Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 775 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 775 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 12/01/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 15313/2023 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE e dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE -ricorrente- contro
COMUNE DI MIGNANO MONTE LUNGO, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE e dall’avvocato COGNOME (PTTFLC77H16H892O)
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di COMM.TRIB.REG. CAMPANIA n. 69/2023 depositata il 04/01/2023,
udita la relazione svolta alla pubblica udienza del 12/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALE ha impugnato l’avviso di accertamento del Comune di Mignano Monte Lungo, avente ad oggetto la t.o.s.a.p. (annualità 2018, 2019 E 2020) in relazione all’occupazione permanente del soprasuolo e del sottosuolo comunale, tramite condotta di adduzione di acqua per le centrali idroelettriche, insistente nel territorio comunale.
2.La Commissione provinciale tributaria ha respinto il ricorso.
3.Ha proposto appello la società contribuente.
4.La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello, precisando che: 1) «nell’atto impugnato vi è una sufficiente esposizione delle ragioni di fatto e di diritto dell’imposizione tributaria, che parte ricorrente ha dimostrato di aver pienamente compreso, tanto da aver proposto avverso tale atto specifica e dettagliata impugnazione»; 2) le contestazioni in ordine alla sussistenza o mancata prova dei presupposti impositivi sono superate, considerata la rinuncia da parte dell’Enel alla costituzione di un diritto di superficie a suo favore e la riconducibilità dei beni al patrimonio indisponibile del Comune; 3) non può applicarsi agli impianti di produzione dell’energia elettrica il regime agevolato previsto per quelli strumentali all’erogazione di un pubblico servizio, come già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità; 4) legittimamente sono state applicate le sanzioni in considerazione dell’omessa denuncia.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente, formulando sei motivi.
6.Si è costituita con controricorso il Comune, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità ed infondatezza del ricorso principale.
7.La Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
Risultano depositate memorie di entrambe le parti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso la società contribuente ha lamentato la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., degli artt. 7 della legge n. 212 del 2000 e 1, comma 162, della legge n. 296 del 2006, essendo stato ritenuto legittimo l’avviso, nonostante l’assenza di un apparato motivazionale idoneo a consentire l’individuazione dei presupposti di fatto e di diritto dell’accertamento, dei criteri di qualificazione dell’occupazione e di quelli di quantificazione della pretesa. In particolare la società ha evidenziato che: nell’atto impositivo mancano i riferimenti normativi in ordine alla tariffa applicata, le fonti a supporto degli elementi di fatto riportati nell’atto (dimensioni e qualificazione dell’opera e della superficie), le motivazioni a supporto della effettiva sottrazione all’uso pubblico dei terreni occupati; solo in corso di giudizio il Comune, al fine di integrare la motivazione, ha prodotto visure catastali, relazione dell’Ufficio tecnico, decreto del Commissario per la liquidazione degli usi civili; attestazioni ed autorizzazioni di fida pascolo (queste ultime non riferibili alle annualità 2018-2020) -documentazione contenente le informazioni necessarie al fine della quantificazione della superficie occupata a della qualificazione delle aree occupate e, cioè, informazioni indispensabili per individuare la pretesa tributaria, che avrebbero dovuto essere fornite già nella motivazione dell’atto impositivo.
La censura è inammissibile, oltre che infondata.
La ricorrente, pur denunciando una violazione di legge, chiede al giudice di legittimità un giudizio di fatto in ordine all’esaustività della motivazione dell’avviso impugnato: valutazione già effettuata, con esito positivo, da entrambi i giudici di merito e, quindi, non
censurabile neppure con un motivo riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ.
Per completezza va ricordato, comunque, che, in tema di tributi locali, l’obbligo motivazionale dell’accertamento è adempiuto tutte le volte in cui il contribuente sia stato posto in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestare efficacemente l’ an ed il quantum dell’imposta. Il requisito motivazionale esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione dei fatti astrattamente giustificativi di essa, che consentano di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’ente impositore nell’eventuale successiva fase contenziosa, restando, poi, affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva (Cass., Sez. 5, 15 novembre 2004, n. 21571; Cass., Sez. 5, 31 marzo 2011, n. 7360 Cass., Sez. 5, 8 novembre 2017, n. 26431; Cass., Sez. 5, 30 ottobre 2019, n. 27800).
Da ciò consegue che la documentazione prodotta in primo grado dal Comune con le controdeduzioni non ha integrato una motivazione di per sé insufficiente, avendo esclusivamente lo scopo di superare le contestazioni sollevate dalla società contribuente. Invero, deve ribadirsi che solo l’avviso di accertamento privo, in violazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 7 della l. n. 212 del 2000, di una congrua motivazione non può essere integrato in giudizio dall’Amministrazione finanziaria, in ragione della natura impugnatoria del processo tributario (Cass., Sez. 6 – 5, 21/05/2018, n. 12400), mentre, in virtù della formulazione dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000 ratione temporis vigente, la prova delle pretesa tributaria, avanzata con l’avviso, può essere fornita in giudizio, non dovendo necessariamente essere indicata nell’atto impositivo. Secondo l’orientamento sinora consolidato, difatti, la
motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica, presidiata dall’art. 7 della l. n. 212 del 2002, ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l ‘an ed il quantum della pretesa tributaria; invece, la prova della pretesa tributaria attiene al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso (Cass., Sez. 5, 20 settembre 2024, n. 25321). Solo, all’esito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 219 del 2023, gli atti dell’Amministrazione finanziaria devono indicare specificamente, oltre i presupposti e le ragioni giuridiche, anche i mezzi di prova.
