Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32607 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 32607 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/12/2024
ha emesso la seguente ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 9093/2022 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, nelle persone dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentate e difese, anche disgiuntamente fra loro, dal Prof. Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, INDIRIZZO giusta procura in calce al controricorso.
– ricorrenti –
contro
Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato,
presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente- avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, n. 4581/2021, depositata in data 21 dicembre 2021, non notificata;
udita la relazione della causa udita svolta nella pubblica udienza del 24 settembre 2024, dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott.
NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del r icorso;
udito, per la parte ricorrente, l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso per cassazione;
udito per la parte controricorrente, l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso per cassazione;
FATTI DI CAUSA
La Commissione tributaria regionale ha accolto l’appello proposto dall ‘Agenzia delle Dogane e dei Monopoli avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dalle società RAGIONE_SOCIALE, quale rappresentante doganale indiretto, e RAGIONE_SOCIALE quale importatore, avente ad oggetto l’annullamento dei processi verbali di rettifica e contestazioni di illeciti doganali del 4, 16, 31 dicembre 2019 e del 16 gennaio 2020, con cui erano state rettificate alcune bollette doganali emesse il 4, 16, 31 dicembre 2019 e il 16 gennaio 2020 e determinata la maggiore somma dovuta per dazio e Iva all’importazione.
I giudici di secondo grado hanno, in primo luogo, rilevato l’insussistenza del dedotto giudicato esterno, in quanto l’estensione di detto giudicato trovava nel diritto unionale un limite invalicabile attesa
la primazia del diritto unionale rispetto a quello nazionale e, in secondo luogo, hanno ritenuto che erano sussistenti le condizioni di vendita, con la conseguente legittimità dell’applicazione dei dazi doganali sul valore delle merci che tenesse conto del valore delle royalties.
La Commissione tributaria regionale ha, poi, affermato che:
-) le eccezioni dell’Ufficio erano fondate, come emergeva dagli atti e dai documenti esibiti in giudizio e come evidenziato nella sentenza di primo grado;
-) dall’esame delle condizioni contrattuali, ed in particolare della clausola di cui all’art. 4.2 del contratto di licenza, era previsto che, qualora il licenziatario ritenesse che i prodotti non ottemperassero ai propri standard qualitativi, nonché alle caratteristiche e ai requisiti tecnici, il licenziante doveva notificare i difetti riscontrati e il licenziatario non poteva distribuire o vendere, ovvero autorizzare la distribuzione o la vendita dei prodotti in cui erano stati riscontrati tali difetti, fino a quando non venivano corretti in maniera ragionevolmente soddisfacente per il licenziante, fatta eccezione per i prodotti di seconda scelta;
-) appariva, pertanto, evidente che il contratto, come sostenuto dall’Ufficio appellante « risponde all’esigenza della società licenziante che non solo deve realizzare profitto dalla cessione del diritto dell’uso del proprio marchio, ma soprattutto deve tutelare l’immagine del marchio stesso. Il valore oggettivo dei rispettivi interessi – è chiaro – rende impari il rapporto tra i soggetti: il licenziatario, infatti, non ha alcuna possibilità di ottenere una diversa contrattualizzazione e, per contro di buon grado, per ottenere il diritto allo sfruttamento del marchio ‘famoso”, accetta il controllo diretto e totale imposto dal licenziante. Quanto innanzi esposto dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il licenziante ha il controllo diretto delle attività del licenziatario »;
-) tale circostanza risultava assorbente nella definizione della questione e, pertanto, non era necessario esaminare le altre eccezioni sollevate dalle parti.
Le società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE hanno proposto ricorso per cassazione con atto affidato a sei motivi.
L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli resiste con controricorso.
Le società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ., nonché del principio di intangibilità del giudicato nazionale, di cui all’ordinamento dell’Unione Europea e quale elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. La sentenza impugnata era errata, nella parte in cui aveva ritenuto che gli effetti esterni del giudicato non si producevano in quanto preclusi dall’applicazione di norme UE. La circostanza per cui il diritto UE non prevaleva sul giudicato nazionale risultava evidenziata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia, sentenza 16 marzo 2006, causa C-234/04; Corte di Giustizia, sentenza 1 giugno 1999, causa C-126/97; Corte di Giustizia, sentenza 10 luglio 2014, C-213/13) e ciò anche alla l uce del principio di cooperazione derivante dall’art. 10 del Trattato CE. Nel caso di specie, la sentenza n. 3766/2019, depositata in data 2 ottobre 2019, aveva deciso, tra le stesse parti e in relazione al medesimo contratto di licenza e alla medesima tipologia di importazioni, che il pagamento delle royalties non costituiva condizione di vendita.
Il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 69-76 e, in
particolare, dell’art. 71, paragrafo 1, lett. c), del Codice Doganale dell’Unione (C.D.U.), Reg. (UE) 952/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio, entrato in vigore il 1° maggio 2016, nonché dell’art. 71 del Regolamento Delegato (UE) 2015/2446 della Commissione, degli artt. 127-146 e, in particolare, dell’art. 136 del Regolamento di Esecuzione (UE) 2015/2447 della Commissione e della specifica disciplina fissata al punto 22 del TAXUD/B4/2016-IT n. 808781, nonché violazione dell’art. 1362 cod. civ.. La motivazione della sentenza impugnata era errata in diritto, in quanto l’art. 4.2 del Sublicense agreement prevedeva dei semplici controlli di qualità (a tutela del marchio licenziato) che, secondo il Commento n. 11 del Taxud/800/2002-IT Bruxelles gennaio 2007 e la pacifica giurisprudenza, non erano idonei a determinare che il pagamento delle royalties diventasse una condizione di vendita. Peraltro, in concreto, come dedotto nel giudizio di merito, tali controlli non erano mai stati effettuati da parte della licenziante. Nel contratto di licenza, oltre ad essere previsto che i capi di abbigliamento recanti marchi «RAGIONE_SOCIALE» potevano essere acquistati dalla licenziataria da qualsiasi fonte di approvvigionamento indipendentemente dal pagamento delle royalties, l’art. 3.2. (b) prevedeva che in nessun caso il pagamento delle royalties poteva costituire condizione di vendita e il licenziatario poteva procurarsi i prodotti da qualsiasi fonte indipendentemente dal pagamento delle royalties. Quanto poi all’art. 4.1 del Sublicense agreement, esso nel prevedere, che «i requisiti di pagamento delle Royalty così come definiti nell’Articolo 3 dovranno regolare tutte le vendite di Prodotti indipendentemente dalle modalità di approvvigionamento del Licenziatario» non faceva che confermare quanto precedentemente previsto all’art. 3.1 e, cioè, che i pagamenti delle royalties erano indipendenti dalla fornitura delle merci con incorporati i marchi «RAGIONE_SOCIALE» e, in ogni caso, l’art. 4.1 del « Sublicense agreement», con tutta evidenza, non si riferiva alla
vendita tra l’esportatore extra-UE e l’importatore/licenziatario, ma riguardava la vendita della merce, successiva all’importazione, da parte del licenziatario e nei confronti di terzi, essendo chiaro che il licenziatario era tenuto a corrispondere le royalties al licenziante, indipendentemente da chi fosse il produttore (il che confermava come i due rapporti contrattuali, quello di compravendita della merce importata, da un lato, e quello di licenza di marchio, dall’altro, erano del tutto svincolati tra loro). Nel caso di specie, dunque, mancava una previsione contrattuale che disponesse che «il venditore o una persona ad essa collegata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento» e che «le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questo acquistate senza versamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza a un licenziante» , essendo insussistente alcun controllo diretto del licenziante nei confronti del licenziatario e/o del produttore. L’impugnata sentenza, in ogni caso, si poneva in evidente conflitto con la normativa unionale secondo cui l’inclusione delle royalties nel valore in dogana non era automatica e che era onere dell’Ufficio provare che sussistesse la condizione di vendita che doveva essere valutata in concreto a seguito dell’esame degli accordi contrattuali in essere.
3. Il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 22, commi 6 e 7, del Regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 ottobre 2013, degli artt. 11, commi 5 e 5 bis, del decreto legislativo n. 374 del 1990, dell’art. 2 della legge 241 del 1990, nonché dell’art. 23, commi 2 e 3, del decreto legislativo n. 546 del 1992 e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, discusso tra le parti. L’impugnata sentenza, nell’accogliere l’appello dell’Agenzia delle Dogane sulla base di una errata applicazione dell’art. 4.2 del contratto di licenza, aveva omesso di considerare che le società ricorrenti, tanto nella memoria illustrativa del giudizio di
primo grado, quanto nelle controdeduzioni in appello, avevano eccepito l’inammissibilità della nuova motivazione dell’Agenzia delle Dogane fondata sull’art. 4.2 del « Sublicense agreement», trattandosi di variazione della « causa petendi». Ed invero gli unici articoli invocati dall’Agenzia delle Dogane nei processi verbali di rettifica impugnati e nel corso del primo grado di giudizio, erano stati gli artt. 8.2 e 4.1 del « Sublicense agreement». Per contro, l’Agenzia delle Dogane, a pagina 14-15 delle controdeduzioni di primo grado, aveva svolto le proprie difese invocando per la prima volta l’art. 4.2 del « Sublicense agreement», il quale prevedeva che, qualora il licenziatario riteneva che i prodotti non ottemperassero ai propri standard qualitativi, il licenziatario non poteva distribuire o vendere quei prodotti (difese, poi, ribadite a pagina 14 del ricorso in appello). La motivazione dell’atto impositivo non poteva essere integrata ex post in sede processuale, né il contenuto delle controdeduzioni nel processo tributario ammetteva l’integrazione della pretesa impositiva oggetto di impugnazione.
