Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24536 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24536 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 04/09/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 15507-2018, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t. elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis –
Ricorrente
CONTRO
LATEMPA NOME , c.f. LTMCRI41M30F839J –
Intimato
Avverso la sentenza n. 7077/10/2017 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 5 dicembre 2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26 giugno 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza impugnata e dal ricorso si evince che l’Agenzia delle entrate notificò alla società RAGIONE_SOCIALE ed a RAGIONE_SOCIALE, quale socio unico, due distinti avvisi d ‘ accertamento, relativi a ll’ anno d’imposta 20 06.
Iva -Op. sogg. inesistenti -Cartiera – Recupero di imponibile -Redditi di partecipazione del socio unico
Con il primo rideterminò l’imponibile della società ai fini Ires, Irap ed Iva. Con il secondo rideterminò l’imponibile del socio unico per la medesima annualità ai fini Irpef e addizionali, a titolo di reddito di partecipazione.
Nei confronti della società l’ufficio contestò il maggior reddito, derivante sia dallo svolgimento della propria attività di commercio di materiale non ferroso usato, che risultava non correttamente dichiarato, sia dai ricavi conseguiti, come corrispettivo, dal ruolo di società fittiziamente interponente (quale cartiera) in operazioni soggettivamente inesistenti.
Nei confronti del Latempa contestò il maggior reddito da partecipazione, occultamente distribuito dalla società.
Ciascuno dei contribuenti impugnò i rispettivi atti impositivi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Napoli.
Quanto alla società, il giudice di primo grado non confermò l’intera prospettazione erariale, riducendo nei suoi confronti le pretese fiscali. La Commissione tributaria regionale del Lazio confermò le statuizioni di primo grado.
Quanto al socio RAGIONE_SOCIALE nel parallelo giudizio da questo introdotto, con sentenza n. 1365/03/2014 la Commissione tributaria provinciale di Latina ridusse il reddito da partecipazione distribuito dalla società, tenendo conto del parziale accoglimento del ricorso da questa promosso. La Commissione tributaria regionale del Lazio con sentenza n. 7077/10/2017 rigettò l’appello erariale, confermando la decisione del giudice di primo grado.
Il giudice d’appello ha ritenuto che, prima il giudice di primo grado e poi quello regionale, che si erano occupati della società, avevano escluso la sua esclusiva natura di cartiera, per aver esercitato anche una reale attività economica. Ha pertanto ritenuto che corretta era stata la rideterminazione delle pretese fiscali nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, non potendo riconoscersi maggiori ricavi derivanti dall ‘ effettiva attività esercitata. Decidendo dunque nel giudizio promosso dal socio unico, il giudice d’appello ha affermato , conseguenzialmente, che i maggiori utili sociali, come rideterminati per la società, si erano riflessi sulla rideterminazione degli utili da partecipazione, in misura inferiore a quanto preteso dall’erario con l’atto impositivo impugnato.
L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria. Il Latempa è rimasto intimato.
All’esito dell’adunanza camerale del 26 giugno 2025, La causa è stata riservata e decisa. L ‘ufficio ha depositato memoria illustrativa, evidenziando che nelle more la sentenza della commissione regionale, che aveva confermato le minori pretese del fisco nei confronti della società, era stata cassata da questa Corte con sentenza n 16516/2024, e rinviata per un nuovo esame al giudice di secondo grado.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente si duole della «violazione e/o falsa applicazione dell ‘art. 295 c.p.c., in relazione a ll’art. 1 del D.Lgs. 546/1992 (art. 360 n. 3, c.p.c.)».
Il giudice regionale, nel perseguire la trattazione dei giudizi con la società e con il socio, avrebbe errato nell’escludere che i rapporti processuali dovevano essere trattati applicando le regole della pregiudizialità/dipendenza e non quelle della connessione, ex art. 29 cit. e 274 c.p.c. Da ciò discendendone la nullità del giudizio per mancata applicazione dell’art. 295 c.p.c.