Con il secondo motivo di ricorso la società contribuente ha denunciato la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., dell’art. 2697 cod.civ. e 7, comma 5 -bis, d.lgs. n. 546 del 1992, avendo la sentenza impugnata ribaltato l’onere della prova, nella parte in cui ha affermato che «priva di principi di prova è la contestazione relativa alla particella catastale n. 21 fg., che non sarebbe attraversata dalla condotta di proprietà della odierna società appellante, in quanto la rispettiva doglianza ha natura e contenuto del tutto assertivo».
La censura è infondata, in quanto la sentenza impugnata non ha applicato la regola della ripartizione dell’onere probatorio, desumibile dagli artt. 2697 cod.civ. e oggi dall’art. 7, comma -bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, ma ha piuttosto escluso la fondatezza della doglianza, valorizzando gli argomenti di prova desumibili ex artt. 116 cod.proc.civ. dal contegno delle parti ed in particolare dalla formulazione di una contestazione meramente assertiva, in quanto priva di indicazioni specifiche in ordine alla consistenza e all’ubicazione dell’opera realizzata, di cui la contribuente ha, in misura maggiore del Comune, piena cognizione. Del resto, l’art. 116 cod. proc. civ., che attribuisce al giudice il potere di desumere
argomenti di prova dal comportamento processuale delle parti, va inteso nel senso che tale comportamento non solo può orientare la valutazione del risultato di altri procedimenti probatori, ma può anche costituire unica e sufficiente fonte di prova (Cass., Sez. 3, 3 marzo 2005, n. 4651).
3. Con il terzo motivo di ricorso la società contribuente ha denunciato la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., dell’art. 38 del d.lgs. n. 507 del 1993 e degli artt. 823, 824, 826 e 2697 cod.civ., essendo stata ritenuta la sussistenza dei presupposti impositivi in relazione all’occupazione di aree non appartenenti né al demanio né al patrimonio indisponibile del Comune, ma piuttosto gravate da usi civili e, quindi, appartenenti alla collettività e solo amministrate dal Comune, come confermato dalla delibera della Regione Campania n. 61 del 2015. In particolare, nella prospettazione della ricorrente incidentale, i beni comunali gravati da usi civici costituiscono il cd. demanio universale e non sono classificabili fra quelli demaniali in senso tecnico, in quanto appartenenti ai cittadini iure domini e solo amministrati dal Comune. Si è pure evidenziato che, ai fini del riconoscimento della demanialità ovvero della natura indisponibile dei beni, occorre l’effettivo e permanente esercizio dell’uso civico da parte della generalità degli appartenenti all’ente territoriale, mentre il Comune, su cui incombe l’onere della prova per il principio cd. della vicinanza, ha depositato l’autorizzazione per la fida pascolo relativa ad annualità successiva a quelle per cui è stato emesso l’avviso di accertamento impugnato.
La censura è infondata.
L’accertamento della natura demaniale dei terreni gravati da usi civici esige la ricostruzione del relativo quadro normativo, anche alla luce della legge n. 168 del 2017.
3.1.Gli usi civici affondano le proprie radici in contesti sociali assai remoti di epoca feudale, ma sono sopravvissuti all’evoluzione
storica e culturale. La maggior parte di essi è nata da comportamenti di fatto, senza neppure l’adozione di atti formali idonei a dare adeguata pubblicità al fenomeno. Tuttavia oggi, all’esito dell’evoluzione normativa e della elaborazione giurisprudenziale, sono stati valorizzati anche in un’ottica di tutela ambientale.
3.2. L’art. 11 della legge n. 1766 del 1927 prevede che «i terreni assegnati ai Comuni o alle frazioni in esecuzione di leggi precedenti relative alla liquidazione dei diritti di cui all’art. 1, e quelli che perverranno ad essi in applicazione della presente legge, nonché gli altri posseduti da Comuni o frazioni di Comuni, università, ed altre associazioni agrarie comunque denominate, sui quali si esercitano usi civici, saranno distinti in due categorie: a) terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente; b) terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria». All’interno della categoria degli usi civici, si suole indicare sia il fenomeno degli usi civici in senso stretto (intesi come diritti reali di godimento in re aliena su beni appartenenti a soggetti pubblici o privati), che la materia dei domini collettivi (intesi quali terre spettanti ad una collettività ben individuata di soggetti mediante un godimento promiscuo). La citata legge non reca, in effetti, una definizione espressa degli usi civici, ma li qualifica indistintamente come riconducibili a due diversi diritti di godimento delle terre che ne costituiscono oggetto: l’uso civico propriamente detto e il c.d. demanio civico. La natura giuridica degli usi su terre comunali è, nella sua essenza, equiparabile a quella dei beni demaniali, dato il loro regime di inalienabilità, inusucapibilità, immodificabilità e di conservazione del vincolo di destinazione, il quale può subire una deroga solo mediante un’apposita ‘sdemanializzazione’. In particolare l’art. 12 della legge in esame dispone che «per i terreni di cui alla lettera a) si osserveranno le norme stabilite nel capo 2° del titolo 4° del r.d. 30 dicembre 1923,
n. 3267. I Comuni e le associazioni non potranno, senza l’autorizzazione del Ministero dell’economia nazionale, alienarli o mutarne la destinazione. I diritti delle popolazioni su detti terreni saranno conservati ed esercitati in conformità del piano economico e degli articoli 130 e 135 del citato decreto, e non potranno eccedere i limiti stabiliti dall’ art. 521 del Codice civile». La complessiva disciplina consente di affermare che i fondi pubblici gravati da usi civici sono soggetti a un regime di indisponibilità, che trova deroga nelle sole (limitate) ipotesi previste dalla legge n. 1766 del 1927 (legittimazioni: art. 9; autorizzazioni all’alienazione e al mutamento di destinazione: art. 12; quotizzazioni: art. 13, e da altrettante limitate previsioni di leggi speciali).