4. Il quarto motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., l’ulteriore violazione o falsa applicazione degli artt. 69-76 e, in particolare, dell’art. 71, paragrafo 1, lett. c) del Codice Doganale dell’Unione (C.D.U.) Reg. (UE) 952/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio, entrato in vigore il 1° maggio 2016, nonché dell’art. 71 del Regolamento Delegato (UE) 2015/2446 della Commissione, degli artt. 127-146 e, in particolare, dell’art. 136 del Regolamento di Esecuzione (UE) 2015/2447 della Commissione e degli artt. 1456 e 1458 cod. civ., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, discusso tra le parti. L’impugnata sentenza non aveva tenuto conto, in violazione dell’art. 1456 cod. civ., del fatto che la risoluzione del contratto in base ad una clausola risolutiva espressa non era un automatismo, ma una mera facoltà della parte interessata che intendeva avvalersene e che, ai sensi dell’art.
1458 cod. civ., lo scioglimento del contratto, essendo quello di licenza di marchio un contratto ad esecuzione continuata o periodica, non produceva effetti sulle prestazioni già eseguite, ovvero rispetto alle vendite già eseguite e, ancor prima, sugli acquisti in precedenza effettuati dal produttore extra-UE. Una clausola risolutiva che faceva riferimento al mancato pagamento delle royalties poteva assumere rilevanza soltanto se contenuta non già, come erroneamente dedotto dall’Agenzia delle Dogane, nel contratto di licenza, bensì in quello di vendita per l’esportazione a destinazione nel territorio della UE, oggetto della tassazione in dogana, in quanto la condizione indicata dall’art. 71 del Codice Doganale in relazione alle royalties si riferiva al contratto di vendita tra esportatore e importatore. Il pagamento delle royalties era un fatto successivo alla vendita, in tanto il licenziatario era tenuto a pagare le royalties in quanto, avendo comprato la merce oggetto di importazione, poteva venderla. Tale sequenza era presente anche nel ΄ Sublicense agreement» , come risultava dall’art. 3.4, che disciplinava la liquidazione e il pagamento delle royalties a consuntivo delle vendite (la relativa aliquota era infatti applicata sulle « Net Sales », ovvero sulle vendite nette dei prodotti). Risultava, quindi, errato fondare la sussistenza della condizione di vendita sulla base del fatto che, in forza dell’art. 8.2 del « Sublicense agreement», il mancato pagamento delle royalties costituiva titolo per la risoluzione del contratto di licenza . L’errore in cui era incorsa l’Agenzia delle Dogane, e di cui l’impugnata sentenza non si era avveduta, produceva uno stravolgimento dei rapporti tra l’art. 71 C.D.U. e l’art. 136 R.E., in quanto il Regolamento di Esecuzione non poteva assumere portata innovativa rispetto a un atto legislativo, quale era il Codice Doganale dell’Unione.
Il quinto motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., la violazione falsa applicazione dell’art. 17,
comma 1 bis, del decreto legislativo n. 165 del 2001, dell’art. 15, comma 7, del decreto legislativo n. 78 del 2009, dell’art. 21 octies, della legge n. 241 del 1990, dell’art. 4, comma 2, dello Statuto dell’Agenzia delle Dogane, approvato da ultimo il 12 luglio 2021, dell’art. 1, comma 3, e dell’art. 4, comma 1, del Regolamento di Amministrazione dell’Agenzia delle Dogane, approvato con delibera n. 431 del 2021, dell’art. 4 bis, comma 2, del decreto legge n. 78 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 125 del 2015, anche alla luce dell’art. 97 Cost., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. L’impugnata sentenza aveva omesso di pronunciarsi sull’eccezione formulata sin da primo grado di giudizio dalle società ricorrenti sull’esistenza di una valida attribuzione dei poteri di sottoscrizione in capo ai soggetti che avevano materialmente firmato gli atti impugnati «per conto» del Direttore dell’Ufficio, nonché sul fatto che l’Ufficio delle Dogane non aveva minimamente assolto l’onere della prova che gravava sull’Amministrazione ogniqualvolta era eccepita la carenza di poteri, con conseguente carenza di potere del soggetto sottoscrittore degli atti impugnati e, conseguentemente, la nullità degli stessi. Inoltre, la delega doveva essere scritta, motivata, personale e a tempo determinato, non potendo ritenersi ammesse né prevedibili «deleghe a cascata».
6. Il sesto motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 1 e 2, della legge n. 212 del 2000, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, discusso tra le parti. L’impugnata sentenza aveva omesso di considerare, con riferimento alla determinazione delle royalties , che le società ricorrenti avevano eccepito che l’Agenzia delle Dogane non aveva fatto una corretta applicazione dell’art. 3.1 del «» Sublicense agreement, in forza del quale le royalties dovevano essere calcolate sulle «vendite nette» o
«Net Sales», ovvero erano escluse da tale calcolo le vendite alle società affiliate alla RAGIONE_SOCIALE ed ai licenziatari e sub-licenziatari della licenziante RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE L’ Agenzia delle Dogane, nel determinare le royalties, aveva omesso di accertare, come era suo onere, e di motivare, quante vendite degli articoli compresi nelle bollette doganali oggetto di verifica erano destinate ad essere effettuate a clienti che non erano affiliati della RAGIONE_SOCIALE e non erano licenziatari e sub-licenziatari della licenziante RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE e la mancata indicazione di tale dato nei processi verbali aveva determinato un difetto di motivazione ed un’incertezza oggettiva della pretesa dell’Agenzia delle Dogane, con conseguente nullità degli atti impugnati.
Il primo motivo che tratta della questione del giudicato esterno con riferimento alle sentenze nn. 3766/2019, 4717/2019 e 2203/2021 della Commissione tributaria regionale della Lombardia (cfr. anche memoria depositata con modalità informatiche in data 12-13 settembre 2024), è inammissibile, occorrendo muovere dal rilievo che « il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con l’onere di autosufficienza del ricorso; pertanto, la parte ricorrente che deduca l’esistenza del giudicato deve, a pena d’inammissibilità del ricorso, riprodurre in quest’ultimo il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione » (Cass., 27 febbraio 2024, n. 5126; Cass., 23 giugno 2017, n. 15737), necessitando, in particolare, il « richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo » (Cass., 8 marzo 2018, n. 5508), onere che, nel caso in esame, non è stato assolto dalle società ricorrenti.
7.1 Il motivo è, pure, infondato, pur non potendosi condividere interamente, sul punto, la motivazione della sentenza impugnata, che va pertanto corretta, ai sensi dell’art. 384 , ultimo comma, cod. proc.
civ., risultando il dispositivo conforme al diritto (cfr. Cass., 6 ottobre 2023, n. 28204; Cass., 19 gennaio 2023, n. 1669).
7.1.1 E’ necessario premettere che nel caso in esame viene in rilievo il giudicato sostanziale che trova la sua fonte normativa nell’art. 2909 cod. civ., a tenore del quale « l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa » e che, a differenza del giudicato formale di cui all’ art. 324 cod. proc. civ. (che determina il momento nel quale gli effetti della sentenza diventano immutabili, momento che viene individuato nell’esaurimento di tutti i mezzi di impugnazione oppure nel mancato esercizio del potere di impugnazione nei termini stabiliti), stabilisce i limiti oggettivi e soggettivi degli effetti sostanziali, ormai non più soggetti a modificazione, determinati dalla sentenza.
7.1.2 I limiti oggettivi del giudicato, che sono delineati dall’accertamento contenuto nella sentenza, corrispondono all’oggetto del processo e riguarda non solo quanto dedotto dalle parti (il c.d. giudicato esplicito o dedotto), ma anche le ragioni non specificamente dedotte che si presentano come un antecedente logico necessario rispetto alla pronuncia (c.d. deducibile o giudicato implicito) (Cass., 9 novembre 2022, n. 33021; Cass., 7 dicembre 2021, n. 38767; Cass., 12 marzo 2020, n. 7115; Cass., 26 febbraio 2019, n. 5486).
7.1.3 Come affermato da questa Corte, anche di recente, « il principio in virtù del quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile concerne i limiti oggettivi del giudicato, il cui ambito di operatività è correlato all’oggetto del processo e riguarda, perciò, tutto quanto rientri nel suo perimetro, estendendosi non soltanto alle ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio, ma anche a tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia; i limiti oggettivi del giudicato, pertanto, anche con riguardo al deducibile, non si estendono a domande diverse per petitum e causa
petendi, rispetto alle quali può porsi soltanto il problema di una eventuale preclusione che, tuttavia, non può ritenersi sussistente in ragione del mero rapporto di connessione intercorrente con una domanda già proposta in un giudizio precedente, in quanto la connessione incide normalmente sulla competenza del giudice, ma non postula il necessario cumulo delle domande connesse » (Cass., 11 gennaio 2024, n. 1259).
7.1.4 Ancora, nell’ambito del giudicato, si opera un’ulteriore distinzione tra giudicato interno e giudicato esterno (che è quello che rileva nel caso in esame) e mentre il giudicato interno si forma nell’ambito dello stesso processo, tra le stesse parti e sul medesimo oggetto, per effetto di una impugnazione parziale, con il conseguente corollario che sono coperti da giudicato i punti della sentenza non impugnati (Cass., 30 giugno 2022, n. 20951; Cass., 15 dicembre 2021, n. 40276; Cass., 18 settembre 2017, n. 21566; Cass., 17 settembre 2008, n. 23747; Cass., 23 agosto 2007, n. 17935), i l giudicato esterno si forma in un diverso giudizio, tra le stesse parti ed avente lo stesso oggetto e ciò anche se il giudizio successivo ha delle finalità diverse (Cass., 29 dicembre 2021, n. 41895, Cass., 1 luglio 2015, n. 13498; Cass., 30 ottobre 2012, n. 24433; Cass., 29 luglio 2011, n. 16675; Cass., Sez. U., 16 giugno 2006, n. 13916).
7.1.5 Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sussiste giudicato esterno qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato; in tal caso, l’accertamento compiuto nel giudicato in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo del giudicato, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo
ed il petitum del primo (cfr. Cass., 29 dicembre 2021, n. 41895, in motivazione; Cass., 3 gennaio 2019, n. 37).
7.1.6 Più specificamente, il giudicato esterno impedisce la proposizione di un nuovo giudizio caratterizzato dalla identità dei predetti elementi (soggetti e oggetto) ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, anche nell’ipotesi in cui il medesimo si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, trattandosi di un dato che può essere assimilato agli elementi normativi astratti, in quanto destinato a fissare la regola del caso concreto, sicché il suo accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del «ne bis in idem», corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione (Cass., 11 gennaio 2022, n. 571; Cass., 26 luglio 2021, n. 21375).
7.1.7 Dunque, qualora due giudizi tra le stesse parti facciano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto e tale efficacia, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio dell’autonomia dei periodi d’imposta, in quanto l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi
d’imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente. In riferimento a tali elementi, il riconoscimento della capacità espansiva del giudicato appare d’altronde coerente non solo con l’oggetto del giudizio tributario, che attraverso l’impugnazione dell’atto mira all’accertamento nel merito della pretesa tributaria, entro i limiti posti dalle domande di parte, e quindi ad una pronuncia sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria (salvo che il giudizio non si risolva nell’annullamento dell’atto per vizi formali o per vizio di motivazione), ma anche con la considerazione unitaria del tributo dettata dalla sua stessa ciclicità, la quale impone, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e di effettività della tutela giurisdizionale, di valorizzare l’efficacia regolamentare del giudicato tributario, quale «norma agendi» cui devono conformarsi tanto l’Amministrazione finanziaria quanto il contribuente nell’individuazione dei presupposti impositivi relativi ai successivi periodi d’imposta (Cass., 24 maggio 2022, n. 16684; Cass., 27 ottobre 2021, n. 38950; Cass., 20 febbraio 2020, n. 15171; Cass., 20 dicembre 2018, n. 32957).
7.2 Ciò posto, osserva la Corte che, nel caso di specie, non sia invocabile l’autorità del giudicato sostanziale esterno che opera, come già detto, entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione, e presuppone, quindi, che la causa precedente e quella in atto abbiano in comune, oltre ai soggetti, anche il petitum e la causa petendi , restando irrilevante, a tal fine, l’eventuale identità delle questioni giuridiche o di fatto da esaminare per pervenire alla decisione (cfr. Cass., 1 marzo 2024, n. 5515; Cass., 7 giugno 2021, n. 15817; Cass., 25 giugno 2018, n. 16688; Cass., 24 marzo 2014, n. 6830).
7.2.1 Ed invero, è sufficiente rilevare, al riguardo, che la causa in esame riguarda bollette doganali afferenti ad operazioni doganali diverse rispetto a quelle in relazione alle quali le società hanno dedotto
la sussistenza del giudicato esterno, ciò che rende diverso il « petitum » degli atti di contestazione degli illeciti doganali oggetto di impugnazione nelle rispettive cause.
7.2.2 E’ utile precisare che, nel caso di specie, il fatto generatore dell’imposta è retto dalla dichiarazione in dogana e sul valore doganale delle merci importate oggetto della bolletta doganale; vi è, dunque, una dichiarazione doganale, atto con il quale il soggetto interessato manifesta la volontà di vincolare quelle determinate merci dichiarate ad uno specifico regime doganale e la merce dichiarata è proprio quella oggetto della dichiarazione, con il valore doganale esposto in dichiarazione, ovvero il fatto generatore dell’obbligazione doganale è retto dalla dichiarazione in dogana (Cass., 26 febbraio 2019, n. 5560). Inoltre, questa Corte ha pure affermato che, nella specifica materia doganale, non sussiste un equipollente alla « diversità di periodo d’imposta », che, sicuramente, non è identificabile nel compimento delle singole operazioni doganali e ha statuito il principio di diritto secondo cui « In tema di sanzioni doganali è inapplicabile il regime della continuazione di cui all’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 472 del 1997, che postula che le violazioni siano state “commesse in periodi d’imposta diversi”, nozione questa estranea alla materia doganale, senza che ad essa possa ritenersi equivalente il compimento delle singole operazioni d’importazione o esportazione » (Cass., 21 settembre 2020, n. 19663), il che esclude, al contempo, la problematica della configurabilità, nella vicenda in esame, dell’istituto del giudicato esterno in caso di situazioni giuridiche di durata, (nella specie, per quanto rilevato, del tutto assenti), che, come già rilevato, opera in presenza di elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta, assumono carattere tendenzialmente permanente.
7.3 Né, all’evidenza, in assenza di un giudicato, viene in rilievo un problema di compatibilità o di contrasto tra norme europee produttive
di effetti diretti e disposizioni nazionali di diritto sostanziale, quale quella di cui all’art. 2909 cod. civ., con la conseguente disapplicazione delle disposizioni nazionali in virtù del carattere di supremazia dell’ordinamento dell’Unione.
7.3.1 In proposito, occorre precisare che la questione dei rapporti tra la normativa nazionale che fissa la autorità del giudicato ed il diritto dell’Unione è stata già esaminata da questa Corte sulla base dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia, che ha affermato che « Il diritto dell ‘UE, così come costantemente interpretato dalla corte di giustizia (sentenze 3 settembre 2009, in causa C-2/08, RAGIONE_SOCIALE, e 16 marzo 2006, in causa C234/04, COGNOME) non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione del diritto unionale da parte di tale decisione. Invero, la corte di giustizia ha fatto salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, in cui il rinvio pregiudiziale è possibile o obbligatorio anche a fronte di passaggio in giudicato della sentenza impugnata, ipotesi che ricorrono allorquando sussistano discriminazioni tra situazioni di diritto unionale e situazioni di diritto interno ovvero che sia reso in pratica impossibile o estremamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento UE. Neppure sussistono le ipotesi eccezionali in cui, invece, il giudice nazionale può superare il giudicato: non vertesi in ipotesi di discriminazioni tra situazioni di diritto dell’UE e situazioni di diritto interno, né le norme dell’ordinamento nazionale da cui deriva l’inammissibilità del ricorso in cassazione rendono in pratica impossibile o estremamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento unionale » (Cass., 13 luglio 2018, n. 18642 e, più di recente, Cass., 6 agosto 2019, n. 2100 e Cass., 14 dicembre 2021, n. 397902).
7.3.2 Ed invero, « Il giudice dell’Unione ha, con plurime pronunce (per tutte: Corte di Giustizia 4 marzo 2020, in causa C-34/19, punti 65-71,
RAGIONE_SOCIALE e giurisprudenza ivi citata ) evidenziato che: – qualora le norme procedurali interne applicabili prevedano la possibilità, a determinate condizioni, per il giudice nazionale di ritornare su una decisione munita di autorità di giudicato, per rendere la situazione compatibile con il diritto nazionale, tale possibilità deve essere esercitata – conformemente ai principi di equivalenza e di effettività e sempre che dette condizioni siano soddisfatte – per ripristinare la conformità della situazione oggetto di giudizio alla normativa dell’Unione; – in caso diverso, il diritto dell’Unione non impone che, per tener conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto adottata dalla Corte, un organo giurisdizionale nazionale debba necessariamente riesaminare una sua decisione che goda dell’autorità di cosa giudicata . A tale riguardo la Corte di Giustizia ha evidenziato l’importanza che riveste, sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali, il principio dell’autorità della cosa giudicata. Infatti, al fine di garantire tanto la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici quanto una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione. Il diritto dell’Unione non impone, dunque, ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetta di porre rimedio alla violazione di una disposizione del diritto dell’Unione, di qualunque natura essa sia. Nella sentenza del 10 luglio 2014 in causa C-213/13 COGNOME la Corte di Giustizia ha chiarito che il suddetto principio non è posto in discussione dalla propria sentenza 18 luglio 2008, in causa C-119/05 COGNOME spa (secondo la quale il diritto dell’Unione osta all’applicazione di una disposizione nazionale, come l’articolo 2909 del codice civile italiano, che mira a consacrare il principio dell’intangibilità del giudicato nei limiti in cui la
sua applicazione impedirebbe il recupero di un aiuto di Stato concesso in violazione del diritto dell’Unione e dichiarato incompatibile con il mercato comune da una decisione della Commissione europea divenuta definitiva). Si è precisato che nel caso ivi esaminato si trattava di una situazione del tutto particolare, in cui erano in questione principi di disciplina della ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e l’Unione europea in materia di aiuti di Stato » (Cass., 12 maggio 2022, n. 15102, in motivazione; Cass. 14 dicembre 2021, n. 39790).
7.3.3 Le considerazioni sopra espresse sono state esaminate anche alla luce della giurisprudenza unionale in materia di limiti di applicabilità del giudicato quando la pretesa impositiva ha avuto ad oggetto, quale quella in esame, tributi armonizzati, cioè sottoposti alla specifica disciplina e questa Corte ha rilevato che « Peraltro trattandosi pur sempre dell’opponibilità di un giudicato, con riferimento ai tributi armonizzati occorre tenere conto della regola di diritto ricavabile da CGUE 3 settembre 2009, in causa C-2/08, RAGIONE_SOCIALE, secondo la quale, in assenza di una normativa unionale in materia, ‘ le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi. Esse non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) ‘ ; 2.4.1. Sicché, secondo la menzionata sentenza, il diritto unionale osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 cod. civ., in una causa vertente sull’IVA concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, ‘ in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche
abusive legate a detta imposta ‘ . 2.4.2. Tale principio è stato già recepito dalla giurisprudenza della S.C. in materia di IVA, affermando che non è possibile estendere ad altri periodi di imposta un giudicato in contrasto con la disciplina unionale, avente carattere imperativo, proprio perché ne comprometterebbe la sua effettività (Cass. n. 9710 del 19/04/2018; conf. Cass. n. 8855 del 04/05/2016; Cass. 5 ottobre 2012, n. 16996; Cass. 19 maggio 2010, n. 12249). 2.4.3. Peraltro, è la stessa sentenza RAGIONE_SOCIALE a chiarire che, in linea di principio, gli effetti del giudicato vanno salvaguardati salvo ipotesi del tutto particolari (si veda, in senso analogo, anche CGUE 10 luglio 2014, in causa C-213/13, COGNOME, § 58) o che investono la stessa ripartizione di competenze tra gli Stati membri e la UE (cfr. CGUE 18 luglio 2007, in causa C-119/05, COGNOME). Si tratta, pertanto, di un principio da applicare restrittivamente, in quanto ‘ il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto ‘ (CGUE 10 luglio 2014, cit., § 59) » e ha concluso affermando che «2.5. Orbene, non è dubbio che la materia dei dazi doganali risenta, al pari dell’IVA, delle norme dettate dalla UE, trattandosi di risorsa propria dell’Unione. E, tuttavia, non può non evidenziarsi che, diversamente dall’IVA, l’imposta non è suscettibile di applicazione periodica, ma riguarda singole importazioni, sicché l’occasionale impedimento all’effettività del diritto unionale conseguente all’applicabilità della regola prevista dall’art. 2909 cod. civ. non è di rilevanza pari a quanto prospettato dalla CGUE nella sentenza RAGIONE_SOCIALE, laddove la non corretta applicazione del diritto dell’unione «si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia possibile correggere tale erronea interpretazione» (CGUE 3 settembre 2009, cit., § 30 )» (Cass., 16 dicembre 2019, n. 33095, in motivazione).
7.3.4 In conclusione, la Corte di giustizia, tenuto conto dei precedenti sopra indicati, ha confermato il valore che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario che negli ordinamenti giuridici nazionali e che il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, fatte salve situazioni eccezionali (a titolo di esempio, aiuti di Stato e pratiche abusive in tema di Iva), in cui il giudicato non può impedire al giudice nazionale di applicare le norme comunitarie, precisando che una interpretazione dell’art. 2909 cod. civ., che consenta di ritenere comunque prevalente l’autorità della cosa giudicata rispetto all’esigenza di tutelare l ‘ applicazione del diritto comunitario, non è corretta, in quanto ostacoli di tale portata all’applicazione effettiva delle norme comunitarie in materia di tributi unionali non possono essere ragionevolmente giustificati dal principio della certezza del diritto e devono essere, dunque, considerati in contrasto con il principio di effettività. Ancora, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi (adesso principio di competenza ex art. del TUE, che richiama l’art 47 della Carta, cfr. Corte di giustizia, sentenza 2 marzo 2021, causa C-824/18) e non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività).
7.4 In ultimo, è utile precisare che il giudicato giammai può riguardare l’attività interpretativa delle norme di diritto, in quanto « l’attività interpretativa delle norme giuridiche compiuta dal Giudice,
consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non può mai costituire limite all’attività esegetica esercitata da altro Giudice, dovendosi richiamare a tale proposito il distinto modo in cui opera il vincolo determinato dall’efficacia oggettiva del giudicato ex art. 2909 cod. civ. rispetto a quello imposto, in altri ordinamenti giuridici, dal principio dello ‘ stare decisis ‘ (cioè, del precedente giurisprudenziale vincolante) che non trova riconoscimento nell’attuale ordinamento processuale (cfr. Cass, 15 luglio 2016, n. 14509, Cass., 21 ottobre 2013, n. 23723) », con la conseguenza che « l’interpretazione ed individuazione della norma giuridica posta a fondamento della pronuncia -salvo che su tale pronuncia si sia formato il giudicato interno -non limitano il Giudice dell’impugnazione nel potere di individuare ed interpretare la norma applicabile al caso concreto e non sono, quindi, suscettibili di passare in giudicato autonomamente dalla domanda o dal capo cui si riferiscono, assolvendo ad una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione (cfr. Cass. 20 ottobre 2010, n. 216561, Cass. 23 dicembre 2003, n. 19679) » (cfr. Cass., 5 marzo 2024, n. 5822, in motivazione).
7.5 Né può farsi richiamo al principio, più volte enunciato in sede di legittimità, in forza del quale « se l’accertamento dell’esistenza, validità e natura giuridica di un contratto, fonte di un rapporto obbligatorio, costituisce il presupposto logico -giuridico di un diritto derivatone, il giudicato si estende al predetto accertamento e pertanto spiega effetto in ogni altro giudizio, tra le stesse parti, nel quale il medesimo contratto è posto a fondamento di ulteriori diritti, inerenti al medesimo rapporto (Cass., Sez. 3, 24 marzo 2006, n. 6628; Cass., Sez. L, 14 agosto 1999, n. 8680; Cass., Sez. 3, 29 settembre 1997, n. 9548; Cass., Sez. L, 13 maggio 1995, n. 5243; Cass., Sez. 1, 22 novembre 1990, n. 11277) » (Cass., 14 giugno 2024, 16618, in motivazione), poiché, per quanto rilevato, tale principio postula che i giudizi interessati siano fra le stesse parti e vertano sul medesimo negozio o rapporto giuridico,
ancorché le finalità dei due giudizi siano diverse, evenienza che non sussiste nella fattispecie in esame. Solo in tal caso « la denuncia di violazione del giudicato esterno attribuisce poi a questa Corte il potere di accertare direttamente l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito » (Cass., Sez. U., 28 novembre 2007, n. 24664).
7.6 In conclusione, il primo motivo va rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: « Il diritto dell’UE, come interpretato dalla Corte di giustizia nel rispetto del principio di competenza ex art. 4 del TFUE, non impone al giudice nazionale, anche in tema di tributi armonizzati, di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione del diritto unionale da parte di tale decisione, fatte salve situazioni eccezionali (a titolo di esempio, aiuti di Stato e pratiche abusive in tema di Iva), in cui il giudicato, in ossequio ai principi di equivalenza e di effettività, non può impedire al giudice nazionale di applicare le norme comunitarie».
Il secondo e quarto motivo, che devono essere trattati unitariamente perché connessi, sono infondati.
8.1 Deve premettersi che la presente fattispecie è regolata dal Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio (UE) del 9 ottobre 2013, n. 952/2013, istitutivo del Codice doganale dell’Unione europea (CDU), e dal corrispondente Regolamento di esecuzione Reg (UE) del 24 novembre 2015, n. 2447/2015 (che hanno fatto seguito al Regolamento (CEE) n. 2913/92, del 12 ottobre 1992, istitutivo del Codice doganale comunitario e al Regolamento Ce del 2 luglio 1993, n. 2454/1993, contenente disposizioni di attuazione del codice doganale comunitario).
8.1.1 In proposito, l’art. 70 del vigente codice doganale comunitario, pone, al comma 1, la regola generale che il valore in dogana è quello di transazione, ossia « il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci », mentre il comma successivo dispone che questo « è il pagamento totale che è stato o deve essere effettuato dal compratore nei confronti del venditore, o dal compratore a una terza parte, a beneficio del venditore, per le merci importate, e comprende tutti i pagamenti che sono stati o devono essere effettuati, come condizione della vendita delle merci importate ».
