Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 18871 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 18871 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: CORTESI NOME
Data pubblicazione: 10/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n.r.g. 27309/2021, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore NOME COGNOME rappresentata e difesa, per procura a margine del ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME presso il quale è elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la quale è domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
-controricorrente –
avverso l’ordinanza n. 216/2020 della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo , depositata il 23 marzo 2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20 maggio 2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME
Rilevato che:
RAGIONE_SOCIALE impugnò innanzi alla C.T.P. di Teramo l’avviso di accertamento notificatole il 25 giugno 2018, con il quale l’Amministrazione aveva recuperato a reddito maggiori ricavi non contabilizzati in relazione ad ii.dd. e Iva per l’anno 2014.
Per quanto in questa sede ancora di interesse, tali maggiori ricavi erano anzitutto originati dalle dicotomie riscontrate nei corrispettivi per l’acquisto di carne dai fornitori; in particolare, dal raffronto dei documenti di trasporto collegati alle fatture, era emerso che il peso della carne era stato corretto in diminuzione rispetto a quanto annotato alla partenza.
Per tale profilo di accertamento, l ‘Erario aveva ritenuto che le eventuali differenze di peso avrebbero dovuto condurre ad uno storno dei documenti di trasporto con richiesta al fornitore di nuova emissione con corretta indicazione del pes o, oppure all’emissione di nota di debito o accredito a fronte delle fatture accompagnatorie.
In mancanza di ciò, sugli acquisti non fatturati era stata applicata una percentuale di ricarico con il criterio della media aritmetica, con conseguente rilievo di ricavi non contabilizzati.
I noltre, poiché la società aveva acquistato un ramo d’azienda da tale RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, l’Ufficio aveva disconosciuto la valutazione dell’avviamento operata in bilancio, rideterminando il costo per difetto e riducendo in corrispondenza la quota annua di ammortamento.
Su tali profili della contestazione, i giudici adìti riconobbero le ragioni della contribuente.
La pronunzia della C.T.P. fu oggetto di appello erariale, accolto con la sentenza indicata in epigrafe (tale dovendo qualificarsi il provvedimento in questione, ancorché erroneamente rechi intestata la denominazione di ‘ordinanza’, atteso il suo contenuto indiscutibilmente decisorio).
I giudici regionali ritennero che -nell’affermare che le discrepanze nel peso della carne dipendevano da un «calo fisiologico» della stessa nel trasporto -la C.T.P. aveva posto a carico dell’erario un onere probatorio che trascendeva il contenuto di quello suo proprio; infatti, una volta dimostrata dall’Ufficio, a mezzo dei documenti contabili, la non corrispondenza dei pesi (anche tenendo conto del calo ponderale che si verifica nel trasporto per comune esperienza), spettava alla contribuente fornire prova significativa dei propri contrari assunti, non essendo sufficienti, a tal fine, le correzioni apposte sulle fatture e sui d.d.t.
Sui maggiori ricavi legittimamente accertati, peraltro, l’Ufficio risultava aver correttamente applicato la stessa percentuale di ricarico applicata dalla società nel periodo d’imposta precedente.
Inoltre, e quanto all’avviamento, la C.T.R. rilevò che il relativo valore era stato calcolato dall’Ufficio in base all’art. 2, comma 4, del d.P.R. n. 460/1996, ovvero in base al criterio di valutazione da adottare in sede di accertamento con adesione, che «essendo un criterio di valutazione ‘ minimale ‘ esonera il Fisco da ogni ulteriore prova »; tale scelta, pertanto, giustificava il recupero a tassazione del costo rappresentato dalla differenza tra la quota di ammortamento dedotta per il 2014 e quella, più alta, invece ritenuta deducibile dalla società.
La sentenza d’appello è stata impugnata dal la contribuente con ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati da successiva memoria.
L’Amministrazione ha resistito con controricorso.
Considerato che:
Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione degli artt. 41bis del d.P.R. n. 600/1973, 54, comma 5, del d.P.R. n. 633/1972, 2697 cod. civ. e 115, comma secondo, cod. proc. civ.
La sentenza è criticata nella parte relativa ai ricavi non contabilizzati.