Tale regime risulta confermato nella disciplina attuale della legge n. 268 del 2017, posto che ai sensi dell’art. 3, comma 3, lett d, i l regime giuridico dei beni pubblici gravati da usi civici resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale.
3.3.Nell’impianto normativo originario, risalente all’epoca fascista, l’originaria volontà legislativa era proiettata verso l’affrancazione dei fondi da un vincolo ritenuto strettamente collegato alle realtà agricole e rurali, mutevoli da un territorio all’altro, che non aderiva più alle esigenze attuali. Tuttavia, nel corso degli anni, gli usi civici hanno assunto una valenza ambientale e paesaggistica sempre di maggior rilievo. Dapprima è stata approvata la legge n. 1497 del 1939, la quale già prevedeva vincoli paesaggistici ma di natura eminentemente amministrativa (poiché collegati al provvedimento amministrativo ed alle sue vicende). Successivamente è sopravvenuta la legge n. 41 del 1985 (cd. legge Galasso), il cui art. 1, lett. h, modificando l’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977, ha sottoposto a vincolo paesaggistico, tra gli altri beni, le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici. Gli usi civici sono, inoltre, disciplinati dalla legge quadro sulle aree
protette n. 394 del 1991, nell’ambito del regolamento del parco e del piano parco (artt. 11 e 12).
L’entrata in vigore della menzionata legge n. 431 del 1985 (c.d. legge COGNOME) ha inaugurato, dunque, una nuova prospettiva, sulla cui scia si è poi innestato il successivo d.lgs n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che ha confermato tra le aree tutelate all’art. 142 lett. h) le stesse, già indicate alla medesima lett. h) dell’art. 82 della legge COGNOME, “le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici” (v. sul punto anche Corte cost. n.228 del 2021). Il netto allontanamento dall’originaria tendenza liquidatoria degli usi civici ha, infine, trovato consacrazione dapprima nel disposto dell’art. 74 della legge n. 221 del 2015, che ha modificato l’art. 4 del d.P.R. n. 327 del 2001, prevedendo che:«1-bis. I beni gravati da uso civico non possono essere espropriati o asserviti coattivamente se non viene pronunciato il mutamento di destinazione d’uso, fatte salve le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico», e successivamente nella nuova disciplina contenuta nella legge n.168 del 2017, con cui si è consolidata la vocazione di salvaguardia ambientale degli usi civici. In ordine alla legge n. 168 del 2017 va sottolineato che, ai sensi dell’art. 3, comma 3, lett. d, le terre di proprietà di soggetti pubblici o privati sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati sono caratterizzati dall’inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità e dalla perpetua destinazione agro-silvo-pastorale.
3.4.Tenuto conto dell’orientamento di legittimità formatosi in materia analoga, e cioè di iscrizione di strade negli appositi elenchi (tra le altre, vedi Cass., Sez. 2, 17 marzo 1995, n. 3117), la giurisprudenza di legittimità è giunta ad affermare la natura demaniale dei terreni gravati da uso civico di bosco e pascolo permanente (v., tra le altre Cass., Sez. U., 11 giugno 1973, n.
1671, secondo le quali l’espropriazione esige la previa sdemanializzazione dei beni comunali gravati da usi civici). La stessa Corte costituzionale ha sostenuto che tutta la materia degli usi civici dei beni di proprietà collettiva rientra nell’ambito del diritto pubblico e che la natura di tali beni (equiparabile a quella dei beni demaniali) non consente di sottoporli ad espropriazione per pubblica utilità potendo questa effettuarsi solo per la proprietà privata terriera (v., ad esempio, Corte costituzionale n. 156 del 1995).
3.5.Sulla questione, sebbene indirettamente in materia espropriativa, è intervenuta Cass., Sez. U., 10 maggio 2023, n. 12570 – che, pur considerando che la legge base del 1927 non reca, in effetti, una definizione espressa degli usi civici, ha statuito che la natura giuridica degli usi civici su terre comunali è condizionata dal caratterizzarsi come beni di c.d. proprietà collettiva, la cui disciplina è equiparabile a quella dei beni demaniali, per quanto si desume dal loro regime di inalienabilità, inusucapibilità, immodificabilità e di conservazione del vincolo di destinazione, il quale può subire una deroga solo mediante un’apposita ‘sdemanializzazione’, facendo altresì leva sul disposto dell’articolo 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017, il quale recita: «Il regime giuridico dei beni di cui al comma 1 resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale», laddove -si noti l’uso del verbo ‘resta’ va ritenuto secondo l’interpretazione data dalle S.U. – manifestazione consapevole di quanto già previsto dalla legge del 1927 e l’aggiunta specificativa della ‘perpetua destinazione agro-silvopastorale’ è sintomatica di una connotazione di ‘intangibilità di tali beni’ nella loro funzione e nella finalità che perseguono, da cui scaturirebbe la loro indisponibilità cui fa riscontro il regime di intangibilità, che quei diritti
caratterizza, preservandoli, in via generale, da ogni negativa interferenza, suscettibile di provenire dall’esterno.
Le S.U. con la sentenza citata hanno, quindi, concluso che i beni gravati da uso civico di dominio collettivo sono assimilabili al regime giuridico di quelli demaniali. I terreni posseduti dai comuni e gravati da uso civico di bosco e pascolo permanente ai vincoli di inedificabilità e di destinazione – salva autorizzazione idonea a rimuovere detti limiti -vanno, pertanto, ricondotti nell’ambito di quelli appartenenti al patrimonio demaniale dell’ente territoriale, perché destinati ad un pubblico servizio (già in precedenza, tra le altre, Cass., Sez. 5, 8 agosto 2003, n. 11993).
