Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 9100 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 9100 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/04/2025
AVVISO DI ACCERTAMENTO -IRPEF 2008
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 1345/2018 R.G. proposto da: COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale allegata all’atto di costituzione di nuovo difensore in atti,
-ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore protempore, domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa ex lege ,
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 4306/23/2017, depositata il 15 maggio 2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17 gennaio 2025 dal consigliere relatore dott. NOME COGNOME
dato atto che il Pubblico Ministero, in persona del sost. proc. gen. dott. NOME COGNOME ha chiesto il rigetto del ricorso;
FATTI DI CAUSA
l’Agenzia delle Entrate Direzione provinciale II di Napoli, in data 6 dicembre 2012, notificava a COGNOME COGNOME avviso di accertamento n. TF501AM06450/2012, con il quale veniva richiesto il pagamento della somma complessiva di € 997.736,00 per maggiori imposte e sanzioni per imposta sostitutiva per redditi non dichiarati per l’anno d’imposta 2008.
L’avviso di accertamento in questione traeva origine da una segnalazione del l’Ufficio Centrale Antifrode della Direzione Centrale Accertamento, con cui si denunciava la sottrazione al fisco italiano di redditi imponibili; in particolare, per l’anno 2008, era emerso che dal 22 giugno 2007 le partecipazioni delle società con sede in Italia facenti capo al c.d. RAGIONE_SOCIALE sarebbero confluite dalla società lussemburghese RAGIONE_SOCIALE nel trust inglese denominato King Trust attraverso la cessione delle stesse alla società RAGIONE_SOCIALE segregata nel suddetto trust. L’Ufficio quindi aveva accertato per detto anno redditi da capitale non dichiarati per € 1.838.399,00, soggetti ad imposizione sostitutiva, avendo ritenuto -sulla scorta dell’acquisizione di documentazione e delle dichiarazion i rese dall’avv. NOME COGNOME già legale del contribuente fino all’anno 2010 -che il trust in questione era meramente strumentale
ad una interposizione nel possesso dei beni e dei redditi, onde ottenere illeciti risparmi d’imposta .
Il contribuente impugnava l’ avviso di accertamento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli la quale, con sentenza n. 24740/40/2015, depositata il 9 novembre 2015, rigettava il ricorso, compensando le spese.
Interposto gravame dal contribuente, la Commissione Tributaria Regionale della Campania, con sentenza n. 4306/23/2017, pronunciata il 9 maggio 2017 e depositata in segreteria il 15 maggio 2017, rigettava l’appello, condannando l’appellante alla rifusione delle spese di lite.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione COGNOME COGNOME (ricorso notificato il 19 dicembre 2017).
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Con decreto del 3 ottobre 2024 è stata fissata per la discussione del ricorso l’udienza pubblica del 17 gennaio 2025.
All’udienza suddetta è comparso l’Avvocato dello Stato, in rappresentanza dell’Agenzia delle Entrate, che ha concluso come da verbale in atti.
E’ intervenuto il Pubblico Ministero, in persona del sost. proc. gen. dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso proposto dalla parte contribuente deve ritenersi inammissibile, sotto diversi profili.
Innanzitutto, deve essere rilevato che, pur premettendo, il ricorrente, che «la decisione della C.T.R. di Napoli non si sottrae a censure di illegittimità, sotto il profilo della
violazione di legge» (pag. 11 del ricorso), i relativi motivi di censura non vengono in alcun modo articolati e specificati, mancando del tutto la rubricazione degli stessi con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, secondo quanto previsto dall’art. 366, comma 1, num. 4), c.p.c.
La trattazione ‘in diritto’ del ricorso, infatti, da pag. 11 a pag. 44, non ha un vero e proprio carattere censorio nei confronti della sentenza impugnata, ma, attraverso una suddivisione in paragrafi (ciascuno dei quali ha un titolo indicativo della trattazione che si intende svolgere), ha un contenuto meramente riepilogativo e descrittivo delle vicende societarie del c.d. RAGIONE_SOCIALE e della costituzione del RAGIONE_SOCIALE; peraltro, le critiche svolte dal ricorrente si rivolgono essenzialmente all’Ammi nistrazione finanziaria, ed alle valutazioni da questa effettuate, mentre solo in alcuni limitati passaggi si fa riferimento alla decisione della C.T.R., con censure peraltro generiche, che non danno conto degli specifici passaggi motivazionali gravati.
