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Valore avviamento: limiti all’accertamento fiscale

Una società si è vista contestare dall’Agenzia delle Entrate il valore di avviamento dichiarato nell’acquisto di un ramo d’azienda, con conseguente riduzione della quota di ammortamento deducibile. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 19115/2025, ha accolto il ricorso della società. Ha stabilito che l’Amministrazione finanziaria non può ridurre il valore dell’avviamento basandosi su criteri presuntivi previsti per l’accertamento con adesione, ma deve fornire prove specifiche, gravi, precise e concordanti per dimostrare che il valore dichiarato sia eccessivo.

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Pubblicato il 22 agosto 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Valore Avviamento: la Cassazione Fissa i Paletti per l’Accertamento Fiscale

L’acquisto di un’azienda o di un ramo di essa è un’operazione complessa, i cui riflessi fiscali sono di primaria importanza. Uno degli elementi più delicati è la determinazione del valore avviamento, ovvero quel maggior valore immateriale che non risiede nei singoli beni ma nella capacità dell’azienda di produrre reddito. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali sui poteri dell’Agenzia delle Entrate nel contestare tale valore ai fini delle imposte dirette.

I Fatti di Causa

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda una società che, dopo aver acquisito un ramo d’azienda, si è vista notificare un avviso di accertamento da parte dell’Amministrazione Finanziaria. L’Ufficio contestava il valore dell’avviamento iscritto in bilancio, ritenendolo eccessivo. Di conseguenza, aveva rideterminato tale valore basandosi sui redditi dichiarati dal cedente nel triennio precedente e aveva ridotto la quota annua di ammortamento che la società acquirente deduceva dal proprio reddito imponibile.

La società contribuente ha impugnato l’atto, ma sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale hanno dato ragione al Fisco, confermando la legittimità della rettifica.

La rettifica del valore avviamento secondo il Fisco

I giudici di merito avevano sostenuto che, poiché l’ammortamento dell’avviamento è un costo deducibile, spetta al contribuente provarne la correttezza sia nell’esistenza (an) che nell’importo (quantum). Avevano inoltre ritenuto legittimo il metodo utilizzato dall’Agenzia delle Entrate per la rideterminazione del valore, affermando che il valore dichiarato ai fini dell’imposta di registro non fosse vincolante per l’accertamento delle imposte sui redditi.

La Decisione della Corte di Cassazione e il valore avviamento

La Corte di Cassazione ha ribaltato la decisione dei giudici d’appello, accogliendo il ricorso della società. I giudici supremi hanno stabilito un principio fondamentale: l’Amministrazione Finanziaria non può rettificare il valore avviamento dichiarato dal contribuente utilizzando criteri normativi previsti per finalità diverse e presuntive, come quelli per l’accertamento con adesione.

Le Motivazioni

La Corte ha articolato il suo ragionamento su alcuni punti cardine. Innanzitutto, ha confermato che, ai sensi della normativa sull’”interpretazione autentica” (art. 5, comma 3, d.lgs. n. 147/2015), il valore dichiarato o accertato per l’imposta di registro non crea una presunzione legale di maggior corrispettivo per le imposte sui redditi. Questo significa che il Fisco è libero di contestare il valore, ma deve farlo seguendo regole precise.

L’errore della sentenza d’appello, secondo la Cassazione, è stato quello di avallare un metodo di rettifica non corretto. L’Agenzia aveva utilizzato i criteri stabiliti dall’art. 2 del d.P.R. n. 460/1996, che definiscono soglie minime di valore ai fini dell’accertamento con adesione. La Corte ha chiarito che tali criteri funzionano come un indizio a favore del Fisco solo se il valore dichiarato dal contribuente è inferiore a tali soglie, ma non possono essere usati ‘al contrario’ per contestare un valore dichiarato superiore.

In sostanza, per contestare un costo che si presume eccessivo (e quindi un avviamento dichiarato per un valore troppo alto), l’Ufficio ha l’onere di individuare e provare elementi specifici, gravi, precisi e concordanti che supportino la sua pretesa. Non può limitarsi a un mero ricalcolo basato su una formula presuntiva di legge pensata per altri scopi. Il semplice richiamo a un criterio normativo che fissa una soglia minima non è sufficiente a dimostrare l’irragionevolezza di un valore più alto pattuito tra le parti.

Le Conclusioni

Questa ordinanza rafforza la tutela del contribuente contro accertamenti fiscali basati su presunzioni generiche. Il principio affermato è chiaro: sebbene il Fisco possa discostarsi dal valore dichiarato nell’atto di cessione, deve motivare la sua rettifica su basi concrete e provate, non su automatismi normativi. Per le aziende, ciò significa che una valutazione dell’avviamento ben documentata e coerente con la realtà economica dell’operazione ha solide basi per essere difesa in un eventuale contenzioso tributario. L’onere della prova per dimostrare un valore ‘gonfiato’ spetta interamente all’Amministrazione finanziaria, la quale deve fornire elementi specifici e non può ricorrere a scorciatoie presuntive.

Il valore di un’azienda dichiarato ai fini dell’imposta di registro è vincolante per le imposte sui redditi (Ires, Irap)?
No. Secondo la normativa (art. 5, comma 3, d.lgs. n. 147/2015), il valore dichiarato, accertato o definito per l’imposta di registro non è automaticamente presunto come corrispettivo valido ai fini delle imposte sui redditi. L’Amministrazione Finanziaria può discostarsene.

Come può l’Agenzia delle Entrate contestare il valore dell’avviamento che ritiene troppo alto?
L’Agenzia delle Entrate non può usare criteri presuntivi previsti per altre finalità (come le soglie minime per l’accertamento con adesione). Deve invece individuare e fornire indizi specifici, gravi, precisi e concordanti che dimostrino in modo adeguato che il valore effettivo della cessione è inferiore a quello dichiarato dal contribuente.

Quale metodo di calcolo NON può usare l’Ufficio per ridurre il valore dell’avviamento?
L’Ufficio non può utilizzare i criteri stabiliti dall’art. 2 del d.P.R. n. 460/1996 per contestare un valore di avviamento dichiarato superiore alle soglie minime. La Corte di Cassazione ha chiarito che tali criteri sono un indizio a favore del Fisco solo nel caso opposto, cioè quando il valore dichiarato è inferiore a quello minimo, ma non possono essere usati per provare che un valore superiore sia eccessivo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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