Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 17527 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 17527 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 341/2024 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in MILANO INDIRIZZO DOM. DIG., presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DELL’EMILIA ROMAGNA n. 803/2022 depositata il 28/06/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15/05/2025 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
In data 19 luglio 2017 l’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Reggio Emilia -notificava alla società RAGIONE_SOCIALE esercente attività di commercio all’ingrosso di computer e software, processo verbale di constatazione relativo al quadriennio di imposta 2012/2015. In riferimento all’anno di imposta 2013, le risultanze dell’indagine fiscale hanno fatto emergere le seguenti violazioni: ai fini IRES ed IRAP, spese di rappresentanza indeducibili ai sensi degli articoli 108, comma 2, e 109, comma 5, TUIR, e 5 e 11 del D. Lgs. 446/1997; ai fini IVA, violazione dell’art. 19 del D.P.R. 633/1972 per indebita detrazione di imposta, in quanto afferente ad operazioni soggettivamente inesistenti.
Sulla base di tali elementi, in data 4/06/2018 l’Ufficio notificava avviso di accertamento n. THS03AA00500/2018, con cui recuperava a tassazione maggiori imposte ai fini IRAP pari ad € 57.526,00 e ai fini IRES pari ad € 74.182,88; nonché Iva ritenuta indetraibile pari ad € 902.301,60. In applicazione del cumulo materiale, e tenuto altresì conto delle sanzioni irrogate con l’altro avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2012, sono state inoltre irrogate le sanzioni per complessivi € 2.678.623,31.
La contribuente impugnava l’avviso di accertamento dinanzi alla CTP di Reggio Emilia che con la sentenza n. 98/01/2020 depositata in data 14/04/2020, accoglieva il ricorso e contestualmente dichiarava cessata la materia del contendere in relazione al rilievo oggetto di autotutela da parte dell’Ufficio.
Avverso tale pronuncia, l’Ufficio proponeva appello dinanzi alla CTR dell’Emilia Romagna, che con sentenza n. 803/07/2022 pronunciata
il 24/11/2021 e depositata in data 28/06/2022, rigettava l’appello e confermava la sentenza impugnata.
L’Ufficio propone ora ricorso per cassazione affidato a due motivi. Resiste la contribuente con controricorso e deposita memoria illustrativa ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, nonché degli artt. 2729 e 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3) c.p.c., per aver la CTR violato i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di detraibilità dell’Iva e di riparto del relativo onere probatorio.
Con il secondo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 108, comma 2, e 109, comma 5 del D.P.R. 917/1986, 1 del decreto del ministero dell’economia e delle finanze del 19 novembre 2008, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c, per aver la CTR violato i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di deducibilità dei costi sostenuti per spese di rappresentanza, ove difettino, come nel caso di specie, del requisito di inerenza rispetto all’attività aziendale.
Il primo motivo è fondato.
La sentenza d’appello si pone in urto con i principi salienti espressi operazioni dalla giurisprudenza nomofilattica in tema di soggettivamente inesistenti e di riparto dei relativi oneri probatori.
Ha osservato, infatti, il giudice d’appello che ‘ L’appellante ha prodotto documentazione a sostegno della propria tesi circa l’implicazione delle fornitrici della RAGIONE_SOCIALE in indagini e processi di carattere fiscale, alcuni sfociati in sentenze di condanna; tuttavia, non può affermarsi che tra le condotte ordinariamente diligenti richieste all’imprenditore nella conduzione degli affari correnti vi sia
anche l ‘attività di ·indagine sulla pendenza o definizione di cause tributarie a carico dei suoi interlocutori commerciali ‘.
In caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione è tenuta a provare che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione IVA, senza che sia necessaria la prova della partecipazione all’evasione (v. Corte Giust. COGNOME, C-285/11; Corte Giust, Ppuh, C1277/14). Detta prova può ritenersi raggiunta qualora l’Amministrazione fornisca attendibili indizi, idonei ad integrare una presunzione semplice, come prevede per l’IVA l’art. 54, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972 (v. Cass. n. 14237 del 2017; Cass. n. 20059 del 2014; 8 Cass. n. 10414 del 2011; Corte Giust. Kittel, C439/04; Corte Giust. COGNOME e NOME, C-80/11 e C-142/11).
Esclusi ogni automatismo probatorio o criterio generale predeterminato, l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario s’incentra nella individuazione, a cura dell’Amministrazione, di elementi obbiettivi e specifici in ordine al fatto che la contribuente-cessionaria dei beni o dei diritti conoscesse o avrebbe dovuto conoscere, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, e tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione, che la realtà documentalmente espressa non corrispondeva a quella effettiva (Cass. n. 24490 del 2015).
Una volta che l’Amministrazione abbia provato, in base ad elementi oggettivi, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale sospetto ed a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale
inesistenza del contraente, passa al contribuente medesimo l’onere di fornire la prova contraria (Cass. n. 23560 del 2012; Cass. n. 25575 del 2014).
Se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio cedente, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, sia pur nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi peculiari e anomali dell’operazione commerciale, tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi sia in punto di identità del soggetto che in apparenza figura come emittente la fattura, sia in punto di potenziale perpetrazione di una potenziale evasione. La rilevanza di detti indici è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e finanche suscettibili di reiterazione nel tempo.
In altri termini, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della detrazione dell’IVA, « l’Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta; la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente; incombe sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di
consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi » (così Cass. n. 9851 del 2018, alla cui motivazione integralmente si rimanda; conf., tra le tante, Cass. n. 11873 del 2018; Cass. n. 17619 del 2018; Cass. n. 21104 del 2018; Cass. n. 5873 del 2019; Cass. n. 15369 del 2020).
Né tale onere può ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. n. 28628 del 2021).
Allorché le operazioni siano state rese al destinatario, che le ha effettivamente ricevute, da un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione rappresentata nella fattura, trattandosi di operazioni soggettivamente inesistenti, l’IVA non è, in linea di principio, detraibile perché versata a un soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta; in un simile contesto, ai fini della ripartizione dell’onere della prova, occorre considerare che il diniego del diritto di detrazione segna un’eccezione al principio di neutralità dell’IVA che tale diritto costituisce: incombe, dunque, in primo luogo, sull’Amministrazione finanziaria provare che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettano le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione; una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di avere svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente; la
prova che deve essere fornita dall’Amministrazione in caso di operazioni soggettivamente inesistenti s’incentra su due circostanze di valenza costitutiva rispetto alla pretesa erariale, quali: a) l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni (il soggetto formale non è quello reale); b) il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione IVA: non è necessaria la prova della partecipazione all’evasione, ma è sufficiente, e necessario, che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole (Cass. n. 13844 del 2020).
Con specifico riferimento all’elemento sub b, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia, la circostanza che l’operazione si inserisca in una fattispecie fraudolenta di evasione dell’IVA non comporta ineludibilmente la perdita, per il cessionario, del diritto di detrazione; è, infatti, configurabile un’esigenza di tutela della buona fede del soggetto passivo, il quale non può essere sanzionato, con il diniego del diritto di detrazione, se ‘ non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si collocava nell’ambito di un’evasione commessa dal fornitore o che un’altra operazione facente parte della catena delle cessioni, precedente o successiva a quella da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’IVA ‘ (Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, COGNOME e NOME, C-80/11 e C-142/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C277/14); sicché l’Amministrazione tributaria è tenuta a provare, anche solo in base a presunzioni, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene o il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero, con espressione efficace, ‘ a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla
sostanziale inesistenza del contraente ‘ (Corte di Giustizia 6 dicembre 2012, COGNOME, C285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C277/14, par. 50); l’orientamento unitario e consolidato della Corte di Giustizia pone al centro del sistema il principio della neutralità dell’IVA, che esige, qualora siano rispettati i requisiti sostanziali, che la detrazione dell’imposta pagata ‘a monte’ sia riconosciuta, e da cui deriva, sul piano logico e giuridico, l’impossibilità di fissare in via astratta e preventiva circostanze che ostino al riconoscimento del diritto di detrazione, esclusa, dunque, ogni predeterminata ed astratta inversione dell’onere della prova (v. oltre alle decisioni già citate Corte di Giustizia 15 novembre 2017, Rochus e Finanzamt, C374/16 e C-375/16; v. anche Corte di Giustizia 7 settembre 2017, Equiom, C-6/16, che, seppure con riferimento ad una diversa questione, precisa che ‘ le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, a un esame complessivo dell’operazione interessata ‘); raggiunta tale prova, è onere del contribuente dimostrare -oltre all’effettività del suo interlocutore la propria buona fede, ossia, mutuando i principi affermati dalle sezioni unite (Cass., Sez. Un., n. 21105 del 2017) e propri della giurisprudenza della Corte di Giustizia, ‘ di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto -secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto -al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto ‘, non permettendo una diversa conclusione neppure gli accertamenti eventualmente effettuati ed attesa l’inesigibilità di ulteriori e più approfondite verifiche; in sintesi: in tema d’IVA, ove l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attenga a operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una ‘frode carosello’, essa ha l’onere
di provare, anche in via indiziaria, non solo l’inesistenza del fornitore, ma anche, sulla base di elementi oggettivi e specifici, che il cessionario sapeva (o avrebbe potuto sapere), con l’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta; incombe, quindi, sul contribuente la prova contraria di avere agito in assenza di detta consapevolezza e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass. n. 6229 del 2013; Cass. n. 18118 del 2016; Cass. n. n. 27566 del 2018).
La sentenza d’appello s’infrange contro i principi affermati dalla giurisprudenza qui riportata, dal momento che, come già detto, ogni qualvolta l’Amministrazione riesca ad offrire la prova a proprio carico anche con il ricorso a elementi probatori presuntivi gravi, precisi e concordanti, spetta al contribuente la prova contraria di avere agito in assenza di detta consapevolezza e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto. Tanto premesso sul piano dei principi generali, la sentenza oggi impugnata è incorsa in errore di diritto poiché si è sostanzialmente limitata ad affermare che al contribuente non spetta una ‘ attività di ·indagine sulla pendenza o definizione di cause tributarie a carico dei suoi interlocutori commerciali ‘.
Il secondo motivo è pure fondato.
Le spese ritenute indeducibili dall’Ufficio sono state sostenute dalla RAGIONE_SOCIALE nel 2012 per l’organizzazione di un viaggio turistico nella Repubblica Dominicana, con la partecipazione di coniugi e figli sia dei rappresentanti della RAGIONE_SOCIALE medesima, sia di alcuni clienti.
Nel concreto si contesta che la sentenza in esame risulta errata in relazione al capo riguardate il disconoscimento della deduzione delle spese di rappresentanza avendo reso una decisione in contrasto con le disposizioni di cui agli articoli 108, comma 2, e 109, comma 5, del TUIR. Nelle motivazioni rese, il Collegio emiliano avrebbe infatti violato i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di deducibilità dei costi sostenuti per spese di rappresentanza, ove difettino, come nella presente controversia, del requisito di inerenza rispetto all’attività aziendale. Nella fattispecie le spese ritenute indeducibili dall’Ufficio sono state sostenute dalla RAGIONE_SOCIALE nel 2015 per l’organizzazione di un viaggio turistico nella Repubblica Dominicana, con la partecipazione di coniugi e figli sia dei rappresentanti della RAGIONE_SOCIALE medesima, sia di alcuni clienti. La critica erariale si appunta soprattutto sulla precisazione contenuta nella disposizione ministeriale, in forza delle quali possono essere ammesse in deduzione come spese di rappresentanza quelle sostenute per viaggi all’estero, laddove vi sia una concreta ed effettiva organizzazione di attività promozionali del prodotto o del servizio reso dall’azienda. Ed infatti, la citata disposizione ministeriale del 19 dicembre 2008 prevede che siano deducibili ‘ … le spese per viaggi turistici in occasione dei quali siano programmate e in concreto svolte significative attività promozionali dei beni o dei servizi la cui produzione o il cui scambio costituisce oggetto dell’attività caratteristica dell’impresa ‘.
La questione è già stata affrontata da questa Corte con orientamento consolidato da cui non si vede ragione per discostarsi in questa sede. Ed infatti, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del d.P.R. n. 597 del 1973
e del d.P.R. n.598 del 1973, che del d.P.R. n. 917 del 1986, incombe al contribuente. Inoltre, poiché nei poteri dell’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi (cfr. Cass. n. 10269 del 2017). Altresì, è stato specifico che in tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa (e non dall’art. 75, comma 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, ora art. 109, comma 5, del medesimo d.P.R., riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili) ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta), in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo. Peraltro, l’onere di provare e documentare l’imponibile maturato e dunque l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto d’impresa, grava sul contribuente (cfr. Cass. n. 30366 del 2019). In questo senso, occorre ricordare che in materia di deducibilità dei costi d’impresa, la derivazione dei costi da una attività che è espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa, come in caso di operazioni oggettivamente inesistenti per mancanza del rapporto sottostante, comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che è onere del
contribuente provare, al pari dell’effettiva sussistenza e del preciso ammontare dei costi medesimi; tale ultima prova non può, peraltro, consistere nella esibizione della fattura, in quanto espressione cartolare di operazioni commerciali mai realizzate, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (cfr. Cass. n. 33915 del 2019). Nel caso in esame, è incontroversa l’assenza di scritture contabili a sostegno dell’organizzazione di attività promozionali del brand aziendale in occasione del viaggio caraibico, donde non può operare la presunzione (ancorché da provvedimento amministrativo generale, qual è il decreto ministeriale, ancillare nella gerarchia delle fonti) che include i viaggi fra le spese di rappresentanza deducibili. Esclusa l’operatività della presunzione ministeriale, risulta violato il riparto probatorio fra fisco e contribuente come delineato dalla giurisprudenza di legittimità sopra citata.
Il ricorso è quindi fondato, la sentenza dev’essere cassata con rinvio al giudice di merito perché si accordi con i principi sopra delineati. Il giudice di rinvio provvederà anche alla regolazione delle spese del giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso. Cassa la sentenza impugnata. Rinvia la causa per un nuovo esame e per la regolazione delle spese del giudizio alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo g rado dell’Emilia -Romagna in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 15/05/2025.