3.6.Con riguardo a detti terreni gravati da usi civici appare, dunque, del tutto legittimo il convincimento cui sono pervenuti i giudici di appello, basato sulla presunzione – operativa in mancanza di prova contraria, gravante sul contribuente che assume la non debenza del tributo – non solo di esistenza degli stessi ma anche del permanente esercizio di tali usi da parte della generalità degli appartenenti all’ente territoriale. Pertanto, anche sotto l’ora esaminato profilo le ragioni di censura addotte dalla ricorrente Enel devono ritenersi prive di fondamento, considerando che dalle medesime difese della società si evince il riconoscimento della sussistenza degli usi civici sui terreni del Comune in oggetto, escludendosene la demanialità alla luce di una risalente giurisprudenza di legittimità, che può ritenersi superata in base agli orientamenti illustrati.
In definitiva una volta che sia stato dimostrato che un’area pubblica sia gravata da un uso civico, la demanialità della stessa si presume, a meno che non sussista un preciso titolo da cui risulti, per quella determinata terra, la trasformazione del demanio in allodio, con onere della prova a carico del privato che eccepisce la natura allodiale (in questo senso ex plurimis Sez. 2, 27 febbraio 2014, n. 4743 e Cass., Sez. 2, 18 settembre 2019, n. 23323). Del
tutto irrilevante risulta, quindi, il profilo di doglianza riferito alla produzione, da parte del Comune, di documentazione relativa al 2021 e non all’annualità in esame.
Pertanto, in tema di tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, legittimamente il giudice considera sussistente il presupposto impositivo della tassa, ai sensi dell’art. 38 del d.lgs. n. 507 del 1993 (il quale assoggetta alla tassa le occupazioni di qualsiasi natura, effettuate, anche senza titolo, nelle strade, nei corsi, nelle piazze e, comunque, sui beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei comuni e delle province), sulla base della presunzione non solo di esistenza dell’uso civico anzidetto, ma anche dell’effettivo e permanente esercizio dell’uso stesso da parte della generalità degli appartenenti all’ente territoriale. Premessa l’accertata natura demaniale dei beni gravati da usi civici e la loro occupazione da parte dell’Enel s.p.a., può dunque concludersi che, in presenza della presunzione di demanialità, sia onere della società contribuente dimostrare la sdemanializzazione dei beni, atteso che secondo pacifico indirizzo di legittimità perché possa ritenersi realizzata una sdemanializzazione tacita occorrono atti univoci e concludenti incompatibili con la volontà della pubblica amministrazione di conservare la destinazione del bene all’uso pubblico e circostanze così significative da rendere non configurabile una ipotesi diversa dalla definitiva rinuncia, da parte della p.a. al ripristino della pubblica funzione del bene stesso (v. ex multis Cass., Sez. 2, 26 febbraio 1996, n. 1480). Si è ulteriormente precisato che nemmeno il disuso da tempo immemorabile o l’inerzia dell’ente proprietario -peraltro non dedotti dalla ricorrente – possono essere invocati come elementi indiziari dell’intenzione di far cessare la destinazione, anche potenziale, del bene demaniale all’uso pubblico, poiché a dare di ciò la prova è pur sempre necessario che tali elementi indiziari siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative
da rendere impossibile formulare altra ipotesi se non quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo (Cass., Sez. 2, 11 marzo 2016, n.4827).
Solo per completezza deve rilevarsi che il quadro così delineato non può essere scalfito dalla delibera della Regione Campania n. 61 del 2016, che è una fonte secondaria e che non può, quindi, derogare la normativa primaria.
Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., la violazione degli artt. 44, 46, 47 e 50 del d.lgs. n. 507 del 1993, dell’art. 63 del d.lgs. n. 446 del 1997, dell’art. 1, commi 3 e 4, della legge n. 10 del 1991, 2, comma 1, e 12, comma 1, d.lgs. n. 387 del 2003, visto che all’attività di pubblico servizio, finalizzata alla soddisfazione di un pubblico interesse, quale è la produzione di energia elettrica, si applica il regime differenziato previsto dagli invocati artt. 46 e 47, anche a prescindere da espressa richiesta in tal senso.
Il motivo è fondato.
La questione posta dalla doglianza in esame è se la tariffa ‘agevolata’, prevista prima dagli artt. 46 e 47 del d.lgs. n. 507 del 1993 e successivamente dall’art. 63, comma 2, lett. f del d.lgs. n. 446 del 1997, spetti anche all’impresa di produzione dell’energia elettrica.
4.1.Con riferimento al diritto sovranazionale, occorre brevemente ricordare che la separazione tra imprese produttrici e imprese distributrici di energia elettrica, che è imposta dal diritto unionale al fine di scongiurare il rischio di creare discriminazioni non solo nell’accesso alla rete, ma anche negli investimenti nella rete (cfr. il considerando 9 e 24 della direttiva 2009/72/CE, contenente norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica, ed i punti 35 e 80 della sentenza della Corte giustizia nella causa C-718/18), non
esclude che le imprese separate concorrano ai fini della prestazione del servizio energetico, consistente, secondo la definizione di cui all’art. 1, n. 7 della direttiva 2012/27/UE, applicabile ratione temporis , nella « prestazione materiale, l’utilità o il vantaggio derivante dalla combinazione di energia con tecnologie o operazioni che utilizzano in maniera efficiente l’energia, che possono includere le attività di gestione, di manutenzione e di controllo necessarie alla prestazione del servizio, la cui fornitura è effettuata sulla base di un contratto e che in circostanze normali ha dimostrato di produrre un miglioramento dell’efficienza energetica o risparmi energetici primari verificabili e misurabili o stimabili ».
Pertanto, mentre, dal punto di vista soggettivo, vi è separazione tra le imprese produttrici e le altre della filiera, dal punto di vista oggettivo si giunge ad una definizione del servizio energetico come unitario.
