Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32634 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 32634 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/12/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 7929/2023 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in Pisa INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
avverso la SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DELLA LIGURIA n. 777/2022 depositata il 28/09/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24/09/2024 dal Consigliere COGNOME
Udita la P.G., in persona del Sost. P.G. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito il legale della ricorrente, che ha concluso come in atti.
Udita l’Avvocatura Generale dello Stato per l’Agenzia, che ha concluso come in atti.
FATTI DI CAUSA
Il Centro Assistenza Doganale RAGIONE_SOCIALE, nell’ambito della propria attività di trasporto e spedizione, svolgeva il ruolo di dichiarante doganale, quale rappresentante indiretto, per la RAGIONE_SOCIALE Quest’ultima effettuava operazioni di importazioni di articoli di abbigliamento per bambini da Paesi Terzi recanti raffigurazioni di personaggi e di particolari disegni e/o loghi. L’utilizzo dei predetti disegni, loghi e raffigurazioni veniva concesso in licenza alla RAGIONE_SOCIALE in forza di contratti da essa sottoscritti per gli anni dal 2008 al 2010. Per la realizzazione degli articoli di abbigliamento, la Licenziataria si avvaleva di fornitori non comunitari terzi, anche rispetto alle Licenzianti, da cui acquistava taluni prodotti, per i quali, all’atto dell’importazione in Italia, determinava il valore doganale senza includervi i diritti di licenza, reputando non ricorrenti le condizioni previste dal Legislatore comunitario ai fini della daziabilità delle royalties ; inoltre, per le sole merci aventi provenienza cinese, la COGNOME usufruiva dell’istituto del c.d. ‘ first sale price ‘ di cui all’art. 147 del
Regolamento (CEE) n. 2454/93 (cd. ‘DAC’). In data 3 giugno 2011, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli elevava un PVC, nel quale -verificate le operazioni di importazione effettuate negli anni dal 2008 al 2010 -sosteneva che la RAGIONE_SOCIALE Brummel, per un verso, avesse indebitamente usufruito dell’istituto del ‘ first sale price ‘, per altro verso, avesse erroneamente trascurato di computare nel valore delle merci dichiarato all’atto dell’importazione, l’ammontare di diritti di licenza corrisposti, pur in presenza delle condizioni previste dalla normativa doganale. In seguito, l’Ufficio delle Dogane della Spezia notificava alla Società plurimi atti di contestazione e avvisi di rettifica. Gli stessi venivano separatamente impugnati dalla società; i ricorsi venivano accolti con distinte sentenze della CTP di La Spezia, con conseguente annullamento degli atti impugnati.
Con la sentenza n. 138 del 28 gennaio 2015, la CTR della Liguria, riuniti i ricorsi in appello separatamente proposti dall’Agenzia, li rigettava, ravvisando i presupposti per il corretto utilizzo dell’istituto del ‘ first sale price ‘ ed escludendo la sussistenza dei requisiti per la daziabilità delle royalties .
La Corte di Cassazione, adita con ricorso dell’Agenzia, con provvedimento n. 3606, depositato in data 13 febbraio 2020, cassava la sentenza anzidetta, rinviando per un nuovo esame alla CTR della Liguria in diversa composizione.
Il giudizio veniva riassunto dalla società. Con la sentenza n. 777/2022, depositata il 28 settembre 2022, la CTR per la Liguria ha accolto ‘ parzialmente l’appello dell’Agenzia delle Dogane stabilendo che le royalties debbano essere incluse nel valore in dogana dei prodotti importati ‘ e ha rigettato ‘ l’appello incidentale del CAD RAGIONE_SOCIALE, compensando le spese di lite.
Il ricorso del RAGIONE_SOCIALE è ora affidato a cinque motivi. Resiste l’Agenzia con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si lamenta la ‘ Violazione e falsa applicazione degli art. 29 e 32 del CDC e dell’art. 147 del DAC, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c . Ad avviso della ricorrente ‘ Il Collegio giudicante -conformandosi acriticamente a quanto sostenuto dall’Ufficio nei propri scritti difensivi e presupponendo la ricorrenza nei contratti di licenza di cui si discute degli ‘indicatori’ menzionati nel Commento n. 11 contenuto nella ‘Raccolta dei testi sul valore in Dogana’ pubblicato nel TAXUD -800-2002-EN (versione aggiornata a settembre 2008) del Comitato del Codice Doganale -Sezione del Valore in dogana che sarebbero rappresentativi del legame intercorrente tra le Licenziatarie e i singoli (molteplici) fornitori terzi -acriticamente conclude che il pagamento dei diritti di licenza costituisce una condizione di vendita e, conseguentemente, devono essere daziati all’atto dell’importazione, ritenendo pertanto legittimo gli avvisi di accertamento di cui si discute ‘.
Con il secondo motivo si contesta la ‘ Violazione degli artt. 1362 -comune intenzioni delle parti -1363 -interpretazione complessiva delle clausole -1371 -criterio della minor gravosità -1372 -efficacia soggettiva del contratto -del c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. ‘, posto che ad avviso della società ‘ i contratti intercorsi tra le parti sono stati interpretati in modo difforme da quanto la disciplina codicistica di riferimento impone di fare ‘.
Con il terzo motivo si lamenta la ‘ Violazione e falsa applicazione dell’art. 220, paragrafo 2, del CDC, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 del c.p.c. ‘, in quanto la sentenza, sempre ad avviso della società, erroneamente ‘ esclude l’applicabilità, al caso di specie, dell’art. 220, paragrafo 2, del CDC in quanto non sarebbe sufficiente che l’errore commesso dall’Ufficio sia ascrivibile ad una condotta ‘omissiva’ dovendo lo stesso sostanziarsi in un comportamento ‘attivo”.
Con il quarto motivo si censura la ‘ Violazione e falsa applicazione dell’art. 10, commi 2 e 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 del c.p.c.’ , in quanto erroneamente la Commissione Tributaria Regionale ha escluso l’applicabilità al caso di specie dell’esimente prevista dell’art. 10, commi 2 e 3, dello Statuto dei diritti del contribuente e dall’art. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 472/1997 sul presupposto che non sarebbe ravvisabile nel caso di specie ‘ una simile incertezza normativa oggettiva, avuto riguardo alla possibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica in oggetto e, al tempo stesso, alla mancata allegazione da parte della difesa del CAD di indici quali, ad esempio, l’esistenza di specifici e rilevanti contrasti giurisprudenziali, sintomatici della ricorrenza di un siffatto stato, anche tenuto conto del fatto che l’inclusione delle royalties nel valore della merce in dogana deriva da atti comunitari risalenti, quanto meno, al 2007 ‘.
Con il quinto motivo si contesta la ‘ Violazione e falsa applicazione dell’art. 12, comma 5, del D.Lgs. n. 472 del 18 dicembre 1997, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 del c.p.c. ‘, in quanto ‘ la Società, sin dai precedenti gradi di giudizio (da pag. 47 a pag. 49 del ricorso RGR n. 925/2011 e da pag. 21 a pag. 23 delle controdeduzioni RGA n. 925/2011), nonché nel ricorso in riassunzione (da pag. 60) contestava l’erronea determinazione delle sanzioni avendo l’Ufficio applicato quest’ultime senza tenere conto del cumulo giuridico applicabile alle violazioni della ‘stessa indole’ e ‘commesse in periodi di imposta diversi’ previsto dall’art. 12, comma 5 del D.Lgs. n. 472/1997, in ragione della sanzione base aumentata dalla metà al triplo ‘.
Il primo motivo è infondato.
Esso tende, invero, ad una rivisitazione del merito della controversia, preclusa in questa sede. Vi è un articolato giudizio di fatto che resiste alla censura.
La CTR, quale giudice del rinvio, si è peritata di verificare la sussistenza nei contratti di licenza ‘ delle tre condizioni cumulative per consentire all’Ufficio la rettifica prevista dall’articolo 32, par. 1, lett. c), del codice doganale comunitario ‘.
Il giudice regionale ha evidenziato che le clausole contrattuali postulavano nel caso di specie un controllo da parte delle licenzianti ‘ ben oltre un semplice controllo finale di qualità del prodotto ‘. Il controllo ravvisato era teso ad investire ‘ l’intero processo produttivo sia sotto il profilo della scelta dei materiali di costruzione e dei fabbricanti ‘autorizzati’, sia sotto quello dell’orientamento della produzione di questi ultimi -dal momento dell’ideazione a quello del prodotto finito -nonché di quello della successiva commercializzazione da parte della Licenziataria’ .
Dalle suddette clausole, infatti, emerge che i licenzianti erano legittimati a pretendere ‘ la corresponsione del compenso per tutti i prodotti in licenza fabbricati da o per la licenziataria e da questa venduti ‘; inoltre, tutti i produttori erano tenuti a ‘ rispettare un articolato codice di condotta (destinato a disciplinare anche l’imballaggio dei prodotti) ‘; ancora, il licenziatario era impegnato a garantire il rispetto del codice da parte dei fabbricanti.
La CTR ha soggiunto che le licenzianti ‘ esercitano un controllo pregnante sui produttori e possono procedere, sostanzialmente a propria discrezione, a verifiche sulle fabbriche o sulla contabilità ‘; peraltro, ‘ tale ingerenza … non è … limitata ad un mero controllo qualità poiché, ove non siano rispettate le condizioni (sulle caratteristiche dei prodotti, sulla produzione, di imballaggio, sul prezzo, sui metodi di produzione…), il licenziatario è costretto a cambiare fabbricante e, nei casi più gravi, l’accordo con il produttore viene risolto ‘.
In sostanza, il giudice d’appello, muovendo dal tessuto dei rapporti contrattuali al fondo della complessiva vicenda commerciale, ha appurato l’esistenza di un controllo della licenziante addirittura sul
produttore. In tal modo, essa si è posta nel solco tracciato dalla Corte di Giustizia nella sentenza 9 luglio 2020, C-76/19, NOME COGNOME secondo la quale occorre svolgere un’attenta interpretazione dei contratti in essere, al fine di verificare se sussiste la condizione del ‘controllo sul produttore’.
I diritti di licenza sono stati, infatti, reputati suscettibili di inclusione nel valore doganale, in quanto la licenziante era, nel caso che occupa, abilitata ad effettuare, non una semplice verifica qualitativa sui prodotti, ma un vero e proprio controllo sul produttore.
Il Codice doganale dell’Unione europea (Reg. UE 952/2013) prevede, d’altronde, che le royalties devono essere incluse nel valore doganale dei prodotti importati se il compratore è tenuto a pagarle, direttamente o indirettamente, come ‘condizione della vendita’, nella misura in cui le stesse non siano già state incluse nel prezzo effettivamente pagato o da pagare e purché si riferiscano alle merci oggetto di valutazione (art. 71 Cdu).
Il requisito della ‘condizione di vendita’ è soddisfatto nel momento in cui il licenziante è in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o, anche solo di ‘ orientamento ‘ sul fornitore -produttore.
Il ‘controllo sul produttore’ è indice della condizione di vendita richiesta dalla normativa UE ai fini della daziabilità delle royalties (v. ex multis Cass. n. 1041 del 2021; Cass. n. 21775 del 2020; Cass. n. 22480 del 2020).
Nella specie, la CTR ha riscontrato la presenza di una serie di indici oggettivi, che manifestavano un concreto potere di ‘controllo’ e di orientamento esercitato dal licenziante sul fornitore-produttore estero. Il controllo in parola così atteggiato è stato ritenuto idoneo, nell’esercizio di un sindacato di merito riservato al giudice d’appello, idoneo ad integrare un legame, tra la licenziante e il fornitore-produttore.
La giurisprudenza comunitaria ha evidenziato che è indispensabile, per appurare se un controllo rilevante ai fini della daziabilità dei diritti di licenza ricorra, ” verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente ” (Corte di giustizia causa C-173/15, punto 68). A proposito del controllo rilevante ai fini della presente controversia, va osservato che l’art. 23 D.A.C. all’art. 143, paragrafo 1, lett. e) prevede che ” si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda “. È evidente, dunque, che il controllo sia inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perché è assunto per la sua rilevanza anche di fatto; dall’altro, su quello degli effetti, perché ci si contenta dell’effetto di ” orientamento ” del soggetto controllato: quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene. Utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) contenuto nel documento TAXUD/800/2002, nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, paragrafo 1, lett. c), del codice doganale, con riconosciuto valore di soft law ; queste indicazioni, ha precisato la Corte di giustizia in causa C-173/15, p. 45: ” sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sè considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice “; in particolare, il documento in
questione annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri, i 8 seguenti: il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente; il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione); il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente; il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti; il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci; il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc; il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti; il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre; il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore; il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante; le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/nel loro design e con riguardo al marchio di fabbrica); le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante.
