Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 23987 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 23987 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 27/08/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 13730-2017 R.G., proposto da:
COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOMERicorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE, c.f. 06363391001, in persona del Direttore p.t., domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende –
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 6633/32/2016 pronunciata dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 12 dicembre 2016; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio l’11 marzo 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Frode carosello -Società -Traslazione delle obbligazioni fiscali su soggetto terzo -Condizioni
Dalla sentenza impugnata si evince che l’Agenzia delle entrate notificò al ricorrente gli avvisi d’accertamento, con i quali, per gli anni d’imposta 2007 e 2008 e per quanto qui di interesse, gli furono contestate condotte finalizzate al l’ideazione e alla realizzazione di operazioni soggettivamente inesistenti inserite in una frode carosello, con conseguente pretesa di versamento d ell’Iva evasa , oltre interessi e sanzioni.
In particolare, a seguito di indagini condotte dalla GdF, furono rilevate operazioni di cessione comunitaria di merce (bevande) tra le società RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, operazioni nelle quali la prima importava merce da operatori intracomunitari, con autoassolvimento fittizio dell’iva sui prodotti, e le altre due partecipavano alla frode carosello. Il COGNOME, formalmente legato alla RAGIONE_SOCIALE da un contratto di associazione in partecipazione, fu identificato come l’am ministratore di fatto della Nord Est RAGIONE_SOCIALE e riconosciuto quale soggetto fiscalmente responsabile degli illeciti ai fini Iva.
Seguì il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Mantova nella sentenza n. 119/02/2013, che rigettò il ricorso. L’appello fu respinto dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con la sentenza n. 6633/32/2016. Il giudice regionale, dopo aver illustrato i termini della controversia, ha ritenuto che la RAGIONE_SOCIALE fosse una ‘società fantasma’, costituita con lo scopo di organizzare una frode ai danni dello Stato e ha stabilito che il Nopetti, unitamente ad altri due partecipanti alle condotte frodatorie (NOME COGNOME e COGNOME COGNOME, non coinvolti in questo giudizio), fosse l’ideatore e il gestore della frode. Ha pertanto respinto le difese del contribuente, condannandolo alle spese.
Il ricorrente ha censurato con quattro motivi la sentenza, della quale ha chiesto la cassazione, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Nell’adunanza camerale dell’11 marzo 2025 la causa è stata trattata e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la ‘violazione degli art. 2697 e 263 9 c.c. e dell’art. 21, comma 7, DPR n. 633/1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.’, per avere la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia dichiarato, senza alcuna prova o indizio grave, preciso e
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concordante a carico di NOME COGNOME l’essere stato l’amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE e per l’effetto tenuto a pagare I’IVA a lui richiesta negli avvisi di accertamento ora impugnati, oltre sanzioni, pur nell’assenza dei presupposti di fatto necessari;
con il secondo motivo si duole della violazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 21, comma 7, DPR n. 633/1972, e dell’art. 8 Legge 10.03.2000 n. 74, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché il giudice regionale, senza alcuna prova o indizio, avrebbe dichiarato che il ricorrente aveva emesso fatture soggettivamente inesistenti, ed avrebbe identificato nella sua persona l’ideatore e gestore della frode fiscale contestata alle varie società in essa ritenute coinvolte.
I due motivi possono essere trattati congiuntamente, perché tra loro connessi.
Deve intanto respingersi, con riferimento al primo di essi, l’eccepita novità della difesa del contribuente sollevata dall’Agenzia delle entrate -, poiché proprio dalla negazione, sin dall’inizio della controversia, della propria soggettività passiva rispe tto all’avviso d’accertamento, da indirizzarsi esclusivamente, secondo la prospettazione difensiva, nei confronti della società, si desume come il COGNOME abbia sempre affermato la propria estraneità ai fatti, contestando dunque la qualità addebitatagli di amministratore di fatto.
Nel merito i due motivi sono infondati, quando non inammissibili.
