera su un duplice piano: sul piano della fattispecie, perché il controllo è assunto per la sua rilevanza anche di fatto e sul piano degli effetti, perché ci si contenta del potere di «orientamento» del soggetto controllato. Con la precisazione che la nozione di controllo presa in considerazione dall’art. 127 del Reg. (UE) n. 2015/2447 (secondo la quale, ai fini della determinazione del valore in dogana, « si ritiene che una parte controlli l’altra quando la prima è in grado, di diritto o di fatto, di imporre orientamenti alla seconda ») è più generica ed ampia di quella precedente (art. 143 del Reg. (CEE) n. 2454/93 e allegato 23 a tale Regolamento secondo cui « si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda ») e non richiede necessariamente che il potere di orientamento investa la totalità delle attività del soggetto controllato.
Dunque, la nuova disciplina che addirittura consente di includere le royalties nel valore delle merci anche in assenza di un collegamento tra il venditore e il licenziante, escludendo che tale circostanza abbia valore essenziale e secondo cui il criterio applicabile è capire (potendo detta condizione essere anche implicita e non essere specificato nell’accord o di licenza se la vendita delle merci importate sia subordinata o meno al pagamento di un corrispettivo o di un diritto di licenza) se il venditore può vendere o se il compratore può comprare le merci senza pagare royalties o diritti di licenza.
8.5 Ciò posto , nel caso in esame, la sentenza impugnata ha ritenuto la sussistenza delle condizioni richieste dalla normativa comunitaria per computare, nel valore in dogana delle merci importate, l’importo dei diritti di licenza e, in particolare, di condizioni implicanti un controllo dei licenzianti sulla produzione; i giudici di secondo grado, in particolare, hanno operato un accertamento delle circostanze concrete, affermando che, nel caso in specie, il licenziante esercitava un controllo ferreo sul produttore, altrimenti questi avrebbe potuto vendere le merci anche ad altri acquirenti, senza versare diritti di licenza, con un grave danno anche per la società licenziataria e che dal contratto di licenza risultava che: il licenziante sceglieva ed approvava il produttore; qualsiasi ordine di acquisto doveva essere approvato dalla società licenziante; il licenziante decideva a chi il produttore poteva vendere le merci ed aveva il diritto di esaminare la contabilità del produttore e dell’acquirente; il licenziante sceglieva i metodi di produzione da utilizzare ovvero forniva i relativi modelli; la società licenziataria non poteva operare gli acquisti direttamente, ma tramite la società licenziante; la Commissione tributaria regionale, dunque, evidenziava che era che la società licenziante aveva un rapporto di subordinazione con il produttore ed era, quindi, corretto comprendere nel valore delle merci importate anche gli altri valori che determinavano il reale prezzo delle merci importate, che dovevano comprendere quanto versato per
l’utilizzo dei diritti di licenza che erano indissolubilmente legati alle merci; inoltre, la Commissione tributaria regionale ha accertato che risultava dal contratto di licenza (art. 4.2) che, qualora il licenziante riteneva che i prodotti non ottemperassero ai propri standard qualitativi, nonché alle caratteristiche e ai requisiti tecnici, doveva notificare i difetti riscontrati e il licenziatario non poteva distribuire o vendere, ovvero autorizzare la distribuzione o la vendita dei prodotti in cui fossero riscontrati tali difetti, fino a quando non venivano corretti in maniera ragionevolmente soddisfacente per il licenziante, fatta eccezione per i prodotti di seconda scelta, essendo, dunque, evidente che il contratto rispondeva all’esigenza della società licenziante che non solo doveva realizzare profitto dalla cessione del diritto dell’uso del proprio marchio, ma soprattutto doveva tutelare l’immagine del marchio stesso, mentre il licenziatario, per ottenere il diritto allo sfruttamento del marchio «famoso», accettava il controllo diretto e totale imposto dal licenziante, che aveva il controllo diretto delle attività del licenziatario; inoltre, in questo contesto, il terzo «venditore» ossia il fabbricante orientale non era in alcun modo titolare del diritto di licenza e non poteva mai chiedere all’acquirente di effettuare tale pagamento, che ovviamente non aveva nessun interesse al pagamento o meno delle royalties, anche se era tenuto al rispetto delle stringenti clausole previste nel relativo contratto, diventando egli stesso «parte» del contratto di licenza ed acquisiva la funzione di vera e propria longa manus del licenziante, mentre i produttori non potevano immettere liberamente i prodotti sul mercato, ma dovevano ritrasferirli ai licenziatari, i quali corrispondevano ai licenzianti i diritti di licenza e il licenziante esercitava il controllo nei confronti dei venditori attraverso la valutazione dei prodotti realizzati.