4.2. Passando all’esame della disciplina interna è necessario soffermarsi non solo sugli artt. 46 e 47 del d.lgs. n. 507 del 1993, che si occupano specificamente della t.o.s.a.p., ma anche sull’art. 63 del d.lgs. n. 446 del 1997, che si occupa del c.o.s.a.p.
Deve, difatti, ricordarsi che l’art. 51, comma 2, del d.lgs. n. 446 del 1997, relativo al canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, che aveva previsto l’abolizione, dal 1° gennaio 1999, delle tasse per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, è stata abrogato, con effetto dal primo gennaio 1999, dall’art. 31, comma 14, legge n. 448 del 1998, con la contestuale sostituzione dell’art. 63, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 446 del 1997, che, nella versione riformulata, consentiva alle province ed ai comuni di assoggettare, in alternativa alla t.o.s.a.p., l’occupazione del suolo pubblico al pagamento di un canone da parte del titolare della concessione, determinato nel medesimo atto di concessione in base a tariffa.
L’art. 46 del d.lgs. n. 507 del 1993 stabiliva che «le occupazioni del sottosuolo e del soprassuolo stradale con condutture, cavi, impianti in genere ed altri manufatti destinati all’esercizio e alla manutenzione delle reti di erogazione di pubblici servizi, compresi quelli posti sul suolo e collegati alle reti stesse, nonché con seggiovie e funivie sono tassate in base ai criteri stabiliti dall’art. 47»: tale ultima disposizione, abbandonato il criterio della tassazione per metro lineare o quadrato, poneva quale unità di misura il chilometro lineare (vedi Cass., 22 febbraio 2002, n. 2555). L’art. 63 del d.lgs. n. 446 del 1997, alla lett. f, imponeva, invece, la previsione per le occupazioni permanenti realizzate con cavi, condutture, impianti o con qualsiasi altro manufatto da aziende di erogazione dei pubblici servizi e per quelle realizzate nell’esercizio di attività strumentali ai servizi medesimi, di una speciale misura di canone, che avrebbe dovuto essere commisurata, solo in sede di prima applicazione, al numero complessivo delle utenze relative a ciascuna azienda di erogazione del pubblico servizio, per la misura unitaria di tariffa prevista in relazione a ciascuna classe di comune, ma che successivamente è divenuta il normale criterio di quantificazione del c.o.s.a.p.
In questa sede si deve evidenziare che, per la t.o.s.a.p., il regime speciale era riconosciuto solo per le occupazioni strumentali all’esercizio e alla manutenzione delle reti di erogazione di pubblici servizi, mentre, per il c.o.s.a.p., era contemplato altresì per le occupazioni realizzate nell’esercizio di attività strumentali all’erogazione dei pubblici servizi.
Tuttavia, il secondo periodo del comma 3 dell’art. 63 del d.lgs. n. 446 del 1997, introdotto con la medesima legge n. 488 del 1999, che ha eliminato la soppressione della t.o.s.a.p. ed istituito l’alternatività della t.o.s.a.p e del c.o.s.a.p., ha precisato che per la determinazione della t.o.s.a.p., relativa alle occupazioni di cui alla lettera f) del comma 2, si applicano gli stessi criteri ivi previsti per
la determinazione forfetaria del canone. Invero, può rilevarsi che proprio l’alternatività del c.o.s.a.p. alla t.o.s.a.p., a prescindere dalla diversa natura dei prelievi, ha imposto, anche in considerazione dell’art. 3 Cost., l’applicazione delle stesse regole e degli stessi criteri di quantificazione.
Come hanno già chiarito le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. un., 7 maggio 2020, n. 8628, punto 8.11), l’art.18 della legge n. 488 del 1999, sostituendo la lettera f) del secondo comma dell’art.63 del d.lgs. n.446 del 1997, recante la disciplina del c.o.s.a.p., ha introdotto una particolare modalità di determinazione del canone per tale tipo di occupazione permanente, basata sul numero di utenze attivate, e ha esteso l’applicazione di tale criterio di calcolo anche alla t.o.s.a.p. dovuta sulla medesima tipologia di occupazioni. La disposizione è stata introdotta allo scopo di semplificare il criterio di determinazione della t.o.s.a.p., ritenendosi il metodo basato sulle utenze attive di più facile applicazione rispetto al precedente metodo incentrato sulla superficie effettivamente occupata.
In definitiva, le dianzi riportate modifiche al d.lgs. n. 446 del 1997, pur avendo interessato un’entrata di carattere extratributario (il c.o.s.a.p.), hanno avuto un’incidenza anche sulla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (t.o.s.a.p.), in quanto alla tassa è stata estesa la nuova disciplina per la predeterminazione forfetaria del canone per le occupazioni permanenti realizzate con cavi, condutture, impianti o qualsiasi altro manufatto da aziende di erogazione dei pubblici servizi e da quelle esercenti attività strumentali ai servizi stessi (Cass., Sez. 5, 20 maggio 2015, n. 10345).
Ne deriva, pertanto, che per tale tipologia di occupazioni, dal 1° gennaio 2000, è stato abbandonato il criterio di determinazione forfetaria della tassa per chilometro lineare, in favore del più semplice criterio come sopra delineato, avente il fine di consentire
una più agevole attività di quantificazione e di accertamento del tributo da parte dell’ente impositore. Inoltre, sempre a decorrere dal 1° gennaio 2000, il regime speciale è stato esteso, anche per la t.o.s.a.p., come per il c.o.s.a.p., non solo alle occupazioni strumentali all’esercizio e alla manutenzione delle reti di erogazione di pubblici servizi, ma pure alle occupazioni realizzate nell’esercizio di attività strumentali all’erogazione dei pubblici servizi.
In definitiva, l’art. 47 del d.lgs. n. 507 del 1993 risulta, in parte, abrogato con l’introduzione del citato art. 63, terzo comma, terzo periodo, del d.lgs. n. 446 del 1997, visto che continua ad operare solo con riferimento alle occupazioni non riconducibili a quelle disciplinate dall’art. 63, comma 2, lett. f, del d.lgs. n. 446 del 1997.
4.3. In quest’ottica, alla società RAGIONE_SOCIALE quale soggetto che svolge attività strumentale a quello di pubblico servizio, è applicabile la disposizione agevolativa di cui all’art. 63, comma 2, lettera f), del d.lgs. n. 446 del 1997.
Più precisamente, l’attività di produzione dell’energia elettrica, che comprende il trasporto della stessa ai soggetti distributori che, in un secondo momento, la erogano all’utente finale, va inclusa, pure in assenza di allacci diretti con gli utenti finali, tra le attività strumentali alla fornitura del servizio di pubblica utilità di distribuzione dell’energia elettrica.
Gli impianti sotterranei che trasportano l’energia prodotta dagli impianti degli operatori delle energie verso la rete di trasmissione e quelle di distribuzione, al pari di tutti gli impianti che veicolano l’energia al sistema elettrico nazionale, non possono che risultare direttamente funzionali all’erogazione del servizio a rete secondo la definizione utilizzata dal d.l. n. 146 del 2021, come convertito dalla l. n. 215 del 2021, ricadendo, così, nel campo di applicazione delle tariffe agevolato. Ciò in quanto la filiera del sistema elettrico nazionale, che è una rete unica integrata, si compone di una serie
di fasi di cui la produzione costituisce la fase antecedente a quelle di trasmissione, di dispacciamento e di distribuzione. In particolare l’attività d’impresa svolta dalle società di produzione d’energia costituisce una fase immediatamente antecedente e necessaria rispetto alle altre citate fasi della filiera del mercato elettrico (trasmissione, dispacciamento e distribuzione), fasi connesse da connaturati vincoli inscindibili, tali per cui, in assenza dell’una, non possono trovare compimento le altre (c.d. vincolo di complementarietà) e per cui tutte le menzionate attività sono poste in essere esclusivamente nell’interesse delle altre (c.d. vincolo di esclusività).
Del resto, secondo la giurisprudenza interna e sovranazionale (la quale parla in genere di servizi di interesse generale), i fattori distintivi del pubblico servizio sono, da un lato, l’idoneità del servizio, sul piano finalistico, a soddisfare in modo diretto esigenze proprie di una platea indifferenziata di utenti, e, dall’altro, la sottoposizione del gestore ad una serie di obblighi, tra i quali quelli di esercizio e tariffari, volti a conformare l’espletamento dell’attività a norme di continuità, regolarità, capacità e qualità: requisiti entrambi compresenti nel caso di specie, essendosi in presenza di un impianto capace di dare luogo ad un servizio e destinato a raggiungere le utenze terminali di un numero indeterminato di persone, per soddisfare una esigenza di rilevanza pubblica.
In definitiva, tra le società esercenti attività strumentali all’erogazione di servizi pubblici rientrano anche le aziende che non raggiungono con i singoli utenti, in quanto trasportano i beni ed i servizi da erogare per un tratto limitato, al termine del quale subentra un altro vettore di diversa natura, visto che il concetto di rete di erogazione di pubblici servizi, cui il legislatore ha inteso attribuire un ruolo assorbente nella determinazione del particolare regime impositivo in esame, va inteso in senso unitario (come, peraltro, già rilevato, già con riferimento all’art. 47 del d.lgs. n.
507 del 1993 da Cass., Sez. 5, 1° febbraio 2005, n. 1974 e Cass., Sez. 5, 20 ottobre 2008, n. 25479).
4.4. Non rappresenta un elemento ostativo al riconoscimento del regime speciale la circostanza che l’RAGIONE_SOCIALE sia una società per azioni che persegue scopi di lucro.
Al riguardo, giova richiamare Cass., Sez. un., 7 maggio 2020, n. 8628, secondo cui nessuna rilevanza può essere ascritta all’elemento dato dalla ritrazione dalla relazione materiale con la cosa pubblica di un personale beneficio economico: «in aderenza al dettato normativo di cui all’art.39 (del d.lgs. n. 507 del 1993), come sopra interpretato, in presenza di un atto di concessione o di autorizzazione, per individuare il soggetto passivo della t.o.s.a.p. diventa, infatti, irrilevante indagare a chi sia riconducibile l’interesse privato ritratto dall’occupazione, essendo sufficiente e, anzi, assorbente il rapporto esistente tra l’ente territoriale e il contribuente autorizzato, quale specifico destinatario dei provvedimenti con cui l’Amministrazione territoriale ha allo stesso trasferito, previo controllo della sussistenza dei necessari requisiti, facoltà e diritti sulla cosa pubblica alla stessa riservati».
Pertanto, non è significativa, ai fini del riconoscimento della tariffa ridotta in esame, la natura di s.p.a. della contribuente, vieppiù se si considera che l’attenzione deve essere concentrata sul tipo di attività svolta e non già sulla veste del soggetto che la esercita. Il pubblico servizio può, difatti, essere erogato anche da soggetti privati.
Ulteriori conferme a tale conclusione pervengono dalla legge n. 146 del 1990, che qualifica l’approvvigionamento di energie e dei prodotti energetici, come servizi pubblici essenziali, dalla direttiva attuativa della Presidenza del Consiglio dei ministri del 27 gennaio 1994, dalla legge istitutiva della Autorità amministrativa per l’energia e il gas ex l. 14 novembre 1995, n. 481 – produzione normativa è stata il frutto di un prolungato dibattito interpretativo,
essendosi passati, nel tempo, dalla preferenza per un inquadramento soggettivo dell’attributo pubblico riferito al servizio, ad una lettura invece in senso oggettivo che riconosce rilevanza alle prestazioni dei servizi pubblici non in ragione del soggetto che ne assicura la fornitura, quanto delle caratteristiche oggettive delle prestazioni erogate in considerazione del numero indeterminato dei destinatari che ne traggono giovamento.