Il ricorrente sostiene che non vi fossero prove a suo carico per affermarne il ruolo di amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE unitamente agli altri soggetti coinvolti nelle indagini e verifiche (estranei al presente giudizio); di modo che, lamenta, la decisione presa con la sentenza impugnata non è giustificata da un processo logico che assuma elementi di fatto accertati nelle norme di diritto applicate, ma si basa su un sillogismo irrazionale.
In realtà la sentenza contiene passaggi significativi ed esaustivi in ordine al ruolo ed alle responsabilità di COGNOME, che esprimono a pieno il processo logico della mancanza del quale si duole il ricorrente. Da essa, nella parte dedicata al vaglio dei motivi d’appello, è dato evincere che il giudice, ‘in base a quanto specificamente ricostruito dalla Guardia di Finanza’ (a pag. 6 del ricorso, peraltro, si dà conto che il p.v.c. del 28/02/2011, a pag. 14, oltre a
descrivere i rapporti tra COGNOME, COGNOME e COGNOME, riferiva anche degli accertamenti, basati sulla documentazione della RAGIONE_SOCIALE, sul ruolo di COGNOME con riferimento alla RAGIONE_SOCIALE, posti poi a fondamento degli avvisi), ha condiviso la statuizione di primo grado, la quale si era ampiamente soffermata sulla predetta società, ritenuta una societàfantasma per essere priva di struttura organizzativa e di personale dipendente, per avere trasferito in un biennio più volte la sede sociale in Italia, e infine in Bulgaria, e in quest’ultimo paese senza iscriversi nel registro del commercio, per risultare inadeguati i locali adibiti all’attività commerciale formalmente espletata, per non aver mai versato l’Iva, per non aver mai conseguito margini di guadagno dalle operazioni di acquisto e vendita di beni alla RAGIONE_SOCIALE, che poi risultavano a loro volta ceduti alla RAGIONE_SOCIALE. Peraltro, ha evidenziato che quest’ultima società, con la quale il COGNOME aveva pur avuto rapporti per un contratto di associazione in partecipazione, fosse in concreto la società al centro delle operazioni illegali contestate, giustappunto in virtù del ruolo assunto proprio dal ricorrente, coerentemente indicato come gestore e ideatore della frode; desumendosi dalle circostanze illustrate la sua capacità decisionale, a maggior ragione nei riguardi di una società fittizia, perché costituita al solo fine di realizzare la frode, come la RAGIONE_SOCIALE
Ne discende pertanto che nessuna violazione delle regole di governo delle prove possa essere contestata al giudice d’appello, che, al contrario, ha sceverato gli elementi essenziali che ha ritenuto di apprezzare, secondo il suo insindacabile potere di accertamento del merito dei fatti. In altri termini sono proprio quei dati riportati nelle pagg. 2 e 3 della sentenza, ricostruiti sulla base delle indagini della Guardia di finanza, a costituire il riscontro della prospettazione erariale, che la Commissione regionale, a conferma della decisione di primo grado, ha deciso di condividere (sulla vicendevole integrazione delle due sentenze dei giudici di merito che abbiano deciso in modo conforme vedi Cass. 19/06/2019, n. 16504).
Diversamente, ove con le sue censure la difesa del contribuente abbia inteso contestare in fatto le conclusioni cui è pervenuta la Commissione regionale, si tratterebbe di motivi inammissibili sotto un duplice aspetto. Perché solleciterebbero in sede di legittimità un inammissibile riesame del merito della controversia, e, ancor più, perché i motivi violerebbero i limiti di
ricorribilità avverso la sentenza dinanzi alla Corte di cassazione, ex art. 360, quarto comma, c.p.c., per essere la pronuncia d’appello conforme a quella di primo grado, senza che il ricorrente abbia dimostrato che le ragioni di fatto, su cui si fondano la pronuncia di primo grado e quella di appello, sono diverse (cfr., tra varie, vedi Cass. 29/01/2024, n. 2930); anzi, al contrario, il ricorrente sottolinea la piena corrispondenza del ragionamento speso in primo e in secondo grado (v. pag. 14 del ricorso: ‘ In realtà non vi è alcuna prova o serio indizio che sia stato richiamato dalla Commissione Tributaria di primo grado e, da ultimo, dalla Commissione Tributaria Regionale ‘) .