Secondo la società, la RAGIONE_SOCIALE avrebbe errato nella complessiva lettura e valutazione dei dati probatori, aventi natura presuntiva, in particolare laddove ha osservato: (a) che, per fatto notorio, la diminuzione fisiologica del peso della carne avverrebbe solo dopo la macellazione, in seguito al processo di maturazione e frollatura che ha luogo in sede di stoccaggio; (b) che, pertanto, non erano giustificate le correzioni del peso apportate sulle fatture, perché le carni in oggetto erano già state macellate e refrigerate; (c) che, infine, le fatture erano idonee a supportare le tesi erariali, in quanto assistite da presunzione di legittimità e, pertanto, non passibili di correzione materiale, se non nelle forme prescritte.
Tali dati sarebbero infatti errati, poiché risultava dalle fatture che le carni trasportate erano invece fresche e, d’altro canto, la circostanza indicata come «fatto notorio» non era assolutamente tale, costituendo invece una mera congettura.
Le annotazioni apposte sulle fatture, inoltre, non violavano alcuna prescrizione normativa e, pertanto, erano assistite dalla stessa presunzione relativa ai documenti.
Con il secondo mezzo, la ricorrente denunzia nullità della sentenza per difetto di motivazione nella parte concernente la determinazione del ricarico.
Secondo i giudici regionali, in particolare, i verificatori avevano calcolato una percentuale che «non può che aver tenuto conto della media ponderale dei prezzi delle varie specialità di carne in vendita»;
tale affermazione era però stata smentita dallo stesso Ufficio, il quale assumeva di aver applicato una media aritmetica, del resto consentita dal fatto che non si verteva in fattispecie di accertamento con metodo analitico-induttivo.
Con il terzo ed ultimo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art . 4, comma 2, del d.P.R. n. 460/1996 (oggi abrogato) e degli artt. 5, comma 3, d.lgs. n. 147/2015, 103 del TUIR, 2426, comma primo, num. 6), e 2697 cod. civ., in relazione alla statuizione relativa all’avviamento.
La sentenza impugnata è censurata nella parte in cui ha condiviso il metodo di calcolo del valore dell’avviamento operato dall’Ufficio con riferimento all’art. 2, comma 4, del d.P.R. n. 460/1996, sul rilievo del fatto che tale norma avrebbe esonerato l’Amministrazione da ogni ulteriore prova sulla correttezza dell’importo stimato.
La ricorrente o sserva che, sul punto, il sindacato dell’Ufficio doveva invece necessariamente passare attraverso la prova dell’inesattezza della posta iscritta in bilancio ex art. 2423, secondo comma, cod. civ., e che tale onere non poteva ritenersi assolto con il metodo valorizzato dalla C.T.R. che, peraltro, aveva ignorato la vincolatività del valore dell’avviamento consolidatosi ai fini dell’imposta di registro.
Il primo motivo, per come formulato, è inammissibile.
4.1. La censura, seppure articolata attraverso diverse considerazioni, si sostanzia nel rilievo in base al quale la C.T.R. avrebbe errato nel ricostruire il reddito effettivo della contribuente per effetto di un errato -quando non illegittimo -utilizzo dei dati probatori acquisiti, tutti aventi valore presuntivo.
Il ricorso, in tal senso, si sofferma sull’apprezzamento di ciascuna, specifica, fonte di prova operato dai giudici regionali, confutandone l’esito.
4.2. La ricorrente, dunque, contesta il ricorso ad elementi di prova presuntiva da parte dei giudici d’appello .
Ed invero, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il giudice tributario può desumere in via inferenziale un fatto ignoto dai fatti noti in presenza di un ragionamento presuntivo fondato su criteri di coerenza, concordanza e connessione tra premesse e conclusione del ragionamento presuntivo; e tale ragionamento è censurabile in sede di legittimità soltanto laddove tale fondamento manchi (così, ad es., Cass. n. 34248/2021).
A tale canone, tuttavia, la censura non si conforma.
La ricorrente, infatti, sollecita una revisione di quanto accertato in fatto dai giudici d’appello, come premessa del loro ragionamento, in base alle circostanze che essa stessa compendia (pag. 18 del ricorso); ma una tale richiesta, lungi dal denunziare una violazione della disciplina delle prove indiziarie, costituisce, in realtà, la domanda di un diverso apprezzamento del complessivo materiale probatorio, che in questa sede non è consentita.
5. Il secondo motivo è infondato.
Secondo la ricorrente, la sentenza sarebbe nulla, per contraddittorietà della motivazione, laddove afferma che il ricalcolo dei ricavi è avvenuto secondo il criterio della media ponderale, mentre l’Ufficio aveva sostenuto di aver eseguito il ricalcolo in base alla mera media aritmetica.
