Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 9095 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 9095 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/04/2025
Oggetto: Avviso di accertamento IRPEF 2007 -Redditi da partecipazioni societarie – Trust Inefficacia -Ricorso per cassazione – Inammissibilità
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 1314/2018 R.G. proposto da COGNOME rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale allegata alla comparsa di costituzione di nuovo difensore, da ll’ Avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore in Roma, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , con sede in Roma, INDIRIZZO C/D, domiciliata in Roma alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa ope legis ;
–
contro
ricorrente
–
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 4304/23/2017, depositata in data 15 maggio 2017. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito per l’Agenzia delle entrate l’Avv. dello Stato NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME impugnava innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Napoli l’ avviso n. TF501AM06402/2012, con il qual e l’Agenzia delle entrate aveva accertato redditi da capitale non dichiarati per Euro 1.545.025,00, in relazione all’anno di imposta 2007, e determinato maggiore IRPEF dovuta per complessivi Euro 834.314,00 (comprese le sanzioni).
L’avviso traeva origine da una segnalazione dell’Ufficio Centrale Antifrode; in particolare, era emerso che dal 22 giugno 2007 le partecipazioni delle società facenti parte del gruppo d’imprese riconducibile al contribuente erano confluite nel trust ingles e ‘King Trust’ attraverso la cessione alla società di diritto elvetico RAGIONE_SOCIALE, segregata nel detto trust.
La creazione del trust veniva considerato dall’Ufficio un artificio strumentale ad una mera interposizione nel possesso di beni e redditi onde ottenere illeciti risparmi d’imposta , sulla scorta di una pluralità di elementi, in primo luogo la permanenza in capo al COGNOME dei poteri di gestione dei beni.
Il contribuente deduceva, invece, che la finalità del ‘King Trust’ fosse quella di salvare le imprese del gruppo dal fallimento e che, in ogni caso, l’avviso di accertamento impediva di fatto un investimento all’estero, in violazione dei principi comunitar i in tema di libera circolazione di capitali.
La CTP respingeva il ricorso evidenziando che risultavano riservati di fatto al ricorrente poteri gestionali e di disposizione dei beni, per cui la creazione del trust doveva considerarsi fittizia ed illecita, in quanto volta ad evadere il pagamento delle imposte al fisco italiano ; considerava, quindi, attratto il ‘King Trust’ alla residenza italiana ex art. 73, comma 3, t.u.i.r., sulla scorta di plurimi
elementi sospetti, ovvero: a) la parziale coincidenza tra beneficiari e disponente, considerato beneficiario esclusivo se ancora in vita alla scadenza del trust; b) la possibilità, in capo al contribuente, di modificare ad nutum l’identità, il numero e le quote dei beneficiari; c) la comunanza di interessi economici con la Tetide; d) la continuità del controllo di gestione dei beni conferiti, effettuato mediante lettere confidenziali; e) la durata limitata (5 anni) del trust.
2. Il contribuente proponeva gravame innanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania, ribadendo le difese esposte in primo grado; precisamente, sosteneva che il ricorso ad una fiduciaria italiana (RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE) per la costituzione della RAGIONE_SOCIALE (società di diritto lussemburghese) andava inquadrato in un’interposizione reale, non già fittizia, di soggetti, con conseguente inapplicabilità dell’art. 37, comma 3, t.u.i.r.. Inoltre, il trust era stato costituito al fine di assicurare una serenità economica ai cinque figli del contribuente e di evitare dissidi nel passaggio generazionale delle aziende di famiglia. Sotto altro profilo, l’appellante lamentava la distorta lettura, prima da parte dell’Ufficio, poi da parte della CTP, delle clausole dell’at to istitutivo del trust, che fissava in capo al trustee ampi poteri discrezionali ed individuava l’avvocato COGNOME come protector ; di qui, l’esclusione della natura di sham trust .
L’Agenzia delle entrate si costituiva contestando l’avverso dedotto. In particolare, sottolineava che lo stesso contribuente aveva dichiarato ai giudici svizzeri di essere l’unico beneficiario della Tetide ed aveva continuato a rivestire cariche sociali operative nelle società partecipate. Inoltre, il contribuente non aveva spiegato per quale motivo in luogo di costituire la Tetide (tra l’altro, priva di conto corrente bancario fino al 2009) non avesse segregato nel trust la Fesbo, né come mai il fax del 27 marzo 2009 con il quale era stato impartito alla T etide l’ordine di rinunciare parzialmente ai finanziamenti effettuati nei confronti della RAGIONE_SOCIALE fosse stato trasmesso da un’utenza sita nella sua abitazione. Evidenziava, infine, che i redditi prodotti dalla ‘RAGIONE_SOCIALE‘ non erano stati
dichiarati dal NOME né dai suoi cinque figli, asseriti beneficiari dello stesso.
La CTR confermava la decisione dei giudici di prossimità, condividendone il percorso argomentativo con particolare riferimento alla natura fittizia del trust, inferita dalla permanenza, in capo al contribuente, di poteri gestionali. Il giudice del gravame attribuiva rilievo preponderante all’elemento di cui alla lettera a) , ovvero la coincidenza tra disponente e beneficiario del trust, ed a quelli di cui alle lettere b) e d) . Confutava, quindi, le deduzioni censorie dell’appellante, sottolineando le ammissioni ‘sintomatiche’ del contribuente, in particolare circa le irregolarità formali riscontrate negli atti della Fesbo, circa l’esercizio di poteri gestionali (sebbene definiti, in termini generici, come limitati a livello di controllo e di indirizzo del trust) e, infine, circa l’esistenza, nell’atto istitutivo del trust, di una clausola che prevedeva che il trustee dovesse tener conto, ‘nei limiti del possibile’, dei desiderata del disponente manifestati per iscritto.
Avverso la decisione della Commissione tributaria regionale ha proposto ricorso per cassazione il contribuente, affidandosi a difese articolate in sette paragrafi (progressivamente numerati a pagina 11 del ricorso da 1 a 5 e poi con i numeri 7, che diventa 6 a pagina 34, e 8, che diventa 7 a pagina 39).
L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
Il Sostituto Procuratore Generale, nella persona del dr. NOME COGNOME ha depositato, in data 19-20/12/2024 memoria scritta con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
All’udienza pubblica del 17/01/2025 l’Avvocato dello Stato ha chiesto il rigetto del ricorso. Il Sostituto Procuratore Generale ha ribadito le conclusioni già rese con la memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso proposto dalla parte contribuente deve ritenersi inammissibile, sotto diversi profili.
2. Innanzitutto, deve essere rilevato che, pur premettendo, il ricorrente, che «la decisione della C.T.R. di Napoli non si sottrae a censure di illegittimità, sotto il profilo della violazione di legge» (pag. 11 del ricorso), i relativi motivi di censura non vengono in alcun modo articolati e specificati, mancando del tutto la rubricazione degli stessi con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, secondo quanto previsto dall’art. 366, comma 1, num. 4), cod. proc. civ..
La trattazione ‘in diritto’ del ricorso, infatti, da pag. 11 a pag. 43, non ha un vero e proprio carattere censorio nei confronti della sentenza impugnata, ma, attraverso una suddivisione in paragrafi (ciascuno dei quali ha un titolo indicativo della trattazione che si intende svolgere), ha un contenuto meramente riepilogativo e descrittivo delle vicende societarie del c.d. RAGIONE_SOCIALE e della costituzione del RAGIONE_SOCIALE; peraltro, le critiche svolte dal ricorrente si rivolgono essenzialmente all’Ammini strazione finanziaria, ed alle valutazioni da questa effettuate, mentre solo in alcuni limitati passaggi si fa riferimento alla decisione della C.T.R., con censure peraltro generiche, che non danno conto degli specifici passaggi motivazionali gravati.
A tal proposito, mette conto evidenziare che, per giurisprudenza costante di questa Corte, «è inammissibile il ricorso per cassazione che, per le modalità della sua redazione e la sua stessa articolazione in un’inestricabile e confusa sequela e commistione di elementi di fatto e di diritto, in violazione degli elementari canoni di chiarezza e sinteticità posti a fondamento degli atti processuali, non permette di comprendere né l’andamento dei fatti processuali rilevanti, né il contenuto e l’illustrazione delle censure, né i dati e gli stralci degli atti processuali rilevanti ai fini della decisione. Al riguardo deve ribadirsi, infatti che – anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 1° ottobre 2022, n. 149 – questa Corte ha affermato la cogenza del principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali. Tale
principio deve essere qualificato come principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, e la sua inosservanza espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l’intelligibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità» (da ultimo, Cass. 30/08/2024, n. 23397).
Più in particolare, l’onere di specificità dei motivi impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., a pena d’inammissibilità della domanda, di indicare le norme di legge di cui lamenta la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto rintracciabili nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. 12/07/2023, n. 19822).
Il rispetto del principio di specificità enunciato all’art. 366 comma 1 n. 4 cod. proc. civ., inoltre, comporta che, per ogni motivo di doglianza, devono essere precisamente indicate le ragioni per cui è proposto, nonché illustrati gli argomenti a sostegno della sentenza impugnata ed i motivi che, al contrario, sorreggono l’impugnazione (Cass. 08/08/2024, n. 22539).
I motivi d’impugnazione, infatti, devono essere rappresentati secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, con l’obbligo di indicare le ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la
conseguenza che, poiché per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. Ne deriva pertanto, in riferimento al ricorso per Cassazione, che tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. (Cass. 28/08/2024, n. 23220).
Nel caso di specie manca qualsiasi riferimento specifico a norme di legge che si assumono violate dalla C.T.R., ma, nei primi tre paragrafi, vi è soltanto un lungo resoconto descrittivo sulla natura e sul ruolo della RAGIONE_SOCIALE e poi della società lussemburghese RAGIONE_SOCIALE questioni che, peraltro, non hanno una concreta rilevanza rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, che si incentra essenzialmente sulla natura fittizia e simulata del King Trust, e quindi sulla riferibilità dei redditi del 2007 in capo al disponente NOMECOGNOME
Anche nei restanti paragrafi, non vi è una specifica articolazione dei vizi dai quali sarebbe affetta la sentenza impugnata, ma vi è la mera descrizione della natura e del contenuto del King Trust e della sua effettività (par. 4 e 5), nonché la contestazione della quantificazione del valore delle disponibilità finanziarie e dell’entità della pretesa sanzionatoria (par. 6 e 7), senza, tuttavia, una chiara ed evidente denuncia di una violazione di legge in cui sarebbe incorsa la C.T.R.
3. Ad ogni modo, volendo cercare di estrapolare dalla diffusa trattazione contenuta nel ricorso una qualche censura alla sentenza impugnata, la tesi di fondo del contribuente è che attraverso la creazione del King Trust non si era realizzato alcun fenomeno di interposizione soggettiva, in quanto il suddetto trust era effettivo e reale, ragion per cui non poteva trovare applicazione l’art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600/1973, applicabile solo alle interposizioni fittizie.
Anche tale censura appare, in parte qua , inammissibile, sotto un duplice profilo.
Innanzitutto, invero, il ricorrente censura la valutazione di fatto operata dalla C.T.R., in ordine alla natura simulata del trust, ed alla riconducibilità del controllo effettivo dei beni segregati in capo al Ferlaino. La natura fittizia del King Trust è stata desunta dalle clausole dell’atto costitutivo e dalle dichiarazioni di tale avv. NOME COGNOME: tali valutazioni sono state censurate dal ricorrente, ma sia l’interpretazione delle clausole contrattuali che la verifica dell’attendibilità della dichiaraz ione di un terzo rappresentano una tipica prerogativa del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità.
Peraltro, la C.T.R. indica vari elementi a supporto della tesi della natura simulata del King Trust, e cioè le stesse dichiarazioni del COGNOME, e le sue lettere con cui formula direttive al trustee : anche in tal caso, trattasi di valutazioni di merito operate dalla Corte regionale, insindacabili in questa sede.
In secondo luogo, è pacifico, per giurisprudenza costante di questa Corte, che la norma in questione imputa al contribuente i redditi formalmente intestati a un altro soggetto laddove, in base a presunzioni, egli ne risulti l’effettivo possessore, senza distinguere tra interposizione fittizia e reale (Cass. 27/04/2021, n. 11055; Cass. 22/06/2021, n. 17743). Si condivide, sotto questo profilo, quanto osservato da parte della dottrina, ove afferma che il legislatore tributario avrebbe codificato un principio di maggiore
estensione rispetto alla dicotomia civilistica incentrata su titolarità effettiva – titolarità apparente, perché ciò che rileva, ai fini tributari, è il possesso del reddito formalmente attribuito a terzi (“effettivo possessore per interposta persona”), in luogo e in sostituzione del formale titolare dei redditi, fattispecie che si configura sia in caso di coinvolgimento di soggetti diversi, sia in caso di coinvolgimento di un unico soggetto.
Trattandosi, pertanto, di possesso come situazione di fatto tale da comportare l’individuazione di un titolare effettivo del reddito complessivo diverso e divergente dal titolare formale (Cass. 19/10/2018, n. 26414; Cass. 30/12/2015, n. 26057), esso appare coerente con il fatto che la prova è affidata anche a circostanze di carattere indiziario.
La pronuncia impugnata, quindi, in parte qua è coerente con l’orientamento giurisprudenziale consolidato in materia di interposizione soggettiva, ragion per cui il relativo ricorso è inammissibile ex art. 360bis , n. 1, cod. proc. civ..
Da ciò deriva anche che, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso (par. 5), il soggetto tenuto ad adempiere agli obblighi di monitoraggio era proprio il COGNOME quale titolare effettivo dei redditi derivanti dalle partecipazioni detenute all’estero.
A tal proposito, il ricorrente sostiene (sempre al par. 5) che egli non avrebbe avuto l’obbligo di procedere alla segnalazione nel quadro RW delle attività finanziarie all’estero, in quanto tale obbligo sarebbe divenuto vigente solo in seguito alla modifica dell’art. 4, comma 1, del d.l. n. 167/1990 (conv. dalla l. n. 227/1990), operata dall’art. 9, comma 1, lett. c ), della l. 6 agosto 2013, n. 97, che ha esteso l’obbligo di dichiarazione in capo ai soggetti residenti in Italia che detengono investimenti e/o attività finanziarie all’estero anche a coloro che, pur non essendo possessori diretti di tali attività e/o investimenti, ne siano i ‘titolari effettivi’, manifestando una reale capacità contributiva in ordine ai beni posseduti per interposta persona.
Sul punto, va rilevato che tale modifica appare, nella specie, irrilevante. Infatti essa è consistita in un’integrazione della norma, estendendo l’obbligo della dichiarazione, già gravante su coloro che detengono investimenti all’estero ovvero attività est ere di natura finanziaria, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, in capo a coloro che, «pur non essendo possessori diretti degli investimenti esteri e delle attività estere di natura finanziaria, siano titolari effettivi dell’investimento secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 2, lettera u ), e dall’allegato tecnico del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231», e, secondo tale lettera u ), titolare effettivo è «la persona fisica per conto della quale è realizzata un’operazione o un’attività, ovvero, nel caso di entità giuridica, la persona o le presone fisiche che, in ultima istanza, possiedono o controllano tale entità, ovvero ne risultano beneficiari secondo i criteri di cui all’allegato tecnico al presente decreto».
Nella fattispecie in esame, tuttavia, il COGNOME è stato ritenuto detentore diretto di attività o investimenti all’estero, sulla base della accertata natura fittizia del King Trust, ritenuto mero schermo di beni ed attività direttamente riconducibili al ricorrente; pertanto, questi ne rispondeva già in base al testo originario dell’art. 4, comma 1, d.l. n. 167/1990, conv. in l. n. 227/1990.
Nel par. 6 della trattazione del ricorrente viene contestata la quantificazione, operata dall’Amministrazione finanziaria, delle disponibilità finanziarie da sottoporre al prelievo presuntivo previsto dall’art. 6 del d.l. n. 167/1990.
In particolare, il contribuente censura la mancata attivazione del contraddittorio preventivo con l’Amministrazione finanziaria, affinché egli potesse fornire la prova contraria della presunzione ivi prevista.
Anche tale motivo è da considerare inammissibile.
Innanzitutto, lo stesso ricorrente riconosce che l’emissione dell’avviso di accertamento vi è stata; in secondo luogo, il ricorrente deduce la natura non reddituale delle somme percepite
dal COGNOME, trattandosi di rimborso di precedenti finanziamenti alla società RAGIONE_SOCIALE: anche in questo caso, tuttavia, si contesta un accertamento di merito operato dai giudici di merito, come tale non censurabile in questa sede.
Infine, con il par. 7 del ricorso, il COGNOME censura la misura delle sanzioni applicate.
Anche tale questione appare inammissibile, mancando completamente una disamina puntuale dei parametri di “non proporzionalità” in concreto della sanzione irrogata, anche in considerazione del fatto che l’Ufficio, nell’applicare la sanzione, si è già adeguato al dettato normativo di cui all’art. 5 d.l. n. 167/1990, conv. dalla l. n. 227/1990, come modificato dall’art. 9 della legge n. 97/2013.
Il ricorso deve, quindi, nel suo complesso, essere dichiarato inammissibile. Le spese di giudizio seguono la soccombenza del ricorrente, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.
Ricorrono i presupposti processuali per dichiarare il ricorrente tenuto al pagamento di una somma di importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna NOME COGNOME al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore , delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 7.800,00, oltre spese prenotate a debito. Dà atto della sussistenza dei presupposti, ai sensi dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115/2002, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17 gennaio 2025.