Il motivo è infondato. Questa Corte ha già chiarito che nel processo tributario, qualora tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità, va disposta la sospensione, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., della causa dipendente allorché la causa pregiudicante sia ancora pendente in primo grado, mentre, una volta che questa sia definita con sentenza non passata in giudicato, opera la sospensione facoltativa di cui all’art. 337, comma 2, c.p.c., con la conseguenza che, in tale ultimo caso, il giudice della causa pregiudicata può, alternativamente, sospendere il giudizio e attendere la stabilizzazione della sentenza con il suo passaggio in giudicato, oppure proseguire il giudizio medesimo ove ritenga, sulla base di una valutazione prognostica, che la decisione possa essere riformata (Cass., 25 marzo 2024, n. 7952). Nel caso di specie è pur vero che le controversie tra l’erario ed i due soggetti non si sono sviluppate parallelamente, e tuttavia la pronuncia resa nei confronti della società, non ancora definitiva (attualmente cassata in sede di legittimità e restituita alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado per il riesame del merito in forza della sentenza 13 giugno 2024, n. 16516),
escludeva i presupposti della sospensione necessaria, così come l ‘opportunità di una sospensione facoltativa.
Con il secondo motivo l’ufficio si duole della «violazione e/o falsa applicazione di legge: art. 111, comma 6, Cost., art. 132, comma 2 n. 4, c.p.c., art. 118 disp. Attuazione c.p.c. nonché artt. 1, comma 2, 36, comma 2 nn. 2 e 4, 53 e 54 del D.Lgs 546/1992. Nullità della sentenza per assoluta mancanza o mera apparenza della motivazione (in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.)». La sentenza sarebbe affetta da nullità insanabile per assenza di motivazione, intesa come apparenza della motivazione.
Anche questo motivo è infondato.
Questa Corte ha chiarito che sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sulla correttezza del suo ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1 marzo 2022, n. 6758). In sede di gravame non è viziata la decisione quando motivata per relationem, ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero quando il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata. Essa va invece cassata quando il giudice si sia limitato ad aderire alla pronuncia di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19 luglio 2016, n. 14786; 7 aprile 2017, n. 9105). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto
dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 1 marzo 2022, n. 6758; 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921). È altrettanto apparente ogni qual volta evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819), oppure quando carente nel giudizio di fatto, così che la motivazione sia basata su un giudizio generale e astratto (Cass., 15 febbraio 2024, n. 4166).
I principi appena richiamati non si attagliano alla motivazione della pronuncia ora al vaglio di questa Corte.
La sentenza, infatti, a prescindere dalla condivisibilità delle conclusioni cui è pervenuta, è sorretta da una motivazione che esclude ulteriori esposizioni della società, così come esclude ulteriori debiti del socio unico. Le argomentazioni utilizzate possono essere errate, come appresso si chiarirà, ma certamente non ci si trova dinanzi ad una sentenza viziata dalla inesistenza della motivazione, intesa come motivazione solo apparente.
Con il terzo motivo l’Agenzia lamenta la «violazione e/o falsa applicazione di legge: artt. 44, 45 e 47 d.p.r. n. 917/1986; artt. 38 e 39 d.p.r. n. 600/1973; artt. 2727,2728,2729, e 2697 c.c.; artt. 115 e 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.)».
Il giudice regionale avrebbe violato la disciplina, così come interpretata dalla giurisprudenza, sulla attribuzione ai soci di società a ristretta base dei maggiori utili accertati alla società.
il motivo è fondato.
La giurisprudenza di legittimità ha rilevato che, in tema di imposte sui redditi di capitale, per escludere l’operatività della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili, conseguiti e non dichiarati da una società a ristretta base partecipativa, non è sufficiente che il socio si limiti ad allegare genericamente la mancanza di prova di un valido e definitivo accertamento nei confronti della società, ma deve contestare lo stesso effettivo conseguimento, da parte della società, di tali utili, ove non sia in grado di dimostrare la mancata distribuzione degli stessi, e in ogni caso l’autonomia dei giudizi nei confronti della società e del socio e il rapporto di pregiudizialità dell’accertamento nei confronti del primo rispetto a quello verso il secondo.
