Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 19115 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 19115 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: CORTESI NOME
Data pubblicazione: 11/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n.r.g. 6600/2021, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore NOME COGNOME rappresentata e difesa, per procura a margine del ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME presso il quale è elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la quale è domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 411/2020 della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo , depositata il 7 agosto 2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20 maggio 2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME
Rilevato che:
RAGIONE_SOCIALE ha impugnato innanzi alla C.T.P. di Teramo l’avviso di accertamento notificatole il 21 dicembre 2017, con il quale -per quanto in questa sede ancora di interesse -l ‘Amministrazione aveva ripreso a tassazione maggiori redditi, ai fini Irap e Ires per l’anno 2015, oltre ad irrogare sanzioni.
La contestazione traeva origine da una verifica fiscale condotta nei confronti della società per l’anno di imposta precedente, donde era emersa la circostanza dell’acquisto di un ramo d’azienda da tale RAGIONE_SOCIALE in liquidazione ; il valore di quest’ultimo, in assenza di stima, era stato disconosciuto e rideterminato alla luce dei redditi dichiarati nel triennio precedente alla cessione, con conseguente riduzione della quota annua di ammortamento.
I giudici adìti respinsero il ricorso.
Con la sentenza indicata in epigrafe è stato respinto il successivo appello della contribuente.
I giudici regionali, premesso il rilievo in base al quale l’ammortamento dell’avviamento costituisce una componente negativa del reddito ed è perciò onere del contribuente darne prova nell’ an e nel quantum , e fermo il limite massimo dell’avviamento deducibile fissato dall’art. 103 del TUIR, hanno osservato che, nella specie, il valore dell’azienda risultante dal contratto di cessione, che aveva costituito il parametro per l’applicazione dell’imposta di regi stro, non era vincolante ai fini dell’accertamento delle imposte sui r edditi, come stabilito in via di interpretazione autentica dall’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 147/2015, ed era perciò legittima la scelta dell’Ufficio di
discostarsene, peraltro in assenza di specificazioni da parte della contribuente.
Hanno infine soggiunto che le doglianze della contribuente in punto ad asseriti calcoli errati da parte dell’Ufficio non potevano essere prese in considerazione, costituendo deduzioni nuove.
La sentenza d’appello è stata impugnata dal la contribuente con ricorso per cassazione affidato a due motivi, illustrati da successiva memoria.
L’Amministrazione ha resistito con controricorso.
Considerato che:
Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.P.R. n. 460/1996, nonché degli artt. 5, comma 3, d.lgs. n. 147/2015, 103 del TUIR, 5 del d.P.R. n. 446/1997, 2426, comma primo, num. 6), 2427 e 2697 cod. civ.
Assume, al riguardo, che la C.T.R. avrebbe finito con il condividere l’errato metodo di calcolo del valore dell’avviamento , operato dall’Ufficio con riferimento all’art. 2, comma 4, del d.P.R. n. 460/1996 ; osserva infatti che, sul punto, il sindacato dell’Ufficio doveva invece necessariamente passare attraverso la prova dell’inesattezza della posta iscritta in bilancio ex art. 2423, secondo comma, cod. civ., e che tale onere non poteva ritenersi assolto con il metodo valorizzato dalla C.T.R. che, peraltro, aveva ignorato la vincolatività del valore dell’avviamento consolidatosi ai fini dell’imposta di registro.
Il secondo motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 57 del d.lgs. n. 546/1992 e 2, comma 4, del d.P.R. n. 460/1996.
La sentenza impugnata è censurata in punto all’affermata novità del motivo d’appello inerente ai calcoli, che non costituisce alcun ampliamento del petitum ma si limita a specificarne il contenuto.
Il primo motivo è fondato.
3.1. Invero, l’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 147 del 2015 dispone espressamente che «gli articoli 58, 68, 85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5 bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore, anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347».
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la disposizione in questione, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, esclude che l’Amministrazione possa ancora procedere a determinare, in via induttiva, la plusvalenza realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria o catastale, dovendo invece provvedere a individuare ulteriori indizi, dotati di precisione, gravità e concordanza, che supportino adeguatamente il diverso valore della cessione rispetto a quanto dichiarato dal contribuente (così, ad es. Cass. n. 31372/2024; Cass. n. 12131/2019; Cass. n. 9513/2018; Cass. n. 19227/2017).
3.2. Il richiamato indirizzo, per vero, si è formato in relazione ad ipotesi nelle quali l’Ufficio contestava al contribuente di aver dichiarato un importo inferiore a quello effettivamente percetto, accertando una maggiore plusvalenza; esso, tuttavia, afferma un principio valevole anche per la presente fattispecie, nella quale la pretesa erariale, che contesta la deduzione di un costo eccessivo da parte del contribuente, postula che il valore effettivo sia inferiore a quello dichiarato.
In ogni caso, infatti, e nell’ottica delle norme la cui violazione è qui denunziata, l ‘ Ufficio deve individuare elementi specifici, e dotati dei requisiti richiamati, che supportino l’accertamento di un corrispettivo diverso rispetto a quello dichiarato.
3.3. Ciò posto, il criterio ritenuto legittimo dalla C.T.R. non è conforme a tale prescritta modalità di individuazione di un diverso valore.
Come, infatti, è stato affermato da questa Corte (cfr. fra le altre Cass. n. 13085/2020; Cass. n. 9089/2017), i criteri per la determinazione del valore stabiliti dall’art. 2 del d.P.R. n. 460 del 1996, fissano soglie minime in funzione dell’accertamento con adesione .
Tali criteri, pertanto, integrano un indizio a favore dell’Amministrazione finanziaria laddove il valore sia contestato per eccesso, esonerandola da prove ulteriori in tal senso.
Un tale criterio, circoscritto alla menzionata forma di accertamento, non può essere mutuato nell’ipotesi inversa, caratterizzata dal perseguimento di obiettivi opposti.
In questo caso, infatti, i valori di riferimento ipotizzati dall’Amministrazione, diversi da quelli presumibili in base a un criterio di legge, devono essere individuati aliunde dall’Ufficio, ovvero con riferimento a dati desumibili da elementi accertati o accertabili in concreto.
3.4. Ha pertanto errato, sul punto, la sentenza d’appello, perché, pur muovendo dalla condivisibile premessa in base alla quale il valore del bene dichiarato ai fini dell’imposta di registro non vincola l’Amministrazione che lo contesti in sede di accertamento, abilitandola ad una diversa determinazione in via induttiva, ha poi consentito che tale ultima determinazione fosse raggiunta mediante il semplice richiamo ad un criterio normativo che fissa una soglia minima per le confutazioni in difetto, pur in presenza di un affermato maggior valore.
In tal senso, pertanto, se ne impone la riforma.
Il ricorso va dunque accolto in relazione al primo motivo, restando in tale statuizione assorbito l’esame del secondo.
La sentenza d’appello è cassata con rinvio al giudice a quo per il riesame alla luce dell’indicato principio, oltre che per la liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso in relazione al primo motivo, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Abruzzo.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte Suprema