Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 25646 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 25646 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 25/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25638/2016 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (P_IVA) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della SICILIA-SEZ.DIST. MESSINA n. 1178/2016 depositata il 29/03/2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11/09/2024 dal Co: COGNOME NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La contribuente è istituzione pubblica di assistenza e beneficenza –RAGIONE_SOCIALE, istituzionalmente vocata all’assistenza e beneficenza delle persone bisognose in agro di Messina, capace di procacciarsi le risorse necessarie alla propria missione caritatevole tramite redditi di fabbricato, donde le veniva notificata cartella esattoriale per mancata presentazione della dichiarazione dei redditi per l’ann o di imposta 2002, con ripresa a tassazione ed irrogazione di sanzioni. Il collegio di prossimità annullava la pretesa tributaria sull’assunto della natura assistenziale della contribuente, ma il grado di appello aveva diversa sorte, ritenendo tassativo l’elenco degli enti pubblici esenti da imposta, non integrabile dagli eventuali loro enti strumentali, ancorché con carattere benefico. Inoltre, evidenziava che la presenza di un reddito da fabbricato doveva ritenersi attività commerciale tassabile, ancorché i proventi ricavati fossero integralmente impiegati per lo svolgimento dell’attività istituzionale. Avverso questa sentenza propone ricorso l’ente caritatevole, spiegando tre mezzi cassatori, cui replica il patrono erariale con tempestivo contro ricorso.
CONSIDERATO
Vengono proposti tre mezzi di ricorso.
Con il primo profilo si propone censura ex articolo 360, primo comma, numero 4 codice di procedura civile per violazione di cui all’articolo 112 del medesimo codice di rito, lamentando vizio di ultrapetizione. Nello specifico, il collegio d’appello non si sarebbe attenuto alle doglianze della parte pubblica circa la necessità di guardare nel concreto l’attività svolta dall’ente, senza rimanere alla sua qualifica giuridica, ma si sarebbe spinto ad una nuova e diversa
interpretazione del quadro normativo, giungendo ad una conclusione ultronea a quanto prospettato dalle parti, ampliando il thema decidendum in ordine alla elencazione degli enti esenti e alla determinazione complessiva del reddito degli enti non commerciali.
Con il secondo motivo si prospetta censura ai sensi dell’articolo 360, primo comma, numeri 3 e 5 del codice di procedura civile per diversa violazione dell’articolo 112 del medesimo codice di rito. Nello specifico, si ritiene che il giudice d’appello avrebbe dovuto riconoscere l’agevolazione di carattere soggettivo sul reddito imponibile comunque calcolato da ridursi al 50% in ragione dello scopo benefico perseguito. Si lamenta così il mancato esercizio della rimodulazione del quantum dovuto secondo il carattere di annullamento-merito della giurisdizione tributaria. Con lo stesso motivo per le stesse ragioni si lamenta il mancato annullamento delle sanzioni, in ragione dell’obiettivo incertezza normativa e dell’assenza di un orientamento giurisprudenziale di riferimento.
Con il terzo motivo si profila violazione ai sensi dell’articolo 360, primo comma, numero 3 del codice di procedura civile per violazione e falsa applicazione dell’articolo 88 e 108 del decreto del Presidente della Repubblica numero 917 del 1986. Si contesta in particolare la ricostruzione per cui i redditi degli enti pubblici, quali le RAGIONE_SOCIALE, rimarrebbero assoggettati a tassazione in forza del combinato disposto di cui agli articoli 87, primo comma, lettera C), 88, secondo comma, e 108 del decreto del Presidente della Repubblica numero 917 del 1986 che assegna rilievo all’attività non commerciale per cui detti enti sono stati istituiti.