Per altro verso, in materia di imposte sui redditi, costituisce principio consolidato quello secondo cui, ai fini dell’accertamento del maggior reddito, imputato quale partecipazione al capitale delle società a ristretta base sociale, è ammessa la presunzione di attribuzione ai soci degli utili extracontabili, che non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria (Cass., 26317/2020; 16913/2020; 1947/2019; 32959/2018, 18042/2018; ai fini dell’onere della prova, cfr. anche 18764/2024).
Nel caso di specie il principio trova conferma nella obiettiva circostanza che l’assetto societario comprendeva un unico socio, ossia il RAGIONE_SOCIALE, con una partecipazione al 100% delle quote sociali.
A fronte dei dati oggettivi appena esposti, costituisce un dato altrettanto oggettivo che l ‘accertamento sul maggiore imponibile della società, come già chiarito, non era affatto definitivo, così che era compito del collegio d’appello valutare, incidentalmente, se la società avesse conseguito un imponibile pari o inferiore a quello contestato dall’erario. Sotto tale profilo l’attività valutativa del collegio regionale si è limitata ad assumere per definitive le risultanze della sentenza emessa nei confronti della società, senza tuttavia che questa fosse definitiva, con ciò violando quelle che erano le valutazioni indispensabili che avrebbe dovuto altrimenti correttamente operare.
Né può assumere rilievo la considerazione, pure esternata in sentenza tra gli argomenti utilizzati dal collegio d’appello , che non risultavano evidenze della distribuzione di ulteriori utili per mancanza di riscontri, desumibili da tracciabilità bancaria. È appena il caso di ribadire che, in tema di percezione di utili occulti da parte della società, la prova della loro distribuzione ai soci non può certo richiedere l’emersione di passaggi di denaro tracciabili su conti bancari. Si tratta sempre di trasferimenti occultati e, per quanto chiarito, alla presunzione di distribuzione di reddito da partecipazione, tanto più se occultato dalla società, resta sempre a carico del socio dare prova contraria alla sua percezione.
D’altronde, come chiarito da questo Corte anche di recente, i n tema di società a ristretta base azionaria, per applicare la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili fra i soci, di cui all’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, non è necessario che tra i soci sussista un legame di parentela, né è ostativo che la società rivesta la natura di società per azioni, essendo sufficiente la ristrettezza della base sociale, che di norma implica in sé un elevato grado di compartecipazione dei soci, la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utile extrabilancio (Cass., 24 marzo 2025, n. 7815); ed inoltre, che la previsione di cui all’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, legittima la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili extra bilancio prodotti da società di capitali a ristretta base azionaria, con la conseguente inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale non può limitarsi a denunciare la propria estraneità alla gestione e conduzione societaria, ma deve dimostrare -eventualmente anche ricorrendo alla prova presuntiva -che i maggiori ricavi non sono stati effettivamente realizzati dalla società e che quest’ultima non li ha distribuiti, ma accantonati o reinvestiti, ovvero che degli stessi se ne è appropriato altro soggetto (Cass., 29 luglio 2024, 21158).
La Commissione tributaria regionale, che, a fronte di una sentenza in parte favorevole alla società, non si è avveduta tuttavia che, per non essere ancora quella pronuncia definitiva, gravava ancora sul socio l’onere della prova della assenza di distribuzione di utili; e che inoltre ha ritenuto utile la dimostrazione, evidentemente a carico dell’erario, della distribuzione occulta degli utili, desumibile a suo dire anche dalla tracciabilità dei movimenti bancari -pur controvertendosi su una ipotesi di unico socio della compagine sociale-, non si è attenuta ai principi di diritto enunciati da questa Corte.
Il motivo deve essere in conclusione accolto e la sentenza va cassata, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di II grado del Lazio, che in diversa composizione dovrà riesaminare l’appello erariale , tenendo conto dei principi di diritto enunciati, oltre che provvedere alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
RGN 15507/2018 Consigliere rel. NOME La Corte accoglie il terzo motivo, rigetta il primo ed il secondo. Cassa la sentenza e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di II grado del Lazio, cui
demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il giorno 26 giugno 2025