Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 20750 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 20750 Anno 2025
Presidente: COGNOME RAGIONE_SOCIALE
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9366/2020 R.G. proposto da:
NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, pec
;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.LAZIO n. 4503/2019 depositata il 22/07/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. Sull’impugnazione dell’avviso di liquidazione dell’imposta e di irrogazione delle sanzioni in relazione all’ordinanza del 3 maggio 2016 emesso dal tribunale ordinario di Frosinone, la Commissione tributaria provinciale di Frosinone dichiarava la cessazione della materia del contendere, compensando le spese del giudizio. Sull’appello della contribuente, la Commissione tributaria regionale del Lazio rigettava il gravame proposto avverso il capo della sentenza di primo di prime cure relativo alla liquidazione delle spese processuali.
In particolare, i giudici regionali ritenevano che l’annullamento in autotutela dell’amministrazione finanziaria disposto durante il termine di novanta giorni concessi dall’art. 17 -bis del citato d.lgs. aveva determinato la conclusione della procedura, rendendo dunque superfluo il deposito del successivo ricorso da parte della contribuente la cui .
Aggiungevano i giudici distrettuali che la procedura del reclamo è prevista a pena di improcedibilità del ricorso dinanzi al giudice tributario, in quanto finalizzato alla deflazione del contenzioso tributario. Sulla base di tali premesse, ritenevano corretta la declaratoria di cessazione della materia del contendere ex art. 46 d.lgs. n. 546/1992 e conseguente compensazione delle spese.
Ricorre la contribuente, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe.
Replica con controricorso l’agenzia delle entrate.
MOTIVI DI DIRITTO
1.Il primo motivo di ricorso, proposto ai sensi del canone censorio di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., deduce la violazione o falsa applicazione degli articoli 15 c.c., 1, 2 e 17-bis del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nonché dell’art. 100 c.p.c. Si afferma che i giudici distrettuali hanno erroneamente interpretato le norme rubricate, ritenendo che l’annullamento in autotutela nel termine di novanta giorni previsto dall’art. 17-bis citato permettesse all’Agenzia delle entrate di sottrarsi al rimborso delle spese di lite sostenute dalla ricorrente in relazione alla prima fase di cui alla tabella n. 23 d.m. Giustizia n.55 del 2014, fase che secondo il giudice d’appello non sarebbe ricompreso nell’interesse ad agire in giudizio. Si obietta che il giudizio di primo grado ha inizio con la notifica del ricorso e non con il deposito presso la Commissione tributaria provinciale, ragion per cui l’Agenzia delle entrate avrebbe dovuto provvedere all’annullamento in autotutela dell’atto impositivo opposto e provvedere al rimborso delle spese di lite fino a quel momento sostenute. Aggiunge la ricorrente che mancano peraltro le gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate per la compensazione delle spese processuali.
2. Con la seconda censura la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 46 d.lgs. 546/1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.; per avere il decidente ritenuto la corretta applicazione dell’art. 46, comma 3, del decreto legislativo summenzionato da parte del giudice di primo grado, ancorché la cessazione della materia del contendere non sia avvenuta per un caso di definizione delle pendenze tributarie previsto dalla legge che pone le spese del giudizio a carico della parte che le ha anticipate. In particolare, obietta la ricorrente che l’annullamento in autotutela dell’atto impositivo è compreso nelle ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 46 citato, vale a dire in ogni altro caso di
cessazione della materia del contendere per il quale non è prevista la compensazione delle spese di lite. Si soggiunge che l’errore del giudice di primo grado è stato quello di ricomprendere l’annullamento dell’avviso di liquidazione opposto fra le ipotesi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge. Pertanto, poiché il provvedimento di autotutela non è stato tempestivamente adottato a seguito della relativa istanza proposta in data 23 agosto 2016, costringendola ad affrontare le spese legali per proporre e ottenere per questa via l’annullamento dell’atto, permane(va) la responsabilità dell’amministrazione finanziaria e l’onere di tenerla indenne dalle spese di lite comunque sostenute per la prima fase del giudizio.
3.In via preliminare va esaminata la seconda doglianza, la quale si rivela inammissibile in quanto non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata.
Il Collegio d’appello non ha ritenuto, come assume parte ricorrente, che la cessazione della materia del contendere fosse avvenuta per un caso di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge, affermando, invece, che l’annullamento in autotutela rientrasse nelle altre ipotesi di estinzione per cessazione della materia del contendere, la quale non è prevista solo per fattispecie tipizzate predeterminate dalla legge, . Correttamente il giudice d’appello ha applicato la disciplina di cui all’art. 46 cit. , dichiarando la cessazione della materia del contendere.