8.1.2 Tale valore può essere adottato ove ricorrano tutte le condizioni seguenti: « a) non esistano restrizioni per la cessione o per l’utilizzazione delle merci da parte del compratore, oltre a una qualsiasi delle seguenti: i) restrizioni imposte o richieste dalla legge o dalle autorità pubbliche nell’Unione; ii) limitazioni dell’area geografica nella quale le merci possono essere rivendute; iii) restrizioni che non intaccano sostanzialmente il valore in dogana delle merci; b) la vendita o il prezzo non siano subordinati a condizioni o prestazioni per le quali non possa essere determinato un valore in relazione alle merci da valutare; c) nessuna parte dei proventi di qualsiasi rivendita, cessione o utilizzazione successiva delle merci da parte del compratore ritorni, direttamente o indirettamente, al venditore, a meno che non possa essere operato un appropriato adeguamento; d) il compratore e il venditore non siano collegati o la relazione non abbia influenzato il prezzo » (art. 70, par. 1, del Reg. (UE) n. 952/2013)
8.1.3 Il prezzo effettivamente pagato o da pagare coincide con il « pagamento totale che è stato o deve essere effettuato dal compratore nei confronti del venditore, o dal compratore a una terza parte, a beneficio del venditore, per le merci importate, e comprende tutti i pagamenti che sono stati o devono essere effettuati, come condizione della vendita delle merci importate » (art. 70, par. 2, del Reg. (UE) n. 952/2013).
8.1.4 Il successivo art. 71, poi, individua tra gli elementi da includere nel valore di transazione « a) i seguenti elementi, nella misura in cui sono a carico del compratore ma non inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci: i) le commissioni e le spese di mediazione, fatta eccezione per le commissioni di acquisto; ii) il costo dei container considerati, ai fini doganali, come formanti un tutt’uno con la merce; e iii) il costo dell’imballaggio comprendente sia la manodopera sia i materiali; b) il valore, attribuito in misura adeguata, dei prodotti e servizi qui di seguito elencati, qualora questi siano forniti direttamente o indirettamente dal compratore, senza spese o a costo ridotto e siano utilizzati nel corso della produzione e della vendita per l’esportazione delle merci importate, nella misura in cui detto valore non sia stato incluso nel prezzo effettivamente pagato o da pagare: i) materie, componenti, parti e elementi similari incorporati nelle merci importate; ii) utensili, matrici, stampi e oggetti similari utilizzati per la produzione delle merci importate; iii) materie consumate durante la produzione delle merci importate; e iv) i lavori di ingegneria, di sviluppo, d’arte e di design, i piani e gli schizzi eseguiti in un paese non membro dell’Unione e necessari per produrre le merci importate; c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; d) il valore di tutte le quote dei proventi di qualsiasi ulteriore rivendita, cessione o utilizzo delle merci importate spettanti, direttamente o indirettamente, al venditore; e) le seguenti spese fino al luogo d’introduzione delle merci nel territorio doganale dell’Unione: i) le spese di trasporto e di assicurazione delle merci importate; e ii) le spese di carico e movimentazione connesse al trasporto delle merci importate ».
8.1.5 Ai sensi dell’art. 71, par. 2, CDU, « Le aggiunte al prezzo effettivamente pagato o da pagare (…) sono effettuate esclusivamente sulla base di dati oggettivi e quantificabili ».
8.1.6 Il Reg. di esecuzione ( UE) 2015/2447 della Commissione, all’ art. 136, precisa, poi, che « I corrispettivi e i diritti di licenza sono considerati pagati come condizione della vendita delle merci importate quando è soddisfatta una delle seguenti condizioni: a) il venditore o una persona ad esso collegata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento; b) il pagamento da parte dell’acquirente è effettuato per soddisfare un obbligo del venditore, conformemente agli obblighi contrattuali; c) le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questo acquistate senza versamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza a un licenziante » (comma 4), giudicando irrilevante il paese in cui è stabilito il destinatario del pagamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza (comma 5).
8.2 Dunque, con specifico riferimento ai diritti di licenza, il legislatore unionale ha previsto tra gli elementi che devono essere addizionati per determinare il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate ai fini della determinazione del valore delle merci, al l’art. 71, par. 1, lett. c), CDU, anche « i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare », con la conseguenza che le royalties devono essere addizionate al valore di transazione se sono integrate tutte le seguenti condizioni: a) non sono già state incluse nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; b) sono relative alle merci da valutare; e c) il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagarle come condizione per la vendita delle merci da valutare e le integrazioni di tale valore devono avvenire sulla base di dati oggettivi e quantificabili.
Anche i diritti di licenza, allora, sono destinati ad incidere sulla determinazione del valore doganale qualora i corrispondenti beni immateriali siano incorporati nella merce, così esprimendone o contribuendo ad esprimerne il valore economico.
8.2.1 Il valore in dogana deve, dunque, riflettere il valore economico reale della merce importata e, come è stato affermato anche di recente dai giudici unionali, deve considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti. In particolare, è stato precisato che « Il diritto dell’Unione in materia di valutazione doganale mira a stabilire un sistema equo, uniforme e neutro che escluda l’impiego di valori in dogana arbitrari o fittizi. Il valore in dogana deve quindi riflettere il valore economico reale di una merce importata e tale obiettivo deve prevalere anche quando il valore in dogana è determinato in forza di disposizioni speciali » (CGUE, 21 settembre 2023, n. 770/21) e che « Sebbene un operatore economico non possa sottrarsi al diritto dell’Unione invocando i propri obblighi contrattuali, la determinazione del valore in dogana di merci importate non può tuttavia essere stabilita in maniera astratta. Conformemente alla giurisprudenza della Corte, essa trova il suo fondamento nelle condizioni in base alle quali è stata effettuata la vendita di cui trattasi, anche se queste differiscono dagli usi commerciali o possono essere considerate inabituali per il tipo di contratto considerato. In tal senso, al fine di valutare se il valore in dogana delle merci importate rifletta il loro valore economico reale, occorre prendere in considerazione la situazione giuridica concreta delle parti del contratto di vendita. Pertanto, non tener conto delle condizioni di vendita nell’ambito della determinazione del valore in dogana di tali merci sarebbe non solo contrario alle disposizioni dell’articolo 29, paragrafo 1, del codice doganale comunitario e dell’articolo 70, paragrafo 1, del codice doganale dell’Unione, ma condurrebbe inoltre a un risultato che non consente di riflettere il valore economico reale di dette merci » (CGUE, 22 aprile 2021, n. 75/20).
8.2.2 Ed invero, la Corte unionale, sul presupposto appunto che né l’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del precedente codice doganale, né l’art. 157, paragrafo 2, del regolamento 2454/93, hanno precisato cosa si debba intendere per «condizione di vendita» delle merci da valutare e, più in particolare, quando ricorra la terza condizione sopra indicata, secondo cui l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare), ha affermato che la nozione « condizione di vendita» sta ad indicare la situazione in cui, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore o la persona ad esso legata – e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo o del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Ha, quindi, aggiunto, che qualora, come nel caso in esame, il beneficiario delle royalties sia soggetto diverso dal venditore, occorre «verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente » (CGUE, 9 marzo 2017, GE Healthcare, C-173/15 ed anche Cass. 6 aprile 2018, n. 8473, in motivazione).
8.2.3 Anche questa Corte ha precisato che « Per determinare il valore in dogana delle merci da importare, il prezzo effettivamente pagato o da pagare è integrato dai corrispettivi e i diritti di licenza relativi, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci stesse. Ciò sempre considerando, da un lato, che devono essere valutati una pluralità di profili specificamente concernenti ciascuna fattispecie concreta e, dall’altro, che il mero controllo di qualità non è rilevante » (Cass., 1 dicembre 2022, n. 35359; Cass., 30 gennaio 2020, n. 2140; Cass. 6 aprile 2018, n. 8473, in motivazione).
8.2.4 E ciò, per l’appunto, in coerenza con l’art. 160 del Reg. n. 2454/93, secondo cui il pagamento delle royalties costituisce una condizione della vendita quando il venditore o una persona ad esso «legata» chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento e con l’art. 143 dello stesso Regolamento di esecuzione che stabilisce quando due o più soggetti sono «legati» («a) l’una fa parte della direzione o del consiglio di amministrazione dell’impresa dell’altra e viceversa; b) hanno la veste giuridica di associati; c) l’una è il datore di lavoro dell’altra; d) una persona qualsiasi possegga, controlli o detenga, direttamente o indirettamente, il 5 % o più delle azioni o quote con diritto di voto delle imprese dell’una e dell’altra; e) l’una controlla direttamente o indirettamente l’altra; f) l’una e l’altra sono direttamente o indirettamente controllate da una terza persona; g) esse controllano assieme, direttamente o indirettamente, una terza persona; oppure se h) appartengono alla stessa famiglia. Secondo tale disciplina, si consideravano appartenenti alla stessa famiglia solo le persone tra le quali intercorreva uno dei seguenti rapporti: (i) marito e moglie, (ii) ascendenti e discendenti, in linea diretta, di primo grado, (iii) fratelli e sorelle (germani e consanguinei o uterini), (iv) ascendenti e discendenti, in linea diretta, di secondo grado, (v) zii/zie e nipoti – suoceri e generi o nuore – cognati e cognate» ).
8.3 Con il nuovo codice doganale l’esigenza di stabilire l’esistenza di un «legame» tra i soggetti coinvolti nelle operazioni che danno luogo all’importazione delle merci e al pagamento dei corrispettivi e diritti di licenza si è attenuta, in quanto, con il nuovo codice doganale l’esistenza di un collegamento fra il terzo che richiede il pagamento delle royalties e il venditore non è più indispensabile, ma costituisce solo una delle condizioni, in sé sufficiente ma non necessaria per dimostrare l’obbligatorietà del pagamento delle royalties quale condizione della vendita, con la conseguenza che, nei rapporti trilaterali, i corrispettivi e i diritti di licenza concorrono ad integrare il valore delle merci importate se sono versati in un contesto in cui il licenziante può controllare i produttori che vendono i beni al licenziatario e per stabilire se ricorrono tali condizioni è necessario esaminare tutti i contratti commerciali, ivi compresi i contratti di licenza.
8.3.1 Come già precisato da questa Corte, in modo condivisibile, « deve dunque concludersi che con il nuovo codice doganale l’esistenza di un collegamento fra il terzo che richiede il pagamento delle royalties e il venditore non è più, come invece previsto dal Reg. (CEE) n. 2454 del 1993, art. 157, par. 1, indispensabile, ma costituisce solo una delle condizioni, in sé sufficiente ma non necessaria per dimostrare l’obbligatorietà del pagamento delle royalties quale condizione della vendita; sicché, la nuova disciplina consente, pertanto, di includere le royalties nel valore delle merci anche in assenza di un collegamento tra il venditore e il licenziante, escludendo che tale circostanza abbia valore essenziale » e che la nozione di controllo prevista dal Regolamento di esecuzione (UE) 2015/2447 « è più generica ed ampia di quella precedente e non richiede necessariamente che il potere di orientamento investa la totalità delle attività del soggetto controllato » (Cass., 13 febbraio 2020, n. 3606, in motivazione).
8.3.2 In tal senso si esprime il Taxud/B4/2016: « il criterio applicabile è capire se il venditore può vendere o se il compratore può comprare le merci senza pagare royalties o diritti di licenza. La condizione può essere implicita o esplicita. In alcuni casi sarà specificato nell’accordo di licenza se la vendita delle merci importate è subordinato al pagamento di un corrispettivo o di un diritto di licenza. Tuttavia, non è richiesto che ciò debba essere precisato negli accordi ».
8.3.3 Ciò che, come precisato anche nel citato documento TAXUD del 2016, rispecchia le indicazioni del Commentario 25.1 del 2011 del World Customs Organization (WCO), che, a loro volta, sono congruenti con quelle del Taxud/800/2002, con la conseguenza che il documento Taxud/800/2002 mantiene inalterato il suo valore orientativo, perché la normativa successivamente introdotta fornisce una regolamentazione della materia che privilegia in misura più incisiva la rilevanza delle royalties pagate ai fini della determinazione del valore delle merci ed anche il nuovo documento TAXUD del 2016 non si
discosta dalle linee generali fondamentali già affermate (cfr. Cass., 16 maggio 2023, n. 13338; Cass., 13 febbraio 2020, n. 3606).
8.3.4 E’, dunque, evidente che il documento TAXUD-800-2002 mantiene inalterato il suo valore orientativo, sia perché riferito alla disciplina contenuta nel codice doganale comunitario applicabile ratione temporis, sia perché la normativa successivamente introdotta fornisce una regolamentazione della materia che privilegia in misura più incisiva la rilevanza delle royalties pagate ai fini della determinazione del valore delle merci, sia perché anche il nuovo documento TAXUD del 2016 non si discosta dalle linee generali fondamentali già affermate (Cass., 16 maggio 2023, n. 13338).
8.3.5 Più in particolare, questa Corte ha evidenziato che « La eliminazione del documento dalla raccolta non appare conseguenza della perdita del suo valore interpretativo, bensì dell’abrogazione del CDC e del DAC, che ha conseguentemente determinato la necessità di abbandonare il vecchio documento di prassi e sostituirlo con un nuovo documento che si riferisca alla nuova normativa unionale: Reg. n. 952/2013/UE-CDU (nuovo codice doganale) e Reg. n. 2015/2447/UERE (nuovo regolamento di esecuzione) » (Cass., 30 gennaio 2020, n. 2140), così evidenziando che gli indicatori di cui al documento TAXUD800-2002 non hanno perso il loro valore orientativo, in quanto la nuova normativa unionale ha disciplinato la materia in continuità con la precedente.
8.3.6 Ed invero, q uanto all’accertamento di quel potere di controllo, questo è inteso « in un’accezione ampia, secondo cui è sufficiente anche un mero potere di orientamento, e necessariamente casistica, che ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene » ed « utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione
presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana), contenuto nel documento TAXUD/800/2002, nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del codice doganale », avendo la Corte di giustizia, nella sentenza 7 marzo 2017, RAGIONE_SOCIALE, citata, stabilito che questi documenti « sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sé considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice » (Cass., 16 maggio 2023, n. 13338).
8.3.7 In particolare, il documento in questione annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri, i seguenti: il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente; il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione); il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente; il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti; il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci; il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc.; il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti; il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre; il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore; il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di
licenza) in assenza del consenso del licenziante; le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/loro design e con riguardo al marchio di fabbrica); le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante (cfr. anche Cass., 13 settembre 2023, n. 26466, in motivazione).
8.4 Tutto ciò premesso, i diritti di licenza sono considerati pagati come condizione della vendita delle merci importate se il venditore o una persona ad esso collegata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento o il pagamento da parte dell’acquirente è effettuato per soddisfare un obbligo del venditore, conformemente agli obblighi contrattuali, oppure se le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questo acquistate senza versamento delle royalties a un licenziante, e l ‘operazione ermeneutica che l’ interprete deve effettuare è quella di stabilire se il venditore possa vendere o se il compratore possa acquistare le merci senza il pagamento di corrispettivi o diritti di licenza e, in questo, assume rilievo, oltre il contratto di vendita, anche il contratto di licenza o altri documenti relativi all’operazione dai quali emerga, anche in modo implicito, se la vendita delle merci importate sia o meno subordinata al pagamento delle royalties. Come già ricordato, l’art. 136, par. 4, lettera c), del Regolamento di esecuzione prevede che « I corrispettivi e i diritti di licenza sono considerati pagati come condizione della vendita delle merci importate quando è soddisfatta una delle seguenti condizioni: a) il venditore o una persona ad esso collegata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento; b) il pagamento da parte dell’acquirente è effettuato per soddisfare un obbligo del venditore, conformemente agli obblighi contrattuali; c) le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questo acquistate senza versamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza a un licenziante » (comma 4), con ciò mettendo in rilievo (come sottolineato da autorevole dottrina) che le disposizioni relative alle condizioni per la vendita si basano su
impegni assunti dall’acquirente o dal venditore e sono vincolanti per gli stessi (dando così priorità agli elementi contrattuali) e che il criterio della «condizione di vendita» si riferisce non solo alle condizioni imposte dal o sul venditore, ma anche sull’acquirente, con la conseguenza che, al fine di stabilire se tali pagamenti debbano essere addizionati al valore delle merci occorre valutare non solo le condizioni imposte dal o al venditore, ma anche quelle imposte all’acquirente. In base a tali elementi è stata considerata come una condizione della vendita delle merci importate il pagamento preteso dal venditore come condizione per la distribuzione esclusiva delle merci sul territorio interessato, oppure la circostanza che il venditore delle merci, altresì beneficiario del pagamento, non avrebbe ceduto tali merci, senza tale pagamento, per la loro distribuzione esclusiva su un determinato territorio e, di contro, è stato ritenuto indifferente che detto pagamento dovesse essere effettuato solo per un periodo limitato di tempo (cfr. CGUE, 19 novembre 2020, causa C-775/19). Analogamente deve operarsi nelle ipotesi in cui i diritti di licenza non siano pagati al venditore, ma a soggetti terzi, come, di sovente, accade, data la complessità delle relazioni economiche, in cui il terzo è il proprietario o il licenziante dei relativi diritti. In queste fattispecie deve, comunque, farsi riferimento all’art. 71, par. 1, lett. c), CDU e all’art. 136, par. 4, del Regolamento di esecuzione, che disciplinano gli elementi fondamentali della vendita di merci, compreso il trasferimento del titolo di proprietà e di tutti i diritti sulle merci conformemente agli accordi contrattuali, con la necessità, in questi casi specifici, di esaminare tutte le circostanze relative alla vendita e all’importazione delle merci inclusi i possibili collegamenti tra gli accordi di vendita e i contratti di licenza, oltre che altre informazioni relativa alla vendita e all’importazione delle merci. In sintesi, dai principi sopra esposti, consegue che i corrispettivi o i diritti di licenza assumono rilevanza quale base imponibile e vanno considerati come «relativi alle merci da valutare» anche se non
determinati al momento della conclusione del contratto di licenza o dell’insorgenza dell’obbligazione doganale. Con particolare riferimento alla terza condizione, ossia che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare, la nozione «condizione di vendita» sta ad indicare la situazione in cui, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore o la persona ad esso legata -e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo o del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Qualora (come nel caso in esame) il beneficiario delle royalties sia soggetto diverso dal venditore, occorre « verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente ». Può, dunque, ritenersi che il pagamento dei corrispettivi e i diritti di licenza (cd. royalties) dovuti dall’importatore in relazione alle merci importate costituisce una «condizione della vendita», ai fini della rilevanza degli stessi quale componente del valore della merce in dogana e, conseguentemente, dell’applicazione del potere di rettifica dell’Ufficio, non solo quando l’operazione è subordinata espressamente, nelle clausole dell’accordo di licenza, all’assolvimento di tali pagamenti, ma anche quando tale rapporto di subordinazione si evince dal tenore delle clausole contrattuali che interessano anche diversi soggetti che possono intervenire nell’operazione medesima, quando, come nel caso in esame, il venditore è soggetto diverso dall’avente diritto alla percezione delle royalties. Con riferimento alla nozione di controllo si tratta di una nozione ampia che ben si coordina con la nozione economica del valore doganale (la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico
del bene) che opera su un duplice piano: sul piano della fattispecie, perché il controllo è assunto per la sua rilevanza anche di fatto e sul piano degli effetti, perché ci si contenta del potere di «orientamento» del soggetto controllato. Con la precisazione che la nozione di controllo presa in considerazione dall’art. 127 del Reg. (UE) n. 2015/2447 (secondo la quale, ai fini della determinazione del valore in dogana, « si ritiene che una parte controlli l’altra quando la prima è in grado, di diritto o di fatto, di imporre orientamenti alla seconda ») è più generica ed ampia di quella precedente (art. 143 del Reg. (CEE) n. 2454/93 e allegato 23 a tale Regolamento secondo cui « si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda ») e non richiede necessariamente che il potere di orientamento investa la totalità delle attività del soggetto controllato. Dunque, la nuova disciplina che addirittura consente di includere le royalties nel valore delle merci anche in assenza di un collegamento tra il venditore e il licenziante, escludendo che tale circostanza abbia valore essenziale e secondo cui il criterio applicabile è capire (potendo detta condizione essere anche implicita e non essere specificato nell’accord o di licenza se la vendita delle merci importate sia subordinata o meno al pagamento di un corrispettivo o di un diritto di licenza) se il venditore può vendere o se il compratore può comprare le merci senza pagare royalties o diritti di licenza.
8.5 Ciò posto , nel caso in esame, la sentenza impugnata ha ritenuto la sussistenza delle condizioni richieste dalla normativa comunitaria per computare, nel valore in dogana delle merci importate, l’importo dei diritti di licenza e, in particolare, di condizioni implicanti un controllo dei licenzianti sulla produzione; i giudici di secondo grado, al riguardo, hanno affermato che dall’esame delle condizioni contrattuali e, in particolare, della clausola di cui all’art. 4.2 del contratto di licenza, emergeva che, qualora il licenziatario riteneva che i prodotti non
ottemperavano ai propri standard qualitativi, nonché alle caratteristiche e ai requisiti tecnici, il licenziante doveva notificare i difetti riscontrati e il licenziatario non poteva distribuire o vendere, ovvero autorizzare la distribuzione o la vendita dei prodotti in cui fossero stati riscontrati tali difetti, fino a quanto non venivano corretti in maniera ragionevolmente soddisfacente per il licenziante, con la sola eccezione dei prodotti di seconda scelta e che ciò rendeva evidente che il contratto ris pondeva all’esigenza della società licenziante che non solo doveva realizzare profitto dalla cessione del diritto dell’uso del proprio marchio, ma soprattutto doveva tutelare l’immagine del marchio stesso. I giudici di secondo grado, inoltre, hanno messo in evidenza, che il valore oggettivo dei rispettivi interessi rendeva impari il rapporto tra i soggetti, in quanto il licenziatario non aveva alcuna possibilità di ottenere una diversa contrattualizzazione e per ottenere il diritto allo sfruttamento del marchio «famoso», accettava il controllo diretto e totale imposto dal licenziante e il licenziante aveva il controllo diretto delle attività del licenziatario. La Commissione tributaria regionale, dunque, ritenuta dimostrata la condizione di vendita, ha concluso per la legittimità dei dazi doganali sul valore della merce che teneva conto anche del valore delle royalties.
8.6 Orbene, ritiene questo Collegio che la Commissione tributaria regionale abbia fatto corretta applicazione dei principi normativi, come interpretati dalla giurisprudenza unionale e da quella di legittimità; ed invero, deve precisarsi che le facoltà riconosciute alle licenzianti di preservare il carattere distintivo e il valore commerciale del marchio, in cui si esprime « il controllo … finalizzato alla protezione dell’immagine del licenziante nei confronti dei consumatori finali », costituiscono elementi che offrono adeguata dimostrazione dell’esistenza di un potere di orientamento del licenziante sul produttore/venditore, in relazione alla loro incisività nell’indirizzamento dell’attività di produzione e idoneità a conformare l’attività del
produttore in funzione della tutela del marchio da perdite di immagine connesse a modalità di produzione non coerenti con il livello qualitativo dei prodotti che il pubblico è solito associare al marchio che li contraddistingue; di conseguenza, quel che rileva non è un controllo di mera qualità del prodotto, come tale non implicante necessariamente l’esistenza di un controllo, sia pure indiretto, sui fornitori, quanto un controllo sullo svolgimento dell’attività produttiva; la Commissione tributaria regionale, pertanto, ha considerato che una situazione di controllo – intesa, come evidenziato in precedenza, quale possibilità di esercizio, di diritto o di fatto, di un potere di costrizione o di orientamento -poteva rinvenirsi anche qualora al licenziante fosse riconosciuto il diritto di esigere il soddisfacimento dei livelli di qualità normalmente associati ai prodotti commercializzati con il marchio concesso in licenza. Inoltre, non possono non rilevare, come affermato da questa Corte nella sentenza n. 24996 del 10 ottobre 2018, le regole di esperienza proprie del rapporto di licenza: « Questo rapporto è difatti di norma connotato da penetranti poteri di controllo del titolare del marchio sul licenziatario al fine di garantire che tutti i prodotti contrassegnati dal medesimo segno distintivo siano omogenei e funzionali (come si evince, d’altronde, anche dall’art. 8, sia pure di natura dispositiva, della direttiva n. 2008/95/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, ratione temporis applicabile). Il contratto di licenza, che pur sempre mira a salvaguardare le prerogative del licenziante, solitamente comporta di per sé che i terzi individuati per la produzione non possano immettere liberamente i prodotti sul mercato, ma debbano ritrasferirli ai distributori designati dal licenziante, ossia ai licenziatari, i quali corrispondono a costui i diritti di licenza. Risponde quindi a una massima di comune esperienza, l’applicazione della quale non è contrastata, nel caso in esame, da elementi di segno contrario, che il titolare del marchio e dei modelli riesca a controllare tutta la filiera
produttiva e distributiva, massimizzando il profitto che ne deriva » (cfr., più di recente, Cass., 7 giugno 2023, n. 16134). Nel caso di specie, la Commissione tributaria regionale ha considerato l’oggettiva rilevanza della clausola 4.2 quale «indicatore» del potere di controllo del licenziante, cosicché la conclusione cui è giunta, deve considerarsi conforme ai principi esposti, in quanto l’ interpretazione sostenuta dai giudici di merito è fondata sull’accertamento che la licenziante esercitava un controllo tale da integrare il presupposto per l’inclusione dei diritti di licenza nel valore doganale delle merci importate del pagamento delle royalties come «condizione di vendita» delle merci medesime e ciò tenendo in considerazione il contenuto negoziale del contratto di licenza. Ed invero, l’esame del contratto di licenza, per quanto rilevato, è essenziale in quanto rappresenta una delle principali fonti di informazioni per stabilire se le royalties siano rilevanti ai fini della determinazione del valore in dogana delle merci importate, anche se tale analisi deve avvenire tenendo conto anche dei termini del contratto di vendita e delle interrelazioni che possono esistere tra il contratto di vendita stesso e quello di licenza, anche alla luce della circostanza che sovente il contratto di vendita non menziona la necessità di pagare le royalties per le merci.
8.7 In conclusione, il secondo e il quarto motivo di ricorso vanno rigettati in applicazione del seguente principio di diritto: « Per determinare il valore in dogana delle merci da importare il prezzo effettivamente pagato o da pagare è integrato dai corrispettivi e dai relativi diritti di licenza, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci stesse. Qualora i diritti di licenza non siano pagati al venditore, ma ad un soggetto terzo, proprietario o licenziante dei relativi diritti, occorre esaminare tutte le circostanze relative alla vendita e all’importazione delle merci, incluso il contenuto negoziale del contratto di licenza e del contratto di vendita, al fine di accertare se il venditore sia disposto a vendere la merce senza
che sia pagato il corrispettivo del diritto di licenza e se sussista un potere di controllo del licenziante sul licenziatario, di diritto o di fatto (che non deve necessariamente investire la totalità delle attività del soggetto controllato), che incida sul ciclo di produzione e non sulla qualità del prodotto ».