In buona sostanza -giova ribadirlo -l’intera operazione risulta conformata, secondo la prospettiva della CTR, dall’esercizio di un potere di controllo della licenziante incidente sulla produzione, in virtù delle pattuizioni contrattuali. A questo accertamento di fatto, la ricorrente finisce per contrapporre una diversa valutazione del merito della controversia, di fatto rivisitandolo, quindi compiendo e parallelamente invocando un’attività preclusa in questa sede.
Il secondo motivo è inammissibile.
Si contesta genericamente la violazione dei criteri ermeneutici al fine di sollecitare una rivisitazione del merito della controversia. Non viene, in altri termini, aggredita una difformità rispetto alle regole che presiedono all’interpretazione di una specifica clausola negoziale, ma addotta, in contrapposizione all’apprezzamento svolto liberamente dal giudice d’appello, una diversa ricostruzione dei fatti e del merito della controversia.
Il terzo motivo è infondato.
La CTR si è attenuta al principio ancor di recente espresso da questa Corte, a tenore del quale ‘ In tema di tributi doganali, lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore, richiesto dall’art 220, comma 2, lett. b) del codice doganale comunitario ai fini dell’esenzione dalla contabilizzazione a posteriori, non ha valenza esimente ‘in re ipsa’, ma solo in quanto sia riconducibile a una delle situazioni fattuali individuate dalla normativa comunitaria, tra le quali va annoverato anche l’errore incolpevole, ossia non rilevabile dal debitore di buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza: tale errore, tuttavia, per assumere rilievo esimente, deve essere in ogni caso imputabile a un comportamento attivo delle autorità doganali, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dello stesso operatore o di altri soggetti in quanto l’Unione Europea non è tenuta a sopportare le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori rientranti nel rischio dell’attività commerciale, contro cui gli operatori economici possono premunirsi solo nell’ambito dei loro rapporti negoziali ‘ (Cass., n. 18187 del 2023).
Il quarto motivo è infondato.
La CTR, quale giudice del rinvio, ha motivato l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’esimente, valorizzando la connotazione risalente della disciplina (2007), la sedimentazione giurisprudenziale in tema e l’assenza di contrasti giurisprudenziali, invero neppure specificamente adombrati dalla ricorrente.
Detta motivazione è idonea a corroborare la ritenuta insussistenza dei presupposti applicativi dell’esimente invocata, essendosi posto il giudice d’appello nel solco tracciato dalla nomofilachia, al lume della quale l’incertezza normativa obiettiva, che costituisce causa di esenzione ‘ postula una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto o sui destinatari della stessa norma tributaria, ossia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso la sua interpretazione dal giudice, unico soggetto dell’ordinamento investito dal potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata opzione ermeneutica ‘ (Cass. n. 13457 del 2012; Cass. n. 18434 del 2012; Cass. n. 3245 del 2013), mentre rimane ‘ irrilevante l’incertezza soggettiva, derivante dall’ignoranza incolpevole del diritto o dall’erronea interpretazione della normativa o dei fatti di causa ‘ (Cass. n. 13076 del 2015).
Il quinto motivo è infondato.
Questa Corte ha condivisibilmente puntualizzato che ‘ non può riconoscersi il cumulo giuridico delle sanzioni, previsto dall’art. 12, primo comma, del decreto legislativo n. 472 del 1997, perché, per la predetta previsione di legge, quello che rileva è la commissione di molteplici violazioni formali, ovvero violazioni che, oltre a non incidere sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo, non pregiudicano l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria; nemmeno, per quanto rilevato sopra, è possibile ricondurre la fattispecie in esame alla previsione dell’art. 12, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997, mancando il vincolo della progressione tra violazioni sostanziali, ovvero l’unicità finalistica della condotta per l’intrinseco ed oggettivo legame tra le varie violazioni commesse, idonee, in via progressiva, continua e collegata, ad incidere sulla determinazione dell’imponibile o sul tributo; né, infine, è applicabile 7 l’art. 12, comma 5, del decreto legislativo n 472 del 1997, che presuppone che le violazioni siano state commesse in periodi di imposta diversi,
nozione questa estranea alla materia doganale, integrando, invece, la fattispecie in esame autonome violazioni di natura sostanziale, commesse con distinte dichiarazioni doganali, nel corso di plurimi anni ‘ (Cass. n. 2703 del 2024).
Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato. Le spese sono regolate dalla soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 6.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 24 settembre 2024.