Di contro, così come individuato il ruolo del COGNOME, a questi doveva ricondursi la pretesa fiscale. A tal fine, tenendo conto dei principi enunciati in materia di sanzioni relative al rapporto tributario, la giurisprudenza di legittimità ha intanto ritenuto che esse siano a carico della società dotata di personalità giuridica, ex art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, anche quando gestita da un amministratore di fatto, salvo che nelle ipotesi di società “cartiera”, atteso che, in tal caso, si tratterebbe di una mera ‘fictio’ , utilizzata quale schermo per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari, commessi a personale vantaggio dell’amministratore di fatto, con il conseguente venir meno della stessa ratio che giustifica l’applicazione del suddetto art. 7, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, dovendosi pertanto ripristinare la regola generale, secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito (Cass., 20 ottobre 2021, n. 29038; 22 novembre 2021, n. 36003).
Questa Corte ha peraltro avvertito che, nell’interposizione del gestore “uti dominus” alla società di capitali interposta, non ha rilievo il rapporto fiscale di quest’ultima, ma quello che fa capo direttamente all’interponente, sicché la fattispecie esula dal disposto di cui all’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 e le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite all’attività del gestore uti dominus (Cass., 25 luglio 2022, n. 23231). L’irrogazione delle sanzioni, difatti, trova il suo diretto riferimento nella condotta dell’interponente, il quale è sanzionato in proprio, in relazione all’avvenuta traslazione dei tributi dell’ente collettivo, con cons eguente imputazione anche delle condotte evasive. L’attenzione speculare alla compagine sociale ha consentito pertanto di affermare che, perché difetti la ratio dell’art. 7, d.l. n.
269 del 2003, che sanziona la sola società dotata di personalità giuridica, e
sia ripristinata la regola secondo cui la sanzione pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito, è necessario acquisire riscontri probatori, anche presuntivi, valevoli ad escludere la vitalità della società medesima, quand’anche gestita da un amministratore di fatto (Cass., 23 gennaio 2023, n. 1946). La vitalità, infatti si contrappone alla sua gestione e direzione da parte di un soggetto terzo uti dominus .
A maggior ragione tanto vale in riferimento alle imposte, atteso che si tratterebbe, come nel caso di specie, di una società paravento, dietro la quale si cela, secondo la prospettazione erariale e secondo quanto riconosciuto dal giudice d’appello, il Nope tti, i cui interessi esclusivi sarebbero coperti dalla società.
Ed infatti quanto all’imposizione sul reddito, la richiamata giurisprudenza ha chiarito che, ferma l’effettività della società di capitali -al di là del proposito dei soci e ideatori di realizzare con essa un mero schermo rispetto ad eventuali attività illecite -, il fatto costitutivo dell’imposizione tributaria è rappresentato dal possesso effettivo di un reddito «per interposta persona», secondo lo schema disciplinato dall’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600/73, ossia di soggetto che disponga delle risorse del soggetto interposto (Cass., 23231/2022 cit.). La traslazione del reddito d’impresa dall’interposto (società) all’interponente ai sensi dell’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 è idonea ad assicurare la ripresa a tassazione nei confronti di quest’ultimo per le imposte dovute. L’oggetto della p rova incombente sull’Amministrazione finanziaria, peraltro, non attiene agli elementi costitutivi dell’interposizione, ma solo come precisa la norma -al riscontro del dato che «egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona»: la funzione della norma, dunque, è quella di evitare che il contribuente (effettivo possessore) si sottragga al prelievo occultando all’Amministrazione finanziaria la propria identità di contribuente, ricorrendo a interposizioni negoziali tali da attribuire a terzi il possesso del reddito. Ciò significa che la posizione dell’interponente non è quella di mero gestore -amministratore dell’ente collettivo, ma di soggetto che disponga uti dominus delle risorse del soggetto interposto. A fronte di tale prova, che può essere fornita anche solo in via presuntiva, incomberà poi al contribuente fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata
percezione dei redditi del soggetto interposto (Cass. n. 29228 del 20/10/2021; Cass. n. 5276 del 17/02/2022).