Il terzo motivo è inammissibile in quanto formulato mediante la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio motivazione e/o di omesso esame di fatto decisivo che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (Cass., 4 ottobre 2019, n. 24901; Cass., 23 ottobre 2018, n. 26874) e ciò anche a volere accogliere l’orientamento meno rigoroso che subordina l’ammissibilità del motivo frutto di mescolanza (Cass., 13 dicembre 2019, n. 32952), alla condizione che lo stesso comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto.
9.1 Rileva, poi, un ulteriore profilo di inammissibilità della censura formulata ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., che esula dal limitato perimetro entro il quale può denunciarsi il vizio di motivazione della sentenza, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del decreto legge n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012, poiché con esso deve farsi riferimento all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto
determinare un esito diverso della controversia (cfr. Cass., Sez. U., 7 aprile 2014 n. 8053), nel cui paradigma non è, all’evidenza, inquadrabile la censura concernente l’omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass., 18 ottobre 2018, n. 26305; Cass., 14 giugno 2017, n. 14802).
9.2 Il motivo è, pure, infondato, dovendosi ricordare che è regola fondamentale del diritto tributario quella secondo cui le ragioni poste a base dell’atto impositivo definiscono i confini del giudizio tributario, che (anche se con sue specifiche caratteristiche) è, pur sempre, giudizio d’impugnazione di un atto; sicché l’Ufficio, restandone le contestazioni adducibili in sede contenziosa circoscritte dalla motivazione dell’avviso di accertamento, non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse o modificare, nel corso del giudizio, quelle definite dalla motivazione suddetta (Cass., 30 marzo 2016, n. 6103, in motivazione). Soccorre nello stesso senso anche il principio statuito da questa Corte secondo cui « Nel giudizio tributario è inammissibile la deduzione, nella memoria ex art. 32 del D.Lgs. n. 546 del 1992, di un nuovo motivo di illegittimità dell’avviso di accertamento, in quanto il contenzioso tributario ha un oggetto rigidamente delimitato dai motivi di impugnazione avverso l’atto impositivo dedotti nel ricorso introduttivo, i quali costituiscono la “causa petendi” entro i cui confini si chiede l’annullamento dell’atto e la cui formulazione soggiace alla preclusione stabilita dall’art. 24, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992 » (Cass., 24 maggio 2021, n. 14165; Cass., 4 dicembre 2019, n. 31605; Cass., 24 luglio 2018, n. 19616) e che « Nel processo tributario l’avviso di accertamento costituisce nel suo complesso, e nei limiti delle censure del ricorrente, l’oggetto del giudizio, con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria, a fronte dei motivi di impugnazione proposti dal contribuente, non ha un onere di allegazione ulteriore rispetto a quanto contestato mediante l’atto impositivo » (Cass., 13 marzo 2019, n. 7127; Cass., 23 luglio 2019, n. 19806).
9.3 Ciò posto, non sussiste il vizio di violazione di legge lamentato perché, nel caso in esame, l’Amministrazione finanziaria non ha modificato le motivazioni poste a fondamento dell’atto impositivo con il richiamo dell’art. 4.2 del « Sublicense agreement» (oltre che degli artt. 8.2 e 4.1), che prevedeva specificamente che, qualora il licenziatario riteneva che i prodotti non ottemperassero ai propri standard qualitativi, il licenziatario non poteva distribuire o vendere quei prodotti , tenuto conto che l’avviso di accertamento aveva contestato che le royalties erano dovute in forza di quanto convenuto con apposito « Sublicense agreement» tra il licenziatario e il licenziante e che in forza di tale contratto il pagamento delle royalties costituiva una causa una condizione di vendita delle merci importate; si tratta sostanzialmente di un rilievo che integra una mera difesa, ammissibile in quanto mera contestazione delle censure avanzate con il ricorso di primo grado, non introduttiva di nuovi elementi d’indagine» e di una difesa riconducibile all’originaria « causa petendi » che non si fonda, dunque, su fatti diversi da quelli dedotti in primo grado e che non ampliava l’indagine giudiziaria e la materia del contendere. Di conseguenza, la Commissione tributaria regionale non ha affatto ecceduto i confini della « causa petendi » delimitati dapprima nell’avviso di accertamento e poi dai motivi di impugnazione formulati dalle società nel ricorso introduttivo, né è stata alterata la sostanza dell’accertamento, rimanendo gli stessi i fatti sui quali lo stesso è stato fondato, né sono state avanzate pretese diverse, sul piano del fondamento giustificativo, da quelle recepite nell’atto impositivo
10 . Anche il quinto motivo è inammissibile sotto plurimi profili.
10.1 E’ in primo luogo inammissibile perché ancora una volta la censura è stata formulata mediante la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, nn. 3 e n. 5, cod. proc. civ.
(cfr. Cass., 13 dicembre 2019, n. 32952; Cass., 4 ottobre 2019, n. 24901; Cass., 23 ottobre 2018, n. 26874, citate).
10.2 E’ in secondo luogo inammissibile perché, c om’è noto, in tema di processo tributario, a carico della parte appellata vittoriosa in primo grado non sussiste alcun onere di specifica contestazione dei motivi d’appello, ai sensi degli artt. 57 e 58 del decreto legislativo n. 546 del 1992, essendo il « thema probandum » già fissato in primo grado ed unico suo onere è quello di riproporre le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, intendendosi altrimenti rinunciate, ex art. 56 del citato decreto legislativo n. 546 del 1992 che ricalca l’art. 346 cod. proc. civ. (Cass., 30 novembre 2023, n. 33347; Cass., 9 ottobre 2020, n. 21808), onere che nel caso in esame non è stato assolto dalle società appellate che, come emerge dalla sentenza impugnata si sono costituite in giudizio con controdeduzioni con le quali hanno chiesto il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza di primo grado, invocando anche il giudicato esterno con riferimento ad analoga questione tra le medesime parti (pag. 6 della sentenza impugnata). Ciò che trova conferma anche nel ricorso per cassazione (pag. 44) che richiama solo il ricorso di primo grado e la memoria illustrativa di primo grado).
10.3 Il motivo è, pure, infondato, in quanto è orientamento consolidato di questa Corte che l’art. 42, comma primo, del d.P.R. n. 600 del 1973 e l’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, sono norme di stretta interpretazione, sicché la nullità dell’accertamento ivi contemplata non può sussistere nel caso in cui l’atto impositivo non sia firmato dal capo dell’ufficio, ovvero da un funzionario all’uopo delegato, qualora non si verta in tema di II.DD. o di IVA (cfr. Cass., 14 giugno 2013, n. 14942; Cass., 5 settembre 2014, n. 18758; Cass., 10 dicembre 2019, n. 32172 e, più di recente, Cass., 12 marzo 2020, n. 7077).
Il sesto motivo, in disparte il difetto di specificità della censura poco chiara nella sua formulazione, è pure infondato.
11.1 Secondo la giurisprudenza di questa Corte, « nel regime introdotto dall’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche «per relationem», ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all’atto notificato, quando lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, cioè l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono le parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento » (Cass., 11 settembre 2017, n. 21066; Cass., 11 aprile 2017, n. 9323; Cass., 15 aprile 2013, n. 131109).
11.2 Pertanto, la riproduzione del contenuto essenziale dell’atto richiamato dall’avviso di accertamento non si realizza necessariamente, con la pedissequa trascrizione delle sue parti rilevanti nel contesto dell’atto impositivo, ma anche con la semplice indicazione, in forma riassuntiva, del suo contenuto essenziale, per come apprezzato e valutato dall’Amministrazione finanziaria e, quindi, posto a sostegno della pretesa impositiva.
11.3 Ne consegue che l’obbligo di allegazione riguarda i soli atti che non siano stati riprodotti nella loro parte essenziale nell’avviso di accertamento, con esclusione, altresì: a) di quelli cui l’Ufficio abbia fatto comunque riferimento, i quali, pur essendo considerati irrilevanti ai fini della motivazione, sono comunque utilizzabili per la prova della pretesa impositiva (Cass., 5 ottobre 2018, n. 24417); b) di quelli di cui il contribuente abbia già integrale o legale conoscenza (Cass., 14 gennaio 2015, n. 407; Cass., 2 luglio 2008, n. 18073).
11.4 Non sussiste, dunque, alcun difetto di motivazione degli atti impugnati, che contengono tutte le indicazioni necessarie alla compiuta difesa delle società ricorrenti, essendo stati correttamente riportati gli elementi rilevanti. Ne consegue che gli avvisi di accertamento sono legittimi sotto il profilo motivazionale e che la questione sollevata attiene esclusivamente (ed eventualmente) alla prova in giudizio delle affermazioni effettuate dall’Amministrazione finanziaria in sede di avvisi di accertamenti.
11.5 Peraltro, anche con riguardo al dedotto vizio di omesso esame, la censura è inammissibile, avendo questa Corte affermato che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del decreto legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni ,dalla legge n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente l’omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass., 18 ottobre 2018, n. 26305; Cass., 14 giugno 2017, n. 14802). 12. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e le società ricorrenti vanno condannate al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le società ricorrenti al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle
società ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 24 settembre 2024.