8.6 Orbene, ritiene questo Collegio che la Commissione tributaria regionale abbia fatto corretta applicazione dei principi normativi, come interpretati dalla giurisprudenza unionale e da quella di legittimità; ed
invero, deve precisarsi che le facoltà riconosciute alle licenzianti di preservare il carattere distintivo e il valore commerciale del marchio, in cui si esprime « il controllo … finalizzato alla protezione dell’immagine del licenziante nei confronti dei consumatori finali », costituiscono elementi che offrono adeguata dimostrazione dell’esistenza di un potere di orientamento del licenziante sul produttore/venditore, in relazione alla loro incisività nell’indirizzamento dell’attività di produzione e idoneità a conformare l’attività del produttore in funzione della tutela del marchio da perdite di immagine connesse a modalità di produzione non coerenti con il livello qualitativo dei prodotti che il pubblico è solito associare al marchio che li contraddistingue; di conseguenza, quel che rileva non è un controllo di mera qualità del prodotto, come tale non implicante necessariamente l’esistenza di un controllo, sia pure indiretto, sui fornitori, quanto un controllo sullo svolgimento dell’attività produttiva; la Commissione tributaria regionale, pertanto, ha correttamente considerato che una situazione di controllo – intesa, come evidenziato in precedenza, quale possibilità di esercizio, di diritto o di fatto, di un potere di costrizione o di orientamento -poteva rinvenirsi anche qualora al licenziante fosse riconosciuto il diritto di esigere il soddisfacimento dei livelli di qualità normalmente associati ai prodotti commercializzati con il marchio concesso in licenza. Inoltre, non possono non rilevare, come affermato da questa Corte nella sentenza n. 24996 del 10 ottobre 2018, le regole di esperienza proprie del rapporto di licenza: « Questo rapporto è difatti di norma connotato da penetranti poteri di controllo del titolare del marchio sul licenziatario al fine di garantire che tutti i prodotti contrassegnati dal medesimo segno distintivo siano omogenei e funzionali (come si evince, d’altronde, anche dall’art. 8, sia pure di natura dispositiva, della direttiva n. 2008/95/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, ratione temporis applicabile). Il contratto di licenza, che pur sempre
mira a salvaguardare le prerogative del licenziante, solitamente comporta di per sé che i terzi individuati per la produzione non possano immettere liberamente i prodotti sul mercato, ma debbano ritrasferirli ai distributori designati dal licenziante, ossia ai licenziatari, i quali corrispondono a costui i diritti di licenza. Risponde quindi a una massima di comune esperienza, l’applicazione della quale non è contrastata, nel caso in esame, da elementi di segno contrario, che il titolare del marchio e dei modelli riesca a controllare tutta la filiera produttiva e distributiva, massimizzando il profitto che ne deriva » (cfr., più di recente, Cass., 7 giugno 2023, n. 16134). Nel caso di specie, la Commissione tributaria regionale ha considerato l’oggettiva rilevanza delle clausole del contratto di licenza, quali «indicatori» del potere di controllo del licenziante, cosicché la conclusione cui è giunta, deve considerarsi conforme ai principi esposti, in quanto l’interpretazione sostenuta dai giudici di merito è fondata sull’accertamento che la licenziante esercitava un controllo tale da integrare il presupposto per l’inclusione dei diritti di licenza nel valore doganale delle merci importate del pagamento delle royalties come «condizione di vendita» delle merci medesime e ciò tenendo in considerazione il contenuto negoziale del contratto di licenza. Ed invero, l’esame del contratto di licenza, per quanto rilevato, è essenziale in quanto rappresenta una delle principali fonti di informazioni per stabilire se le royalties siano rilevanti ai fini della determinazione del valore in dogana delle merci importate, anche se tale analisi deve avvenire tenendo conto anche dei termini del contratto di vendita e delle interrelazioni che possono esistere tra il contratto di vendita stesso e quello di licenza, anche alla luce della circostanza che sovente il contratto di vendita non menziona la necessità di pagare le royalties per le merci. Sotto questo specifico profilo, non è condivisibile la prospettazione delle società ricorrenti che, a fronte dell’accertamento operato dai giudici di merito, si limita no ad affermare che n essuno degli elementi richiamati dall’impugnata
sentenza era rilevabile dal contratto di licenza e che era assente qualsivoglia controllo o condizionamento del licenziante sul produttore e sul processo di produzione, escludendo così, per necessaria conseguenza, la sussistenza della condizione di vendita e la daziabilità delle royalties.
8.7 In conclusione, il terzo, quarto e sesto motivo vanno rigettati in applicazione del seguente principio di diritto: « Per determinare il valore in dogana delle merci da importare il prezzo effettivamente pagato o da pagare è integrato dai corrispettivi e dai relativi diritti di licenza, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci stesse. Qualora i diritti di licenza non siano pagati al venditore, ma ad un soggetto terzo, proprietario o licenziante dei relativi diritti, occorre esaminare tutte le circostanze relative alla vendita e all’importazione delle merci, incluso il contenuto negoziale del contratto di licenza e del contratto di vendita, al fine di accertare se il venditore sia disposto a vendere la merce senza che sia pagato il corrispettivo del diritto di licenza e se sussista un potere di controllo del licenziante sul licenziatario, di diritto o di fatto (che non deve necessariamente investire la totalità delle attività del soggetto controllato), che incida sul ciclo di produzione e non sulla qualità del prodotto ».
Il quinto motivo è infondato, dovendosi richiamare l’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui l’art. 42, comma primo, del d.P.R. n. 600 del 1973, nonché l’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, sono norme di stretta interpretazione, sicché la nullità dell’accertamento ivi contemplata non può sussistere nel caso in cui l’atto impositivo non sia firmato dal capo dell’ufficio, ovvero da un funzionario all’uopo delegato, qualora non si verta in tema di II.DD. o di IVA (cfr. Cass., 14 giugno 2013, n. 14942; Cass., 5 settembre 2014, n. 18758; Cass., 10 dicembre 2019, n. 32172 e, più di recente, Cass., 12 marzo 2020, n. 7077).
Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e le società ricorrenti vanno condannate al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le società ricorrenti al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle società ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 24 settembre 2024.