A ben vedere, allora, l ‘ esegesi della disciplina positiva, pur originariamente focalizzata sulla verifica della effettiva operatività della società, della sua vitalità, dietro la quale può nascondersi un amministratore di fatto, ha opportunamente perso interesse a ‘classificare’ il ruolo, ossia la funzione del soggetto operante ‘dietro’ la medesima società . Non è cioè utile comprendere se ci si trovi o meno al cospetto di un amministratore formale o un amministratore di fatto. Quello che invece deve emergere è che il soggetto terzo si comporti uti dominus , ossia come colui che ne gestisce e dirige le risorse -autonomamente dalla società e anche, se del caso, indipendentemente dagli interessi di questa-, ideando e ponendo in essere le condotte (illecite) dalle quali e per le quali possa insorgere un credito erariale. In tali ipotesi assume rilevanza non il rapporto fiscale della società, ma quello che fa capo direttamente all’interponente, che dunque è l’ effettivo possessore del reddito d’impresa ed al quale dunque l’amministrazione finanziaria ha diritto di chiedere conto.
Il percorso interpretativo converge sui risultati esegetici cui questa stessa Corte perviene, sia pure su altro fronte, in tema di società di capitali e ‘socio tiranno’, laddove si è affermato che la nozione di abuso della personalità giuridica assume rilievo al fine di contrastare lo schermo dietro cui si cela il “socio tiranno”, in modo tale da accollargli la responsabilità illimitata per le obbligazioni contratte dalla società di capitali, da lui diretta e controllata, consentendo l’aggressione del suo patrimonio personale da parte dei creditori della società (cfr. Cass., 22 giugno 2022, n. 20181). Conclusioni per le quali è appena il caso di evidenziare che l’utilizzo strumentale della società non pone in dubbio l’esistenza della società medesima, nel rispetto dunque dei principi enucleabili dall’art. 2332 c.c., con esclusione di ogni ipotesi di simulazione assoluta dell’atto costitutivo di una società di capitali, che sia iscritta nel registro delle imprese, e per la quale non è configurabile alcuna ipotesi simulatoria in ragione della natura stessa del contratto sociale.
Sulla base di quanto testé chiarito, con riguardo poi all’Iva , che rileva nell’odierno giudizio, trova altrettanta coerenza l’opinione secondo cui , nell’esecuzione delle prestazioni di servizi tra il soggetto gestore uti dominus e la società, si instaura, quando il primo agisca in nome proprio, sia pure per
conto della seconda, un rapporto riconducibile al mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore e il mandante è la società. Ciò si verifica, in particolare, quando l’imprenditore, che gestisca delle società cartiere, disponga in autonomia in merito alle attività e alle transazioni e decida, per conto della società, sulla realizzazione delle operazioni commerciali, individuando, ad esempio, i venditori (esteri) e i successivi acquirenti (nazionali). Orbene, l’art. 6, par. 4, della Sesta diret tiva, corrispondente all’art. 3, terzo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, stabilisce che, qualora un soggetto passivo partecipi, in nome proprio ma per conto terzi, ad una prestazione di servizi, si deve ritenere che egli stesso abbia ricevuto o fornito i detti servizi a titolo personale. Si realizza, in altri termini, la finzione giuridica di due prestazioni di servizi identiche, fornite consecutivamente sull’assunto che l’operatore che partecipa alla prestazione di servizi abbia in un primo tempo ricevuto i servizi in questione da prestatori specializzati prima di fornire, in un secondo tempo, gli stessi servizi all’operatore per conto del quale agisce (v., tra le varie, Corte di giustizia, 4 maggio 2017, in causa C274/15, Commissione c/ Lussemburgo , punto 86; nella giurisprudenza interna, v., ex multis , Cass., 23 novembre 2018, n. 30360; 29 settembre 2020, n. 20591): il mandatario, quindi, assume e acquista in nome proprio, rispettivamente, gli obblighi e i diritti derivanti dal compimento dell’affare trattato per conto del mandante.