In disparte ogni considerazione sull’idoneità di tale affermata incongruenza ad incidere sulla validità della motivazione, essa, in ogni caso, non sussiste; nell’atto di appello dell’Amministrazione -accessibile in ragione della denunzia di un error in procedendo -questa ha infatti unicamente premesso che il ricorso alla media aritmetica non avrebbe comportato alcuna invalidità dell’accertamento, ma ha poi espressamente rilevato di aver applicato « il massimo livello di
ponderazione possibile » in base alla percentuale di ricarico effettivamente conseguita dalla società nell’anno precedente.
Sul punto, pertanto, la sentenza d’appello è esente dal vizio denunziato.
È invece fondato il terzo motivo.
6.1. Gli assunti della ricorrente, in particolare, meritano di essere condivisi laddove muovono dall’orientamento espresso da questa Corte con riferimento alla norma di interpretazione autentica di cui all’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 147 del 2015.
Quest’ultima norma ha espressamente disposto che «gli articoli 58, 68, 85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5 bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che, per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore, anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347».
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la disposizione in questione, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, esclude che l’Amministrazione possa ancora procedere a determinare, in via induttiva, la plusvalenza realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria o catastale, dovendo invece provvedere a individuare ulteriori indizi, dotati di precisione, gravità e concordanza, che supportino adeguatamente il diverso valore della cessione rispetto a quanto dichiarato dal contribuente (così, ad es.
Cass. n. 31372/2024; Cass. n. 12131/2019; Cass. n. 9513/2018; Cass. n. 19227/2017).
6.2. Il richiamato indirizzo, per vero, si è formato in relazione ad ipotesi nelle quali l’Ufficio contestava al contribuente di aver dichiarato un importo inferiore a quello effettivamente percetto, accertando una maggiore plusvalenza; esso, tuttavia, afferma un principio valevole anche per la presente fattispecie, nella quale la pretesa erariale, con la quale è contestata la deduzione di un costo eccessivo da parte del contribuente, postula che il valore effettivo sia inferiore a quello dichiarato.
In ogni caso, infatti, e nell’ottica delle norme la cui violazione è qui denunziata, l ‘ Ufficio deve individuare elementi specifici, e dotati dei requisiti richiamati, che supportino l’accertamento di un corrispettivo diverso rispetto a quello dichiarato.
6.3. A questa modalità di individuazione di un diverso valore non è conforme il criterio di cui all’art. 2, comma 4, del d.P.R. n. 460/1996, ritenuto appagante dalla C.T.R., che, di fatto, esonera l’Ufficio dall’assolvere il proprio onere probatorio.
I valori in esso determinati, infatti, rappresentano soglie minime in funzione dell’accertamento con adesi one (v. fra le altre Cass. n. 13085/2020; Cass. n. 9089/2017); si tratta, quindi, di criterio che integra un indizio a favore dell’Amministrazione finanziaria laddove il valore sia contestato per difetto, esonerandola da prove ulteriori in tal senso, ma che verrebbe qui ingiustamente mutuato per l ‘ipotesi inversa, nella quale l’Ufficio persegue l’opposto obiettivo di contestare un importo per eccesso.
L a sentenza d’appello , in altri termini, appare errata, perché, pur muovendo dalla condivisibile premessa in base alla quale il valore del bene dichiarato ai fini dell’imposta di registro non vincola l’Amministrazione che lo contesti in sede di accertamento, abilitandola
ad una diversa determinazione in via induttiva, ha poi consentito che tale ultima determinazione fosse raggiunta mediante il semplice richiamo ad un criterio normativo che fissa una soglia minima per le confutazioni in difetto, pur in presenza di un affermato maggior valore.
Nella presente vicenda, invece, i diversi valori ipotizzati dall’Amministrazione dovevano essere individuati aliunde , con riferimento a dati desumibili da elementi accertati o accertabili in concreto.
In tal senso, pertanto, si impone la riforma della pronunzia impugnata.
In conclusione, il ricorso va accolto limitatamente al terzo motivo, con rigetto dei restanti.
La sentenza impugnata è cassata con rinvio al giudice a quo per un riesame alla luce dell’indicato principio, oltre che per la liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso in relazione al terzo motivo, respinti i restanti, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Abruzzo , in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione