Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 33296 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 33296 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14053/2017 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
Avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE del LAZIO sez. dist. LATINA n. 7528/2016 depositata il 28/11/2016. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/12/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME
Rilevato che:
1. La Commissione Tributaria Regionale del Lazio sez. dist. Latina ( hinc: CTR), con la sentenza n. 7528/2016, depositata in data 28/11/2016, ha rigettato l’appello proposto da Telecom Italia s.p.a. contro la sentenza n. 15537/2015, con la quale la Commissione Tributaria Provinciale di Roma aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento con il quale l’amministrazione finanziaria aveva recuperato a tassazione la somma di Euro 760.000 (oltre a sanzioni per Euro 950.000) per l’anno 2007.
In particolare, la Guardia di Finanza aveva accertato che la società contribuente, in virtù di un atto transattivo sottoscritto per chiudere una controversia giudiziale, aveva corrisposto Euro 3.800.000, oltre IVA (al 20%) di cui era stata contestata la successiva detrazione, in quanto l’indennizzo versato in chiusura del contenzioso non era soggetto ad imposta sul valore aggiunto, per carenza del presupposto oggettivo.
2. La CTR ha rilevato che nel caso di specie risultava che le parti avessero rinunciato agli atti di causa, evitando ulteriori contenziosi connessi al contratto di cessione, rimodulando alcune garanzie senza intrattenersi sull’esistenza o il valore del danno contrattuale che la
contro
parte assumeva di aver subito, con la pattuizione di una somma a saldo e stralcio, nonché della rinuncia, in via transattiva, a qualsiasi altra pretesa, presente o futura. Ha quindi ritenuto che la somma pattuita non potesse che essere intesa come risarcimento e non come compenso a titolo di corrispettivo per l’abbandono del contenzioso. Difatti, attraverso l’atto transattivo il contratto di compravendita delle partecipazioni non poteva essere considerato estinto e sostituito con un altro contratto di senso contrario, perché le parti intendevano abrogare solamente alcuni articoli, facendo sopravvivere le parti del contratto in essere, senza che insorgessero nuove obbligazioni oggettivamente diverse dall’originario rapporto contrattuale, atteso che l’atto di transazione conteneva elementi residuali del precedente contratto.
Le stesse parti -agli artt. 2 e 4 del contratto di transazione -dichiaravano che l’atto transattivo riguardava l’inadempienza degli obblighi di garanzia e di indennizzo assunti in base al contratto stipulato in data 26/09/2005. Anche la lettera del 03/08/2007 era illuminante, ad avviso della CTR, « sulla comunicazione di piena ed integrale accettazione del contenuto di una proposta di accordo transattivo per la definizione del giudizio pendente tra le parti nonché per la complessiva definizione dei reciproci rapporti derivanti dal contratto di compravendita ove non è indicata alcuna prestazione di fare o di permettere bensì di corrispondere una somma di euro 3.800.000 a titolo di definizione del contenzioso.» Non è, quindi, comprensibile come tale importo possa essere considerato compenso ai sensi della transazione, come indicato nel corpo della fattura contestata, considerato che la sua natura è indubbiamente risarcitoria e gli indennizzi per il mancato rispetto di garanzie contrattuali rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 15 d.P.R. n. 633 del 1972, che non ne consente l’assoggettamento a IVA.
2.1. In conclusione, la CTR ha ritenuto di dover rigettare l’appello unitamente alla domanda nuova relativa all’inapplicabilità delle sanzioni per incertezza della norma, in quanto formulata per la prima volta in sede d’appello.
Contro la sentenza della CTR la società contribuente ha proposto ricorso in cassazione con tre motivi.
L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
La ricorrente in data 12/02/2023 ha depositato memoria ‘ con procura di nomina di nuovo Difensore e con conferma delle risalenti richieste ‘.