Ne deriva che se la prestazione di servizi a cui l’operatore partecipa è soggetta all’Iva, pure il rapporto giuridico tra costui e la parte per conto della quale agisce è soggetto all’Iva (v. Corte di giustizia, in causa C -274/15 cit., punto 87). L’irregol arità delle operazioni riferite al mandante, infine, se, da un lato, non esime il mandatario senza rappresentanza dall’obbligo di provvedere alla fatturazione posto che quale soggetto passivo, nel rapporto con il mandante, è tenuto al vaglio critico dell’o perazione (e di verificare, quindi, il regime fiscale e di fatturazione), dall’altro comporta, ove vengano in rilievo -come nella specie -operazioni soggettivamente inesistenti inserite in una frode carosello, che ciò refluisce sulla sua posizione, neppure essendo in dubbio la consapevolezza della frode.
Deve in definitiva affermarsi il principio secondo cui, in tema di imposte dirette e di imposta sul valore aggiunto, per la traslazione dell’imponibile dall a società al soggetto che l’ ha gestita “uti
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dominus”, idonea ad assicurare la ripresa a tassazione nei confronti di quest’ultimo delle imposte dovute, non è decisivo ‘classificare’ la funzione del soggetto operante ‘dietro’ la medesima società, e cioè comprendere se ci si trovi o meno al cospetto di un amministratore formale o un amministratore di fatto, perché quello che deve emergere è che il soggetto terzo si comporti uti dominus , ossia come colui che ne gestisce e dirige le risorse -autonomamente dalla società e anche, se del caso, indipendentemente dagli interessi di questa-, ideando e ponendo in essere le condotte (illecite) dalle quali e per le quali possa insorgere un credito erariale .
Chiariti i principi in materia, la pronuncia impugnata si è attenuta ad essi, poiché il giudice regionale -che pur ha richiamato il supposto ruolo di amministratore di fatto del COGNOME-, rispetto alle operazioni contestate dall’erario , ha soprattutto valorizzato la sua funzione di ‘ideatore e gestore’ della frode fiscale, così evidenziando il ruolo in concreto tenuto nel complesso collegamento delle tre società, nonché quello svolto uti dominus in ragione dei propri interessi.
In conclusione, i due motivi vanno rigettati.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 7, comma 1, della l. n. 212 del 2000, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché il giudice regionale non avrebbe riconosciuto l’illegittimità degli avvisi di accertamento, nei quali ci si riportava a verifiche nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE, neppure richiamati per relationem , ed a molteplici processi verbali di constatazione (PVC) effettuati dalla Guardia di Finanza, neppure prodotti nel corso del presente giudizio, richiamando numerose fatture, mai portate a conoscenza del ricorrente.
Il motivo è infondato, quanto alla doglianza relativa alla mancata allegazione di fatture che il ricorrente assume mai conosciute, né mai portate a sua a conoscenza, perché si tratta di questione irrilevante.
È difatti utile rammentare che, in tema di accertamento, l’obbligo di motivazione degli atti impositivi, come disciplinato dall’art. 7 della l. n. 212 del 2000 e dall’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, notificati all’amministratore di fatto, è soddisfatto mediante rinvio per relationem al processo verbale di constatazione riguardante la maggiore materia imponibile
della società, ancorché solo nei confronti di quest’ultima rilasciato, giacché egli, ingerendosi nell’amministrazione ed esercitando i poteri propri inerenti alla gestione societaria, pur in difetto di una formale investitura, ha l’obbligo, al pari dell’amministratore di diritto, di conoscere l’andamento dell’intera attività sociale; ed infatti, attesi gli incontestati poteri gestori di fatto del contribuente, si doveva ritenere che lo stesso fosse a conoscenza di ogni vicenda riguardante la società, ovvero che avesse comunque la possibilità di conoscerla (Cass., 6 marzo 2025, n. 5930). Il che a maggior ragione vale in un caso, come quello in esame, in cui si discute dell’ideatore di una frode commessa per mezzo di società schermo, a fronte, perdipiù, della statuizione contenuta in sentenza che i rilievi contenuti nei p.v.c. erano ‘comunque riportati negli avvisi’ mediante rinvio per relationem (a pag. 8 del ricorso, d’altronde, il ricorrente riferisce che agli avvisi di accertamento impugnati era allegato il suddetto p.v.c. del 28/02/2011).