I tre motivi, strettamente legati, si incentrano sul regime di tassazione dei redditi degli enti caritatevoli, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte di legittimità ha affrontato il tema con orientamento costante per l’ultimo quarto di secolo. Ed infatti, è stato ritenuto che gli immobili di tali enti siano
esenti da imposta solo ove strettamente strumentali all’esercizio dell’attività caritatevole, diversamente costituendo cespiti suscettibili di reddito fondiario. Più precisamente, l’art. 1, comma quinto del D.L. n. 396 del 1991, oltre a modificare l’art. 25, comma secondo, lett. a) del d.P.R. n. 643 del 1973 e a contemplare perciò l’estensione dell’esenzione dall’INVIM di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 643 cit. anche alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, ha altresì espressamente previsto – limitatamente agli immobili che al 31 ottobre 1991 fossero da queste ultime destinati all’esercizio delle attività istituzionali – l’applicazione in via retroattiva di un tal, così ampliato, regime di esenzione anche in relazione all’INVIM prevista dall’art. 1 del D.L. n. 299 del 1991. Una tale ultima disposizione nulla ha innovato – peraltro – in ordine al requisito da ritenersi implicito in via generale nell’art. 25, comma secondo, lett. c), cit., alla luce del quale il godimento del beneficio presuppone la destinazione immediata e diretta di detti immobili alla realizzazione dei fini istituzionali mentre una eventuale utilizzazione indiretta o mediata ( ad es. mediante locazione) comporta solo la riduzione del 50 per cento dell’imposta ai sensi della lett. a) del comma quinto dell’art. 25 cit..(cfr. Cass. V, n. 14198/2000).
Per conseguenza, il reddito prodotto dagli immobili non strettamente funzionali dev’essere calcolato secondo il combinato disposto degli articoli (in allora) 87, 88 e 108 del TUIR, essendo stato riconosciuto che in tema di IRPEG, l’esenzione dal relativo pagamento sancita dall’art. 88, primo comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, riguarda solo gli organi e le amministrazioni dello Stato, gli enti territoriali, i consorzi ed associazioni tra enti locali, nonché gli enti gestori di demani collettivi, non anche gli enti pubblici istituiti esclusivamente al fine dell’esercizio di attività previdenziali, assistenziali e sanitarie (nella specie l’RAGIONE_SOCIALE), che, invece, sono assoggettati al pagamento in forza del combinato disposto di cui agli artt. 87, primo comma, lett. c),
88, secondo comma, e 108 del d.P.R. cit. che assegna rilievo all’attività, non commerciale, per cui detti enti sono stati istituiti. Ne consegue che il reddito complessivo di questi ultimi va determinato sommando i vari redditi, compresi quelli fondiari, che mantengono la loro autonomia impositiva e non confluiscono nell’unica categoria del reddito d’impresa, senza che sia applicabile la deroga di cui all’art. 40 del d.P.R. n. 917 cit. (cfr. Cass. V, n. 9791/2014; conf. VI5 n. 8322/2015). Il principio è stato ulteriormente ribadito da questa Corte, in controversia analoga tra le stesse parti relativa a diversa annualità. Cass, Sez. 5 – n. 3807 del 16/02/2018 la quale ha, infatti, così statuito: <>.
A questo insegnamento si è attenuta la sentenza in scrutinio, donde non sussiste la violazione lamentata nel primo e terzo motivo. Trattasi peraltro di operazione ermeneutica, attinente all’interpretazione del dato normativo, che esclude qualsivoglia ultrapetizione sulla domanda d’appello così come riqualificata in sentenza alla pagina 2, settimo capoverso, tesa a contestare la sufficienza della natura formalmente caritatevole dell’ente, chiedendo scrutinarsi la strumentalità e la rilevanza del reddito diverso, ancorché funzionale alla propria missione.
Né miglior sorte può avere il secondo motivo, che si traduce in un’inammissibile richiesta di rivalutazione dell’apporto probatorio, verso una diversa quantificazione nel merito, soprattutto per
l’irrogazione delle sanzioni come non può parlarsi di incertezza normativa o di assenza di orientamento giurisprudenziale di riferimento, sol che si ponga mente alla sequenza delle pronunce di questa Corte sopracitate. Né ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione (Cass. III, n. 24953/2020).
In definitiva, la sentenza in scrutinio si appalesa conforme con l’orientamento consolidato di questa Suprema Corte di legittimità, alla quale resta inibito ogni intervento in ordine alla rimodulazione del dovuto -profilo squisitamente di merito- ove la decisione sia sostenuta da congrua motivazione (anche con semplice richiamo a precedenti di questa Corte) che si appalesi in contrasto con le richieste di parte, da ritenersi quindi implicitamente rigettate (cfr. Cass. V, n. 5583/2011).
Il ricorso è, quindi, infondato e deve essere rigettato.
Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in €.cinquemilaseicento/00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il giorno 11/09/2024.