Anche in ambito penale è stato osservato che la qualificazione della energia elettrica come servizio pubblico, riferito tanto alla fase della produzione che a quella della distribuzione, rappresenta il frutto di una serie di interventi normativi primari e secondari volti a disciplinare tali fasi con regolamentazione pubblica derogatoria, ad assoggettare il gestore al dovere di imparzialità e ad affermare la destinazione istituzionale dell’attività al pubblico, in modo da comprendere solo le attività che soddisfano direttamente i bisogni collettivi e non quelle che perseguono tale scopo solo in via strumentale (Cass. pen., Sez. IV, 23 ottobre 2024, n. 40162).
Del resto, se il soggetto occupante fosse pubblico, sarebbe già di per sé esente dall’imposizione, ai sensi dell’art. 49, lett. a), d.lgs. n. 507 del 1993.
4.5. Parimenti, non possono valorizzarsi in senso contrario alla conclusione raggiunta alcuni precedenti di questa Corte (Cass., Sez. 5, 27 aprile 2022, n. 13142 e Cass., Sez. 5, 28 aprile 2022, n. 13332), secondo cui, in tema di tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, e con riguardo alle occupazioni del sottosuolo e del soprassuolo, il criterio di determinazione della tassa previsto dagli artt. 46 e 47 del d.lgs. n. 507 del 1993 per le occupazioni connesse all’esercizio ed alla manutenzione delle reti di erogazione di pubblici esercizi non è estensibile alle occupazioni con impianti privati, in quanto costituisce un criterio agevolato per ragioni di pubblica utilità, le quali, evidentemente, non sussistono nelle
occupazioni con impianti privati (Cass., Sez. 5, 5 luglio 2017, n. 16539).
Per quanto concerne, in particolare, Cass., Sez. 5, 5 luglio 2017, n. 16539, secondo cui non sarebbe estensibile alle occupazioni con impianti privati un criterio agevolato per ragioni di pubblica utilità, come condivisibilmente evidenziato dalla odierna ricorrente, si tratta di una pronuncia che si riferisce ad un’occupazione operata con impianto irriguo di un soggetto persona fisica, per la soddisfazione di un bisogno personale, non avvinta da alcun vincolo di complementarietà ed esclusività alla filiera nazionale dell’energia, mentre, nel caso di specie, i beni, tramite cui è effettuata l’occupazione ed oggetto di accertamento, appartengono ad una rete che costituisce la infrastruttura strumentale alla erogazione del pubblico servizio di distribuzione di energia. Il precedente, che fonda anche altre pronunce di questa Corte ha, quindi, ad oggetto fattispecie non assimilabili a quella che oggi ci occupa.
4.6. Né può condividersi la tesi secondo cui, avendo la ricordata norma ‘agevolativa’, dal punto di vista sistematico, natura speciale (recando una deroga alle regole generali di determinazione della tariffa dovuta), sarebbe imposta una lettura ed interpretazione rigorosamente conforme al suo tenore letterale, senza ulteriori possibilità di applicazioni analogiche o di interpretazioni estensive (Consiglio di Stato, 27 marzo 2013, n. 1788).
Invero, sebbene si sia in presenza di una tariffa agevolata (vale a dire, favorevole ai beneficiari), a ben vedere, si è al cospetto non già di una norma agevolativa (vale a dire, che introduce una deroga alle regole ordinarie), ma di un criterio di determinazione della tariffa che assurge a criterio ordinario relativamente a determinati beni.
In particolare, il legislatore ha effettuato una comparazione e una non irragionevole composizione degli interessi pubblici in gioco
(quello dell’ente locale, comune e provinciale, di ricavare un’entrata dall’utilizzazione dei suoi beni pubblici e quello dei cittadini all’utilità derivante dall’erogazione di servizi pubblici), sottraendo la relativa valutazione all’ente impositore, considerandola una questione di interesse generale e non meramente localizzabile (Cons. Stato, sez. V, 25 novembre 2022, n. 10382; Cons. Stato, Sez. V, 24 ottobre 2023, n. 9184). Dunque, in simili ipotesi, il sacrificio che la collettività sopporta per la occupazione di suolo pubblico, unitamente al vantaggio economico del soggetto che utilizza il suolo pubblico, trovano parziale ma notevole compensazione nel soddisfacimento degli interessi dei consociati e nella realizzazione di determinate utilità di rilevanza sociale (benefici sociali) che la stessa occupazione di suolo è in grado di assicurare attraverso la installazione di impianti e di reti preordinate, per loro natura, allo svolgimento di un determinato servizio in favore della medesima collettività di riferimento territoriale.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, non si pone, dunque, un problema di interpretazione estensiva.
4.7. Per quanto non sia applicabile alla fattispecie in oggetto, in virtù della disposizione transitoria di cui all’art. 1, comma 816, della legge n. 160 del 2019, che fa decorrere dal 2021 il canone patrimoniale di concessione, depone nel senso che si è inteso avallare anche la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 5, comma 14 quinquies, lett. a) e b), del d.l. n. 146 del 2021, convertito con modificazioni nella legge n. 215 del 2021, il quale stabilisce che <>.
Proprio la disposizione di interpretazione autentica fa riferimento alle aziende che esercitano attività strumentali alla fornitura di servizi di pubblica utilità, dovendo l’espressione ‘quali la trasmissione di energia elettrica e il trasporto di gas naturale’ essere intesa come a titolo meramente esemplificativo.