A tal proposito, mette conto evidenziare che, per giurisprudenza costante di questa corte, «è inammissibile il ricorso per cassazione che, per le modalità della sua redazione e la sua stessa articolazione in un’inestricabile e confusa sequela e commistione di elementi di fatto e di diritto, in violazione degli elementari canoni di chiarezza e sinteticità posti a fondamento degli atti processuali, non permette di comprendere né l’andamento dei fatti processuali rilevanti, né il contenuto e l’illustrazione delle censure, né i dati e gli stralci degli atti processuali rilevanti ai fini della decisione. Al riguardo deve ribadirsi, infatti, che – anche prima dell’entrata
in vigore del d.lgs. 1° ottobre 2022, n. 149 – questa Corte ha affermato la cogenza del principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali. Tale principio deve essere qualificato come principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, e la sua inosservanza espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l’intelligibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità» (da ultimo, Cass. 30 agosto 2024, n. 23397).
Più in particolare, l’onere di specificità dei motivi impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, num. 3), a pena d’inammissibilità della domanda, di indicare le norme di legge di cui lamenta la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto rintracciabili nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. 12 luglio 2023, n. 19822).
Il rispetto del principio di specificità enunciato all’art. 366 comma 1 n. 4 c.p.c., inoltre, comporta che, per ogni motivo
di doglianza, devono essere precisamente indicate le ragioni per cui è proposto, nonché illustrati gli argomenti a sostegno della sentenza impugnata ed i motivi che, al contrario, sorreggono l’impugnazione (Cass. 8 agosto 2024, n. 22539)
I motivi d’impugnazione, infatti, devono essere rappresentati secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, con l’obbligo di indicare le ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, poiché per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. Ne deriva pertanto, in riferimento al ricorso per Cassazione, che tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366, comma 1, num. 4), c.p.c. (Cass. 28 agosto 2024, n. 23220).
Nel caso di specie manca qualsiasi riferimento specifico a norme di legge che si assumono violate dalla C.T.R., ma, nei primi tre paragrafi, vi è soltanto un lungo resoconto descrittivo sulla natura e sul ruolo della RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE e poi della società lussemburghese RAGIONE_SOCIALE questioni che, peraltro, non hanno una concreta rilevanza rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, che si incentra essenzialmente sulla natura fittizia e simulata del King Trust, e quindi sulla riferibilità del redditi del 2008 in capo al disponente COGNOME
Anche nei restanti paragrafi, non vi è una specifica articolazione dei vizi dai quali sarebbe affetta la sentenza impugnata, ma vi è la mera descrizione della natura e del contenuto del King Trust e della sua effettività (par. 4 e 5), nonché la contestazione della quantificazione del valore delle disponibilità finanziarie e dell’entità della pretesa sanzionatoria (par. 6 e 7), senza, tuttavia, una chiara ed evidente denuncia di una violazione di legge in cui sarebbe incorsa la C.T.R.
Ad ogni modo, volendo cercare di estrapolare, dalla diffusa trattazione contenuta nel ricorso, una qualche censura alla sentenza impugnata, la tesi di fondo del contribuente è che attraverso la creazione del King Trust non si era realizzato alcun fenomeno di interposizione soggettiva, in quanto il suddetto trust era effettivo e reale, ragion per cui non poteva trovare applicazione l’art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600/1973, applicabile solo alle interposizioni fittizie.
Anche tale censura appare, in parte qua , inammissibile, sotto un duplice profilo.
Innanzitutto, invero, il ricorrente censura la valutazione di fatto operata dalla C.T.R., in ordine alla natura simulata del trust, ed alla riconducibilità del controllo effettivo dei beni segregati in capo al Ferlaino. La natura fittizia del King Trust
è stata desunta dalle clausole dell’atto costitutivo e dalle dichiarazioni di tale avv. NOME COGNOME tali valutazioni sono state censurate dal ricorrente, ma sia l’interpretazione delle clausole contrattuali che la verifica dell’attendibilità della dichiarazione di un terzo rappresentano una tipica prerogativa del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità.
Peraltro, la C.T.R. indica vari elementi a supporto della tesi della natura simulata del King Trust, e cioè le stesse dichiarazioni del COGNOME, e le sue lettere con cui formula direttive al trustee : anche in tal caso, trattasi di valutazioni di merito operate dalla Corte regionale, insindacabili in questa sede.
In secondo luogo, è pacifico, per giurisprudenza costante di questa Corte, che la norma in questione imputa al contribuente i redditi formalmente intestati a un altro soggetto laddove, in base a presunzioni, egli ne risulti l’effettivo possessore, senza distinguere tra interposizione fittizia e reale (Cass. 27 aprile 2021, n. 11055; Cass. 22 giugno 2021, n. 17743). Si condivide, sotto questo profilo, quanto osservato da parte della dottrina, ove afferma che il legislatore tributario avrebbe codificato un principio di maggiore estensione rispetto alla dicotomia civilistica incentrata su titolarità effettiva/titolarità apparente, perché ciò che rileva, ai fini tributari, è il possesso del reddito formalmente attribuito a terzi (“effettivo possessore per interposta persona”), in luogo e in sostituzione del formale titolare dei redditi, fattispecie che si configura sia in caso di
coinvolgimento di soggetti diversi, sia in caso di coinvolgimento di un unico soggetto.
Trattandosi, pertanto, di possesso come situazione di fatto tale da comportare l’individuazione di un titolare effettivo del reddito complessivo diverso e divergente dal titolare formale (Cass. 19 ottobre 2018, n. 26414; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26057), esso appare coerente con il fatto che la prova è affidata anche a circostanze di carattere indiziario.
La pronuncia impugnata, quindi, in parte qua è coerente con l’orientamento giurisprudenziale consolidato in materia di interposizione soggettiva, ragion per cui il relativo ricorso è inammissibile ex art. 360bis , num. 1), c.p.c.
Da ciò deriva anche che, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso (par. 5), il soggetto tenuto ad adempiere agli obblighi di monitoraggio era proprio il COGNOME quale titolare effettivo dei redditi derivanti dalle partecipazioni detenute all’estero .
A tal proposito, il ricorrente sostiene (sempre al par. 5) che egli non avrebbe avuto l’obbligo di procedere alla segnalazione nel quadro RW delle attività finanziarie all’estero, in quanto tale obbligo sarebbe divenuto vigente solo in seguito alla modifica dell’art. 4, comma 1, del d.l. n. 167/1990 (conv. dalla l. n. 227/1990), operata dall’art. 9, comma 1, lett. c ), della l. 6 agosto 2013, n. 97, che ha esteso l’obbligo di dichiarazione in capo ai soggetti residenti in Italia che detengono investimenti e/o attività finanziarie all’estero anche a coloro che, pur non essendo possessori diretti di tali attività e/o investimenti, ne siano i ‘titolari effettivi’,
manifestando una reale capacità contributiva in ordine ai beni posseduti per interposta persona.
Sul punto, va rilevato che tale modifica appare, nella specie, irrilevante. Infatti essa è consistita in un’integrazione della norma, estendendo l’obbligo della dichiarazione, già gravante su coloro che detengono investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, in capo a coloro che, «pur non essendo possessori diretti degli investimenti esteri e delle attività estere di natura finanziaria, siano titolari effettivi dell’investimento secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 2, lettera u ), e dall’allegato tecnico del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231», e, secondo tale lettera u ), titolare effettivo è «la persona fisica per conto della quale è realizzata un’operazione o un’attività, ovvero, nel caso di entit à giuridica, la persona o le persone fisiche che, in ultima istanza, possiedono o controllano tale entità, ovvero ne risultano beneficiari secondo i criteri di cui all’allegato tecnico al presente decreto».
Nella fattispecie in esame, tuttavia, il COGNOME è stato ritenuto detentore diretto di attività o investimenti all’estero, sulla base della accertata natura fittizia del King Trust, ritenuto mero schermo di beni ed attività direttamente riconducibili al ricorrente; pertanto, questi ne rispondeva già in base al testo originario dell’art. 4, comma 1, d.l. n. 167/1990, conv. in l. n. 227/1990.
4. Nel par. 6 della trattazione del ricorrente viene contestata la quantificazione, operata dall’Amministrazione finanziaria,
delle disponibilità finanziarie da sottoporre al prelievo presuntivo previsto dall’art. 6 del d.l. n. 167/1990.
In particolare, il contribuente censura la mancata attivazione del contraddittorio preventivo con l’Amministrazione finanziaria, affinché egli potesse fornire la prova contraria della presunzione ivi prevista.
Anche tale motivo è da considerare inammissibile.
Innanzitutto, lo stesso ricorrente riconosce che il contraddittorio preventivo vi era stato; in secondo luogo, il ricorrente deduce la natura non reddituale delle somme percepite dal Ferlaino, rilevando che si trattava di rimborso di precedenti finanziamenti alla società RAGIONE_SOCIALE: anche in questo caso, tuttavia, si contesta un accertamento di merito operato dai giudici di merito, come tale non censurabile in questa sede.
Infine, con il par. 7 del ricorso, il COGNOME censura la misura delle sanzioni applicate.
Anche tale questione appare inammissibile, mancando completamente una disamina puntuale dei parametri di “non proporzionalità” in concreto della sanzione irrogata, anche in considerazione del fatto che l’Ufficio, nell’applicare la sanzione, si è già adeguato al dettato normativo di cui all’art. 5 d.l. n. 167/1990, conv. dalla l. n. 227/1990, come modificato dall’art. 9 della legge n. 97/2013.
Il ricorso deve, quindi, nel suo complesso, essere dichiarato inammissibile.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza del ricorrente, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.
Ricorrono i presupposti processuali per dichiarare il ricorrente tenuto al pagamento di una somma di importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna COGNOME COGNOME alla rifusione, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del presente giudizio, che si liquidano in € 7.800,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per dichiarare il ricorrente tenuto al pagamento di una somma di importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2025.