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Transfer pricing: onere probatorio sul contribuente

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7466/2024, ha rigettato il ricorso di una società italiana che aveva concesso un prestito alla sua controllante lussemburghese a un tasso d’interesse ritenuto anomalo dall’Agenzia delle Entrate. La Corte ha ribadito che, in tema di transfer pricing, spetta al contribuente l’onere di provare che il prezzo applicato nell’operazione infragruppo corrisponde al ‘valore normale’ di mercato. La società non è riuscita a fornire prove adeguate, rendendo legittima la rettifica fiscale operata dall’Amministrazione finanziaria.

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Pubblicato il 7 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Transfer Pricing: La Cassazione sul Tasso dei Prestiti Infragruppo

La disciplina del transfer pricing è uno dei temi più complessi e delicati del diritto tributario internazionale. Con la recente sentenza n. 7466 del 20 marzo 2024, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un caso emblematico, offrendo chiarimenti cruciali sull’onere della prova che grava sul contribuente nelle operazioni infragruppo. La decisione riguarda un finanziamento concesso da una società italiana alla sua controllante estera a un tasso d’interesse ritenuto non conforme al valore di mercato, confermando la legittimità della rettifica operata dall’Amministrazione Finanziaria.

I Fatti del Caso: Il Prestito Infragruppo a Tasso Contestato

Una società italiana Srl, controllata da una holding con sede in Lussemburgo, concedeva a quest’ultima un mutuo pluriennale di importo rilevante (fino a 70 milioni di euro). Il tasso di interesse pattuito era del 2% annuo. L’Agenzia delle Entrate, a seguito di una verifica, contestava tale operazione, sostenendo che il tasso fosse inferiore al ‘valore normale’ di mercato, in violazione della normativa sul transfer pricing (art. 110, comma 7, del TUIR).

Secondo l’Ufficio, il tasso di mercato corretto per un’operazione simile, basato sulle rilevazioni della Banca d’Italia per erogazioni superiori a un milione di euro, sarebbe dovuto essere del 4,3%. Di conseguenza, l’Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione la differenza tra gli interessi attivi contabilizzati dalla società e quelli ricalcolati secondo il valore normale, applicando una maggiore imposta IRES per l’anno 2008.

La Controversia e le Tesi delle Parti

La società contribuente impugnava l’avviso di accertamento, ma sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale confermavano la validità dell’atto impositivo. Arrivata in Cassazione, la società basava il proprio ricorso su tre motivi principali:

1. Errore metodologico e sostanziale: L’Ufficio avrebbe errato nel determinare il valore normale, confrontando semplicemente due dati numerici (2% contro 4,3%) senza considerare le specificità del caso.
2. Violazione delle regole probatorie: La Commissione Tributaria Regionale avrebbe omesso di valutare gli elementi di prova offerti dalla società, che dimostravano la congruità del tasso applicato.
3. Errata ripartizione dell’onere probatorio: La società sosteneva che l’onere di dimostrare l’antieconomicità dell’operazione spettasse all’Amministrazione.

Nello specifico, la contribuente argomentava che le somme mutuate provenivano dalla vendita di un immobile e, pertanto, erano state acquisite ‘a costo zero’, giustificando un investimento a redditività ridotta. Inoltre, il tasso del 2% era, a suo dire, in linea con altri indicatori di mercato del periodo, come il rendimento dei BOT annuali (2,211%) e il tasso EURIBOR (2,03%).

Le Motivazioni della Cassazione e l’Onere Probatorio nel Transfer Pricing

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso della società, fornendo motivazioni chiare e decisive. Il fulcro della decisione risiede nella corretta ripartizione dell’onere probatorio in materia di transfer pricing.

La Corte ha ribadito un principio consolidato: la normativa sul transfer pricing introduce una presunzione legale secondo cui le transazioni infragruppo che si discostano dal valore normale sono considerate elusive, finalizzate a uno spostamento di base imponibile verso Paesi a fiscalità privilegiata. In questo contesto, spetta al contribuente, e non all’Amministrazione Finanziaria, fornire la prova contraria.

La società, secondo i giudici, non è riuscita a dimostrare che il tasso del 2% fosse in linea con il principio di libera concorrenza. Le argomentazioni portate sono state ritenute infondate:

* Irrilevanza del ‘costo zero’: L’origine dei fondi (la vendita di un immobile) è irrilevante. L’art. 110 del TUIR richiede di valutare la transazione secondo il suo valore normale, a prescindere dal costo di acquisizione dei beni o delle somme impiegate.
* Inadeguatezza dei parametri di confronto: Il paragone con il rendimento di investimenti a breve termine (BOT, EURIBOR) è stato giudicato improprio, poiché il prestito in questione aveva una durata pluriennale e, potenzialmente, fino a dieci anni.
* Mancata contestazione di prove decisive: Un punto cruciale, evidenziato dalla controricorrente Agenzia delle Entrate, è stato che la società non ha contestato un dato di fatto determinante: all’interno dello stesso gruppo societario venivano praticati tassi di interesse per operazioni analoghe oscillanti tra il 4% e il 5%. Questo ‘comparabile interno’ ha rafforzato notevolmente la posizione dell’Amministrazione finanziaria e ha reso ancora più evidente l’anomalia del tasso del 2% applicato alla controllante estera.

Le Conclusioni: Onere della Prova e Valore Normale

La sentenza consolida l’orientamento secondo cui, in una controversia sul transfer pricing, il contribuente è il soggetto onerato di dimostrare con prove concrete e pertinenti che i prezzi praticati nelle transazioni con parti correlate sono conformi al valore normale. Non è sufficiente addurre argomentazioni generiche o basate su parametri di mercato non direttamente comparabili. È necessario fornire una documentazione robusta che giustifichi le scelte operate. La presenza di comparabili interni, se non adeguatamente contestata, può assumere un valore probatorio decisivo a favore della pretesa fiscale.

Chi deve dimostrare la correttezza del prezzo in un’operazione di transfer pricing?
Secondo la sentenza, l’onere di provare che il prezzo applicato nell’operazione infragruppo corrisponde al ‘valore normale’ di mercato spetta al contribuente. L’Amministrazione Finanziaria ha solo l’onere di provare l’esistenza di una transazione infragruppo a un prezzo apparentemente anomalo.

Il fatto che i fondi per un prestito siano stati acquisiti ‘a costo zero’ giustifica un tasso di interesse inferiore a quello di mercato?
No. La Corte ha stabilito che l’origine dei fondi è irrilevante. La normativa fiscale richiede che il valore della transazione sia determinato sulla base del principio di libera concorrenza (valore normale), indipendentemente dal costo sostenuto dalla società per ottenere la liquidità.

Quali elementi sono decisivi per determinare il ‘valore normale’ di un tasso d’interesse in un prestito infragruppo?
La sentenza evidenzia che elementi decisivi possono essere le rilevazioni ufficiali (come quelle della Banca d’Italia) e, soprattutto, i ‘comparabili interni’, ovvero i tassi di interesse applicati per operazioni di finanziamento simili all’interno dello stesso gruppo societario. Il confronto con strumenti finanziari di durata diversa (es. BOT annuali per un prestito pluriennale) è stato invece ritenuto non pertinente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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