D’altronde, anche il Consiglio di Stato, nelle più recenti sentenze (cfr., ad esempio, Cons. Stato, 4 novembre 2022, n. 9697 e 7 novembre 2022, n. 9759), sebbene con riferimento al canone unico patrimoniale, istituito con la legge n. 160 del 2019, ha riconosciuto la strumentalità dell’attività svolta dalle aziende di produzione rispetto alla fornitura di servizi di pubblica utilità, come la distribuzione dell’energia elettrica, in difformità con l’orientamento riferito al c.o.s.a.p. (di cui resta, tuttavia, espressione Cons. Stato, 25 novembre 2022, n. 10382).
4.8. Sulla base dei rilievi che precedono, va enunciato il seguente principio di diritto: <>.
5. Con il quinto motivo di ricorso la società contribuente ha denunciato la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., dell’art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997, atteso che la Commissione tributaria regionale ha ritenuto sussistente la colpa grave della società per non aver presentato la denuncia dell’occupazione del suolo pubblico, nonostante l’impossibilità di desumere l’appartenenza dei beni al demanio o al patrimonio indisponibile del Comune e nonostante la configurabilità dell’obbligo di denuncia per le occupazioni permanenti come una tantum , con conseguente individuazione del soggetto inadempiente nell’originario proprietario della centrale e, cioè, nell’Ente nazionale per l’energia elettrica.
Il motivo è infondato.
La decisione risulta corretta, in primo luogo, alla luce dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, la prova dell’assenza di colpa grava, secondo le regole generali dell’illecito amministrativo, sul contribuente (tra varie, Cass., Sez. 5, 3 giugno 2015, n. 11433 e Cass., Sez. 5, 17 marzo 2017, n. 6930). Spetta dunque all’Ufficio provare, anche mediante presunzioni semplici, i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria vantata, mentre spetta all’opponente che voglia andare esente da responsabilità dimostrare di aver agito in assenza di colpevolezza (Cass., Sez.un., 30 settembre 2009, n. 20930, resa con riguardo in generale alle sanzioni amministrative). È espressione di queste regole anche l’art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997, ai sensi del quale nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.
A ciò si aggiunga che l’obbligo di denuncia di cui all’art. 50 del d.lgs. n. 507 del 1993 (sussistente relativamente ai terreni gravati da usi civici, in quanto riconducibili al patrimonio indisponibile del
Comune), non essendo stato adempiuto, secondo le stesse allegazioni della ricorrente incidentale, dalla propria dante causa, sicuramente persisteva a carico della società contribuente, che, una volta subentrata nel rapporto concessorio, avrebbe dovuto effettuare la dichiarazione. Difatti, il comma 2 del menzionato art. 50, ai sensi del quale l’obbligo della denuncia, nei modi e nei termini di cui al comma precedente, non sussiste per gli anni successivi a quello di prima applicazione della tassa, semprechè non si verifichino variazioni nella occupazione che determinino un maggiore ammontare del tributo, può trovare applicazione solo laddove la denuncia sia stata presentata e non laddove sia stata omessa (in questo senso questa Corte si è già pronunciata con riferimento ad i.c.i. ed a t.a.r.s.u.: cfr. Cass., Sez. 5, 9 giugno 2017, n. 14399, e Cass., Sez. 5, 8 ottobre 2019, n. 25063). Peraltro, pur essendo unico il rapporto concessorio, in virtù del quale è effettuata la occupazione, il mutamento del soggetto contribuente comporta l’insorgenza dell’obbligo dichiarativo.
Sono, dunque, del tutto destituite di fondamento le difese della società contribuente in ordine all’assenza di colpa per l’omessa presentazione della denuncia.
6. Con l’ultimo motivo di ricorso la società contribuente ha dedotto la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., degli artt. 6, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, 8 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 10, comma 3, della legge n. 212 del 2000, avendo escluso la Commissione tributaria regionale le condizioni di obiettiva incertezza normativa in ordine alla doverosità della denuncia di occupazione, nonostante l’assenza di una specifica previsione di legge in ordine alla riconducibilità dei terreni gravati da usi civici al demanio o al patrimonio indisponibile del Comune e la presenza di divergenti orientamenti giurisprudenziali.
Il motivo è infondato, in quanto l’esclusione dell’applicazione dell’art. 10, comma 3, della legge n. 212 del 2000, da parte del giudice di appello, risulta corretta, non essendoci, in punto di debenza del tributo sulle aree su cui gravano usi civici, divergenti orientamenti giurisprudenziali o contrapposte indicazioni delle amministrazioni pubbliche ed essendo chiara l’indicazione del legislatore. Difatti, come noto, in tema di sanzioni amministrative tributarie, l’incertezza normativa oggettiva -che deve essere distinta dalla ignoranza incolpevole del diritto, come si evince dall’art. 6 del d.lgs. n. 472 del 1997 – è caratterizzata dalla impossibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile e può essere desunta da alcuni “indici”, quali, ad esempio: 1) la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) l’assenza di una prassi amministrativa o la contraddittorietà delle circolari; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; 8)il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; 10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente (tra le tante, Cass., Sez. 5, 13 giugno 2018, n. 15452) -nessuno dei quali riscontrato nella sentenza impugnata alla luce dei più recenti ed oramai consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità, già illustrati con riferimento ai precedenti motivi.
6.In conclusione, va accolto solo il quarto motivo di ricorso, rigettati gli altri, e conseguentemente la sentenza impugnata deve essere cassata limitatamente al motivo accolto con rinvio alla Corte
di giustizia tributaria di secondo grado della Regione Campania, in diversa composizione, cui si demanda anche la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte di cassazione:
in accoglimento del quarto motivo di ricorso, rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata limitatamente al motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Regione Campania, in diversa composizione, cui si demanda anche la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 12/11/2024.