Con il quarto motivo si lamenta la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. Il giudice regionale avrebbe omesso la motivazione o avrebbe deciso con motivazione apparente, in ordine alle sue responsabilità e al suo coinvolgimento nelle violazioni contestate dall’Amministrazione finanziaria. Esso va parimenti rigettato.
Questa Corte ha chiarito che sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sulla correttezza del suo ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1 marzo 2022, n. 6758). In sede di gravame, non è viziata la decisione quando motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle
esaminate nella pronuncia impugnata. Essa va invece cassata quando il giudice si sia limitato ad aderire alla pronuncia di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19 luglio 2016, n. 14786; 7 aprile 2017, n. 9105).
La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 1 marzo 2022, n. 6758; 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921).
È altrettanto apparente ogni qual volta evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819), oppure quando carente nel giudizio di fatto, così che la motivazione sia basata su un giudizio generale e astratto (Cass., 15 febbraio 2024, n. 4166).
Nel caso di specie, per quanto già chiarito in occasione dell’esame dei primi due motivi, la sentenza risulta ampiamente esaustiva, emergendo con chiarezza la ricostruzione della vicenda all’esame del giudice d’appello e degli elementi, ritenuti significativi, al fine di identificare le responsabilità addebitate al COGNOME ed in particolare del ruolo chiave ad esso riconosciuto nella condotta tradottasi nella realizzazione di una frode carosello, il congegno della quale prevede appunto che il fatturante è, quanto meno formalmente, il fornitore effettivo, ma l’operazione si iscrive – per quanto riguarda quel trasferimento o per quanto riguarda i passaggi precedenti -in una combinazione negoziale fraudolenta di cui l’acquirente era o partecipe o consapevole e che contempla l’avvalimento in vario modo da parte dei cessionari successivi del non versamento dell’IVA da parte di un cedente (da ultimo, in termini, Cass. 20 agosto 2025, nn. 23622 e 23624).
RGN 13730/2017 Consigliere rel. COGNOME In particolare, risulta chiaramente esplicato il ruolo del ricorrente, il nominativo del quale, ‘come accertato’ in esito alle indagini della Guardia di finanza , ‘veniva rinvenuto…fra i nominativi degli operatori’, laddove in
sentenza si legge che ‘il destinatario finale della merce RAGIONE_SOCIALE poneva in essere un’attività del tutto antieconomica, in quanto versava corrispettivi di ammontare superiore rispetto a quelli che avrebbe potuto concordare, negoziando direttame nte con l’operatore intracomunitario’.
Emerge cioè con evidenza che la RAGIONE_SOCIALE, la quale ‘ non ha mai versato l’Iva’ e ‘ non conseguiva margini di guadagno dalle operazioni di acquisto e successiva vendita di merce alla RAGIONE_SOCIALE, la quale a sua volta cedeva la merce alla RAGIONE_SOCIALE‘, fosse per il giudice una società schermo, strumentale alle condotte della Italy import e dunque, per entrambe, del Nopetti, effettivo dominus dei meccanismi frodatori messi in atto: si ricava difatti dalla sentenza, in definitiva, che RAGIONE_SOCIALE Commerciale era società fittizia, mentre chi negoziava era RAGIONE_SOCIALE ‘ che aveva scambi sulla base dei legami e dell’attività svolta da COGNOME‘.
Il COGNOME, dunque, quale ideatore e gestore della frode, che avveniva sulla base dei suoi legami e delle sue attività, risponde non già alla figura di -merogestore dell’ente, ma di dominus delle risorse di esso, utilizzate ai propri fini, secondo i principi dinanzi indicati.
Il ricorso, in definitiva, va rigettato. Le spese seguono la soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura di € 13.000,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, l’11 marzo 2025 .