Considerato che:
Il primo motivo di ricorso si fonda sull’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., contestando il contrasto irriducibile tra motivazioni inconciliabili in cui è incorsa la sentenza impugnata, che fa discendere la natura risarcitoria del compenso pagato dalla ricorrente a PFD da alcune premesse oggettivamente incompatibili. Lo stesso giudice afferma, infatti, che tale pagamento discende: 1) dalla rinuncia agli atti di causa; 2) dall’aver voluto evitare degli ulteriori contenziosi; 3) dall’aver rimodulato alcun e garanzie, senza intrattenersi sull’esistenza o sul valore del danno contrattuale che controparte assume di aver subito e 4) dall’aver individuato una somma che fosse a definitivo stralcio, saldo, rinuncia a transazione di ogni e qualsivoglia pretesa passata, presente e futura.
Rileva come non possa essere ritenuta a titolo risarcitorio la liquidazione di un importo quantificato dalle parti « senza intrattenersi sull’esistenza o sul valore del danno contrattuale », rinunciando a ogni pretesa per qualsiasi danno, sia esso passato, presente o futuro.
Contesta, inoltre, l’affermazione secondo cui la somma sborsata da TIMEDIA (incorporata dall’odierna parte ricorrente) avrebbe rivestito
carattere di risarcimento, perché « attraverso l’atto transattivo, il contratto di compravendita delle partecipazioni non può essere inteso come estinto e sostituito con un altro, perché le parti intendono semplicemente abrogare alcuni articoli.» , così come è stato contestato il riferimento alla lettera del 03/08/2007 rinvenuta dalla Guardia di Finanza, che integra, peraltro, lo stesso testo della transazione.
1.1. Il motivo di ricorso evoca l’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. in relazione a un vizio motivazionale – e non in relazione a un fatto decisivo per il giudizio, peraltro da intendere in senso storiconaturalistico e non riconducibile alla qualificazione giuridica di un atto negoziale (Cass., 20/06/2024, n. 17005; Cass., Sez. U, 27/12/2019, n. 34476) -in ordine a quale le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che: « La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. » (Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053 e n. 8054; v. successivamente Cass., 08/10/2014, n. 21257; Cass., 20/11/2015,
n. 23828; Cass., 12/10/2017, n. 23940; Cass., 25/09/2018, n. 22598; Cass., 03/03/2022, n. 7090).
Le ipotesi entro le quali le Sezioni Unite di questa Corte perimetrano il sindacato di legittimità sui vizi motivazionali non ricorrono nel caso di specie, dove il giudice di seconde cure ha indicato gli elementi posti alla base della conclusione che lo hanno portato a qualificare la pattuizione inter partes in chiave risarcitoria, attraverso una forfettizzazione. Tale conclusione, in realtà, non comporta alcuno dei vizi di carattere motivazionale.
Con il secondo motivo è stata contestata la violazione e la falsa applicazione degli artt. 3, primo comma, 15, primo comma, n. 1) e secondo comma, e 19, primo comma, d.P.R. n. 633 del 1972.
2.1. La ricorrente contesta, con tale motivo, la qualificazione in termini risarcitori della prestazione di dare una somma di denaro contemplata in un contratto di transazione a fronte di una serie di prestazioni di fare o di non fare (riguardanti non solo le parti, ma anche il terzo Telecom Italia s.p.a.).
Rileva, tuttavia, che nel caso di specie il pagamento della somma pattuita (prescindendo dal profilo del danno) è avvenuto a fronte della rinuncia a un contenzioso insorto e a tutti quelli che, per un verso o per l’altro, potessero insorgere e si inserisce all’interno di una transazione complessa e non irragionevolmente definibile come novativa. Diversamente, le previsioni dell’art. 15 d.P.R. n. 633 del 1972 fanno riferimento alle penalità per ritardi o altre irregolarità nell’adempimento e riguardano le ip otesi in cui il pagamento di una somma di denaro assume valore sanzionatorio. In quest’ultima ipotesi, non è prospettabile il pagamento del tributo, non essendo rilevabile né una cessione di beni, né la prestazione di un servizio, a differenza dell’ipotesi in cui il pagamento, pur trovando la propria ragione, in termini storici e casuali, in una controversia (già
instaurata o prossima a essere introdotta) sia prevista in termini causali e a prescindere dai petita , a fronte della precisa assunzione di obbligo di fare, ( i.e. la rinuncia definitiva a tutte le domande di cui al giudizio avviato dinanzi al Tribunale di Milano ), che ad avviso della parte ricorrente è riconducibile all’art. 3, primo comma, d.P.R. n. 633 del 1972. Tale norma si inquadra, in particolare, tra quelle a fattispecie aperta , sancendo la tassazione dei corrispettivi derivanti non solo da una serie di contratti tipici appositamente richiamati, ma anche di quelli che si correlano ad altri contratti e ad altre tipologie di operazioni. È pertanto importante che esistano delle prestazioni che si pongano l’una in ragione dell’altra, costituendone recipro ca remunerazione. Ciò è quanto esattamente accaduto nel caso di specie, dove la prestazione di dare di NOME (avente per oggetto una somma di denaro) si poneva in stretta correlazione al fare o al non fare , a seconda dei casi (rinuncia alla lite ed astensione da ogni e qualsivoglia pretesa) di PFD.
2.1. Passando all’esame del motivo, occorre partire dal testo dell’art. 3, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, il quale prevede che: « Costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte.»
La norma si connota per un’elencazione casistica delle fonti contrattuali dalle quali scaturiscono le prestazioni di servizi che integrano il presupposto oggettivo dell’imposta sul valore aggiunto e per una clausola generale di chiusura individuata nelle prestazioni verso corrispettivo dipendenti da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere , quale ne sia la fonte.
Se è vero che l ‘art. 3 d.P.R. n. 633 del 1972 si ricollega all’art. 25 Dir. (UE) 112/2006 (« Una prestazione di servizi può consistere, tra l’altro, in una delle operazioni seguenti: … b) l’obbligo di non fare o di permettere un atto o una situazione. »), è altrettanto vero che il significato del sintagma «obbligo di non fare» deve essere individuato tenendo conto che, trattandosi di un’imposta sul consumo, non è sufficiente la previsione di un corrispettivo, ma occorre considerare la natura dell’impegno assunto e che «per rientrare nel sistema comune dell’IVA, detto impegno deve implicare un consumo » (CGUE, 18/12/1997, C-384/95, Landboden, § 20). La prestazione di non fare deve, quindi, integrare un « consumo nell’accezione del sistema comunitario dell’IVA » (CGUE, 26/02/1996, C-215-94, § 20). A tal fine la prestazione di non fare non può essere, pertanto, considerata atomisticamente, ma deve essere valutata alla luce dell’intero assetto negoziale da cui scaturisce.
2.2. Nel caso in esame la prestazione di non fare che parte ricorrente pretende di sussumere nell’ambito di applicazione dell’art. 3, primo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, scaturisce da un contratto di transazione. In base all’art. 1965, primo comma, c.c.: « La transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro.»
Questa Corte ha precisato che l’oggetto della transazione non è il rapporto o la situazione giuridica cui si riferisce la discorde valutazione delle parti, ma la lite cui questa ha dato luogo o può dar luogo, e che le parti stesse intendono eliminare mediante reciproche concessioni, che possono consistere anche in una bilaterale e congrua riduzione delle opposte pretese, in modo da realizzare un
regolamento di interessi sulla base di un “quid medium” tra le prospettazioni iniziali (Cass., 01/04/2010, n. 7999).
Nella misura in cui le prestazioni di fare, non fare o permettere riguardino reciproche concessioni in ordine alle contrapposte pretese, con l’assunzione di impegni relativi alle condotte da tenere sul piano della condotta processuale attuale o futura (come la rinuncia agli atti o all’azione) non emerge una prestazione rilevante ai sensi dell’art. 3 d.P.R. n. 633 del 1973 : si tratta, infatti, di prestazioni che non sono correlate a un consumo nell’accezione del sistema comunitario dell’IVA, ma costituiscono piuttosto l’esito di un atto dispositivo attraverso il quale vengono regolate le pretese contrapposte sulla res litigiosa .
2.3. Diversamente è a dirsi in relazione agli eventuali rapporti o prestazioni costituiti ex novo in sede transattiva nelle ipotesi di cd. transazione mista. L’art. 1965, comma 2, c.c. prevede, infatti, che: « Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti.» Nel caso previsto dalla norma appena richiamata, le parti creano, modificano o estinguono rapporti diversi da quello che ha dato origine alla lite (attuale o in fieri ) e può venire in rilievo, in thesi , uno dei requisiti oggettivi dell’imposta sul valore aggiunto ai sensi degli artt. 2 e 3 d.P.R. n. 633 del 1972. La costituzione di un nuovo e diverso rapporto rispetto a quello originario non risulta, tuttavia, neppure evocata dalla parte ricorrente che ha contestato come l’accordo transattivo avesse determinato, invece, una novazione dell’originario rapporto (v. pag. 20 del ricorso).
2.4. Nel caso di transazione novativa, come già precisato da questa Corte, è necessaria, tuttavia, una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato
dall’accordo transattivo, tale da rendere le obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti oggettivamente diverse da quelle preesistenti. Spetta, quindi, al giudice di merito accertare se le parti, nel comporre l’originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, costitutivo di autonome obbligazioni (Cass., 06/10/2020, n. 21371) oppure a una modifica del precedente rapporto che prosegue, seppure sulla base di un assetto contrattuale parzialmente diverso.
2.5. Nella specie la motivazione addotta dal giudice di seconde cure è la seguente: « Infatti, attraverso l’atto transattivo, il contratto di compravendita delle partecipazioni non può essere inteso come estinto sostituito con una altro contratto di senso contrario perché le parti intendono semplicemente abrogare alcuni articoli facendo sopravvivere parti del contratto in essere senza che insorgessero nuove obbligazioni oggettivamente diverse dall’originario rapporto contrattuale atteso che l’atto di transaz ione contiene elementi residuali del precedente contratto. Del resto, sono le stesse parti che dichiarano agli articoli 2 e 4 che l’atto transattivo è relativo all’inadempienza degli obblighi di garanzia e di indennizzo assunti in base al contratto stipulato in data 26/09/2005.».
È da rilevare come la sentenza impugnata, escludendo il carattere novativo della transazione, non si ponga affatto in contrasto né con la giurisprudenza di questa Corte in materia di transazione novativa, né con l’art. 3 d.P.R. n. 633 del 1972 , considerato che la motivazione appena riportata non implica una situazione di incompatibilità tra la pattuizione originaria e quella modificata in esito alla transazione, non essendo intaccato il fulcro dell’operazione negoziale costituito dalla cessione delle partecipazioni , non intaccata dall’eliminazione di alcune clausole contrattuali. Il secondo motivo di ricorso è, pertanto, infondato.
Il terzo motivo, con il quale la ricorrente censura la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., viene ripartito in una duplice contestazione.
3.1. La prima doglianza riguarda il profilo della deducibilità dell’IVA sulle somme dovute e fatturate, quand’anche non assoggettabili al tribut o, per discendere da un titolo giuridico valido e non contestabile. La CTR non si è soffermata, tuttavia, su tale questione, ritenendola, probabilmente e implicitamente assorbita, « non volendo credere ad una dimenticanza» . Resta, comunque, che la questione della detraibilità dell’IVA non dovuta non poteva essere pretermessa.
Il motivo è inammissibile, dal momento che la parte -nel rilevare che la CTR non si sia soffermata sulla questione della detrazione dell’IVA regolarmente pagata e fatturata, ritenendo la motivazione probabilmente e implicitamente assorbita, v. pag. 23 ricorso in cassazione – denuncia come vizio di omessa pronuncia ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., un vizio che, con riferimento alla pronuncia, anche implicita, di assorbimento, avrebbe dovuto essere denunciato come di omessa motivazione;
Questa Corte ha infatti precisato, anche recentemente, che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di omessa pronuncia, censurabile ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. per violazione dell’art. 112 c.p.c., ricorre ove il giudice ometta completamente di adottare un qualsiasi provvedimento, anche solo implicito di accoglimento o di rigetto ma comunque indispensabile per la soluzione del caso concreto, sulla domanda o sull’eccezione sottoposta al suo esame, mentre il vizio di omessa motivazione, dopo la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia stato, ma sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico oppure si sia tradotto
nella mancanza assoluta di motivazione, nella motivazione apparente, nella motivazione perplessa o incomprensibile o nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili (Cass., 23/10/2024, n. 27551);
3.2. La seconda doglianza articolata con tale motivo riguarda le sanzioni, di cui era stato chiesto l’annullamento, sin dal ricorso introduttivo, con richiesta reiterata in appello. La sentenza impugnata si richiama a una domanda nuova relativa alla inapplicabilità delle sanzioni per incertezza della norma.
3.2. Il motivo è infondato non emergendo alcun quadro di incertezza normativa nel caso di specie, venendo in rilievo norme che sanciscono regole fondamentali che presiedono all’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, così come puntualizzat e anche dalla giurisprudenza unionale richiamata al punto 2.1. Di conseguenza, anche a voler seguire il recente indirizzo di questa Corte, secondo il quale il potere di disapplicazione delle sanzioni per violazioni di norme tributarie è esercitabile d’ufficio dal giudice tributario, qualora accerti che le stesse sono state commesse in presenza ed in connessione con una situazione di oggettiva incertezza nell’interpretazione normativa, e non postula una domanda di parte, la quale, se avanzata, ha natura di mera sollecitazione (v. Cass., 29/01/2024, n. 2604) – con la conseguenza che la CTR avrebbe dovuto, comunque, verificare, in via officiosa, i requisiti per l’eventuale disapplicazione della sanzione -resta, comunque, l’assenza di una situazione di obiettiva incertezza sulla normativa tale da determinare un riscontro positivo sull’istanza del contribuente. Peraltro, la situazione di obiettiva incertezza deve essere riconducibile a un contrasto applicat ivo o all’affidamento erroneamente ingenerato nel contribuente da parte dell’amministrazione finanziaria in ordine all’applicazione di una
determinata disposizione o a orientamenti giurisprudenziali contrastanti o comunque a fattori oggettivamente apprezzabili e non riferibili, esclusivamente, alla mera percezione o convinzione del contribuente. Nessuna di tali ipotesi risulta riscontrabile nel caso in esame, al punto che lo stesso ricorrente non ha saputo fornire elementi più precisi, nell’illustrazione della seconda doglianza del terzo motivo di ricorso.
Infine, anche la richiesta di applicazione del cd. favor rei , deve essere disattesa, poiché, da un lato, non risulta sufficientemente argomentata (non indicando quali sarebbero gli effetti conseguenti all’applicazione delle due diverse normative) e, dall’altro lato, la controricorrente dichiara nel controricorso di aver già tenuto conto degli effetti del d.lgs. n. 158 del 2015, al momento dell’irrogazione della sanzione.
Sul punto deve essere data continuità all’orientamento di questa Corte, secondo il quale, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, le modifiche apportate dal d.lgs. n. 158 del 2015 non operano in maniera generalizzata in ‘favor rei’, rendendo la sanzione irrogata illegale, sicché deve escludersi che la mera deduzione, in sede di legittimità, di uno ‘ ius superveniens ‘ più favorevole, senza altra precisazione con riferimento al caso concreto, imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, non solo in ragione della necessaria specificità dei motivi di ricorso ma, soprattutto, per il principio costituzionale di ragionevole durata del processo (Cass., 12/04/2017, n. 9505; in senso conforme v. anche Cass.., 15/06/2018, n. 15828; Cass., 28/06/2018, n. 17143; Cass., 11/11/2019, n. 29046).
Alla luce di quanto sin qui rilevato il ricorso è infondato e deve essere rigettato, con la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della parte controricorrente.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.700,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 12/12/2024.