Nel processo tributario, difatti, il sopravvenuto annullamento, per qualsiasi motivo, dell’atto impugnato determina la cessazione della materia del contendere, in quanto la prosecuzione del giudizio non
potrebbe comportare alcun risultato utile per il contribuente, stante l’inammissibilità, in detto processo, di pronunce di mero accertamento dell’illegittimità della pretesa erariale, senza che, peraltro, il diritto di difesa dello stesso contribuente sia violato dall’eventuale riedizione del potere da parte dell’Amministrazione finanziaria, a fronte della quale potrà essere proposta impugnazione contro il nuovo atto impositivo. (Cass. n. 33587/2018, Cass. n. 5351/2020).
4.Il primo motivo merita accoglimento.
Va premesso che si verte in ipotesi di compensazione delle spese processuali susseguente all’annullamento in autotutela dell’atto impositivo, sicché viene in rilievo il disposto di cui all’art. 46 del d.lgs. n. 546 del 1992 che contempla l’ipotesi dell’estinzione (parziale o totale) del giudizio nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere e che al comma 3 prevede che le spese del giudizio estinto a norma del comma 1 restano a carico della parte che le ha anticipate, salvo diversa disposizione di legge .
La Corte costituzionale, con sentenza n. 274 del 2005, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto comma nelle ipotesi in cui si riferisce alla cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge. «La Corte delle leggi ha specificato che l’obbligo imposto da detto comma al giudice stesso di lasciare, in caso di “estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere”, le spese processuali “a carico della parte che le ha anticipate” integra(va) una ipotesi di vera e propria “compensazione ope legis” di quelle spese. Siffatta (sostanziale) “compensazione”, quindi, siccome disposta (peraltro solo per le ipotesi contemplate) dal legislatore (perciò “ope legis”), intuitivamente, è, ontologicamente, diversa dalla operazione logica, effetto di apposito giudizio, di “compensazione” delle medesime
spese, consentita al giudice dalla seconda parte del medesimo d.lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 1, “la commissione tributaria può dichiarare compensate in tutto o in parte le spese, a norma dell’art. 92 c.p.c., comma 2”, come deroga alla generale previsione della prima parte dello stesso art. 15, per la quale “la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio” (da liquidare “con la sentenza”)» (così in Cass. n. 19947 del 2010).
Nella formulazione applicabile, ratione temporis, alla presente controversia (senza che il risultato interpretativo si diversifichi in ragione delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 220 del 2023) il tenore letterale dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 (nel richiamare le «gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate») trova riscontro nell’art. 92, comma 2, cod. proc. civ., a seguito dell’intervento additivo di C. cost. n. 77 del 2018, che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del d.l. 12/09/ 2014, n. 132 – nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. La stessa dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, cod. proc. civ. ha trovato, quale riferimento sistematico, le modifiche apportate all’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 ad opera del d.lgs. 156 del 2015.
In particolare, l’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156 ha sostituito gli originari commi 2 e 2bis dell’art. 15 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 ed ha, tra l’altro, previsto che le spese del giudizio possono essere compensate in tutto o in parte, oltre che in caso di soccombenza reciproca, anche «qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni» che devono essere espressamente motivate.
Proprio dalla pronuncia resa da C. Cost. n. 77 del 2018 si traggono le coordinate ermeneutiche che possono condurre alla compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 e 92, comma 2, cod. proc. civ. (alla luce dell’intervento additivo appena richiamato). La Corte costituzionale ha rilevato, in primo luogo, che la regola generale è quella della liquidazione delle spese in favore della parte vittoriosa; il «normale complemento» dell’accoglimento della domanda ha affermato questa Corte (sentenza n. 303 del 1986) -è costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa». Tale regola non ha, tuttavia, carattere assoluto e inderogabile, sicché è ben possibile -ha affermato questa Corte (sentenza n. 157 del 2014) – «una deroga all’istituto della condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, in presenza di elementi che la giustifichino (sentenze n. 270 del 2012 e n. 196 del 1982), non essendo, quindi, indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese (sentenza n. 117 del 1999)».
In secondo luogo, l’attuale formulazione dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. (cui rinviava anche l’art. 15, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992, prima delle modifiche ad opera del d.lgs. n. 156 del 2015) che impone la presenza di «gravi ed eccezionali ragioni», finisce per restringere i margini del sindacato giurisdizionale, riducendo, in tal modo, le possibili deroghe alla regola generale della soccombenza, in tal modo i rapporti tra la regola cd. della soccombenza (art. 15, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992) e quella speciale della compensazione (art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992) risultano costruiti in termini di norma generale-norma eccezionale, e la seconda come una sorta di correttivo alla prima, di cui finisce per modulare l’applicazione secondo il principio di proporzionalità.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità (Cass. 20 aprile 2012, n. 6279; conf. Cass. n. 16470 del 2018) le «gravi ed eccezionali ragioni», da indicarsi esplicitamente nella motivazione ed in presenza delle quali il giudice può compensare, in tutto o in parte, le spese del giudizio, devono trovare puntuale riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa (Cass., ord. 15 dicembre 2011, n. 26987) e comunque devono essere appunto indicate esplicitamente nella motivazione della sentenza (Cass., ord. n. 18495/2023; Cass. n. 1950 del 24/01/2022; Cass., 13 luglio 2011, n. 15413 e Cass. 20 ottobre 2010, n. 21521).
Nel caso in esame, si verte in ipotesi di estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 46, primo comma del d.lgs n. 546 del 1992, per cessazione della materia del contendere determinata dall’annullamento in autotutela dell’atto impugnato e può essere disposta la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 15, primo comma, del medesimo d.lgs., in quanto intervenuta all’esito di una valutazione complessiva della lite da parte del giudice tributario; si tratta, dunque, di un’ipotesi diversa dalla compensazione “ope legis” prevista dal terzo comma dell’art. 46 sopra citato, come conseguenza automatica di qualsiasi estinzione del giudizio, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 274 del 2003 (Cass. n. 32963 del 17/12/2024; Cass. n. 33157/2023, Cass. n. 33157/2023, nello stesso senso, nello stesso senso, n. 3950/2017 Cass. n. 3950/2017; Cass. n. 22231 del 26/10/2011);
Nella fattispecie sub iudice , la Corte territoriale ha ritenuto che giustificasse la compensazione delle spese di lite la circostanza che l’annullamento dell’atto impositivo era stato disposto nella fase di reclamo, prima del deposito del ricorso introduttivo del giudizio, la quale, avendo una funzione deflattiva del contenzioso tributario, rende(va) superfluo il deposito successivo del ricorso notificato
all’ente impositore, senza tuttavia considerare che il contribuente aveva ottenuto l’annullamento dell’atto impositivo ritenuto dal medesimo illegittimo, solo successivamente alla notifica del ricorso, sostenendo le spese per la redazione dell’atto e della sua notifica non rimborsate dall’amministrazione con l’atto adottato in sede di autotutela.
Tuttavia, se non può sostenersi il diritto del contribuente alla refusione delle spese della fase del reclamo in tutte le ipotesi di accoglimento del reclamo, allo stesso modo, però, non sembra corretto escludere aprioristicamente tale diritto in tutte le ipotesi in cui l’annullamento dell’atto viziato sarebbe potuto e dovuto intervenire in una fase anteriore a quella della procedura prevista dall’art. 17 bis, d.lgs. n. 546/1992 ovvero, come precisato infra, in tutte le ipotesi di illegittimità originaria dell’atto impositivo. Va, dunque escluso l’automatismo della compensazione delle spese nel caso di annullamento dell’atto in sede di reclamo, senza negare, tuttavia, che gravare l’amministrazione dei costi della procedura ex art. 17 bis cit. in ogni caso potrebbe risultare irragionevole. Si pensi, ad esempio, ai casi in cui l’annullamento sia disposto per motivi diversi da quelli fatti valere dal contribuente nell’istanza di reclamo o dipenda dall’avvenuta presentazione di documentazione prima non esibita. In fattispecie come queste sarebbe iniquo addossare all’ente impositore le spese della procedura ex art. 17 bis d.lgs. n. 546/1992.
Versandosi in fattispecie di cessazione della materia del contendere, il regolamento delle spese processuali -poiché non indefettibilmente ancorato alla compensazione – va informato al criterio correlato a siffatta tipologia di pronuncia della soccombenza virtuale, per cui il giudice investito della valutazione in seguito al deposito del ricorso è tenuto ad individuare l’illegittimità originaria o meno dell’atto impositivo annullato dall’amministrazione e dunque accertare l’eventuale sua negligenza (Cass.n.5191 del
2015; Cass. 31/08/2015, n. 17312; Cass.11/02/2015, n.2719; n. 6016/2017). Nel processo tributario, alla cessazione della materia del contendere per annullamento dell’atto in sede di autotutela non si correla, pertanto, necessariamente la condanna alle spese secondo la regola della soccombenza virtuale, qualora tale annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione (Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 22231 del 26/10/2011, Rv. 620084; conf. Cass. n. 7273 del 2016; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 19947 del 21/09/2010, Rv. 614544, e Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 3950 del 14/02/2017, Rv. 643203).
L’eventuale responsabilità dell’ufficio deve essere di fatto valutata caso per caso, dovendosi avere riguardo alla configurabilità nella fattispecie concreta dell’ingiustizia del danno, collegata alla sussistenza di un comportamento colposo dell’amministrazione.
Va dunque affermato il seguente principio di diritto: .
Diversamente la redistribuzione dei costi di lite sarebbe innervata irrazionalmente dalla casualità, determinata dalla tempistica della caducazione del titolo(Cass. n.31955/2018).
Dalle considerazioni che precedono deriva che non ricorrevano gravi ed eccezionali ragioni che giustificassero la compensazione delle spese relative alla fase del reclamo del primo grado di giudizio.
In accoglimento del primo motivo, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio in diversa composizione per la liquidazione delle spese di lite.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso, dichiarato inammissibile il secondo; cassa la sentenza impugnate e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione