Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 4924 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 4924 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/02/2025
Oggetto:
Tributi –
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 27744/2021 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore , COGNOME Margherita , anche in proprio, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso per cassazione. (PEC: EMAIL
– ricorrente –
Contro
Agenzia delle entrate , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia n. 4114/06/2021, depositata il 5.05.2021.
Udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME all’udienza pubblica del 15.01.2025;
Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME il quale, riportandosi alle sue conclusioni scritte, ha chiesto il rigetto del ricorso; in e, per la controricorrente Agenzia
Sentiti, per la ricorrente , l’avvocato NOME COGNOME sostituzione dell’avvocato COGNOME, delle entrate, l’avvocato dello Stato NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La CTP di Catania accoglieva parzialmente, con due distinte sentenze di identico contenuto, i ricorsi proposti, rispettivamente, dalla G.RAGIONE_SOCIALE e dal suo legale rappresentante pro tempore , COGNOME Margherita, avverso l’avviso di accertamento n. CODICE_FISCALE2013, con il quale l’Agenzia delle entrate recuperava l’IVA in relazione all’anno d’imposta 2006, a seguito di una verifica fiscale nella quale era stata accertata l’indebita utilizzazione di fatture passive, ritenute afferenti ad operazioni inesistenti ovvero recanti importi notevolmente maggiorati.
Con la sentenza in epigrafe indicata la CTR della Sicilia, previa riunione dei distinti appelli proposti dall’Agenzia delle Entrate e dalla parte contribuente, rigettava l’appello proposto da quest’ultima e accoglieva quello proposto dall’Ufficio, osservando , per quanto ancora qui rileva, che:
non sussisteva alcun giudicato esterno con riferimento alle sentenze irrevocabili emesse in favore della società in materia di IRAP, per gli anni 2010 e 2011, sul presupposto della falsità delle operazioni di cui alle fatture in argomento, perché esse riguardavano, almeno in parte, fatture emesse da un diverso fornitore e si trattava di imposte diverse, con la conseguenza che l’operazione di automatica ricezione delle conclusioni di cui alla sentenza della CTP n. 6469/7/2015 (relativa ad IRAP 2010) in punto di fittizietà delle operazioni, che la CTR aveva effettuato con
la sentenza n. 3713/13/18, in relazione al medesimo tributo, per diversa annualità (IRAP 2011), non era assolutamente praticabile in questa sede; inoltre, in materia di I.V.A. si applicano norme comunitarie imperative la cui applicazione non poteva essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale, previsto dall’art. 2909 cod. civ.;
-l’avviso di accertamento risultava, compiutamente ed analiticamente motivato, mediante rinvio al PVC che ne riportava comunque un ampio stralcio; nel caso di specie, peraltro, era pacifico che il PVC posto a fondamento dell’imposizione era stato pienamente conosciuto dalla parte che, dopo la consegna del PVC e prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, aveva disatteso l’invito a presentarsi presso l’Ufficio, ai fini di un eventuale accertamento con adesione, né era stata specificamente dedotta una violazione del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2010, funzionale proprio all’espletamento di un contraddittorio endoprocedimentale, che la parte evidentemente non ha inteso attivare;
sul raddoppio dei termini, la novella di cui al decreto legislativo n. 128 del 2015 riguardava soltanto gli avvisi di accertamento notificati dopo l’entrata in vigore di tale riforma, atteso che per gli accertamenti già notificati a tale data, come nel caso in esame, valevano i principi di diritto sanciti dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011; poiché le violazioni accertate avevano indubbia rilevanza penale, tanto che avevano dato luogo ad un procedimento penale a carico della legale rappresentante della società, non poteva dubitarsi dell’operatività dell’anzidetto raddoppio e della conseguente tempestività dell’accertamento;
contrariamente a quanto dedotto dalla società appellante, il giudice provinciale non aveva ignorato le perizie COGNOME, riconoscendo che le stesse provavano l’effettiva realizzazione delle opere. Tali perizie, tuttavia presentavano amplissimi margini di opinabilità e di arbitrarietà sulla stima del valore delle opere, a fronte, peraltro, delle dichiarazioni rese dai fornitori (in particolare, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME), che si riscontravano reciprocamente, dimostrando la sovrafatturazione, e risultavano attendibili anche perché integrate da dati di carattere oggettivo, che attenevano alla qualità di evasori totali rivestiti da detti fornitori ed alla indisponibilità da parte di costoro, stando alle risultanze contabili, di risorse aziendali in termini di beni strumentali e di personale, per l’esecuzione dei predetti lavori, realizzati pertanto con mezzi e dipendenti di terzi e/o reperiti in modo occulto;
-la contribuente, dunque, non aveva efficacemente contestato tali granitiche risultanze e non aveva perciò assolto l’onere probatorio ribaltatosi sulla sua posizione, tenuto conto che l”ipotesi di sovrafatturazione, ricorrente nel caso di specie, rientrava a pieno titolo nella fattispecie dell’emissione di fatture per operazioni inesistenti;
-era inesistente l’incidenza probatoria del dispositivo di sentenza penale allegato alla memoria illustrativa depositata il 19 febbraio 2021, atteso che tale produzione, a dir poco incompleta, non consentiva di conoscere, in assenza del testo integrale della pronuncia, né le imputazioni né le motivazioni di quel giudizio e si trattava di una produzione irrilevante;
-la decisione del primo giudice andava, tuttavia, riformata per aver stimato « a prima vista» nella misura del 50% l’entità di tale sovrafatturazione, senza alcun chiarimento
motivazionale in ordine al percorso logico seguito e in patente contrasto con le risultanze processuali; non poteva ritenersi, inoltre, che la sovrafatturazione fosse estranea alla fattispecie di «emissione di fatture per operazioni inesistenti» ed al regime giuridico di essa, senza considerare che la definizione di cui all’art. 1, comma primo, lett. a) d.lgs. n. 74/00, comprendeva testualmente anche tale ipotesi; per avere riconosciuto, nonostante la sovrafatturazione, il diritto alla detrazione dell’IVA pro parte, in quanto la connotazione intrinsecamente illecita della sovrafatturazione finiva per infrangere il vincolo di inerenza alle finalità imprenditoriali in relazione a tutta l’operazione economica, così da determinare la perdita tout court del diritto alla detrazione.
La contribuente impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato ad otto motivi.
L’Agenzia delle entrate resisteva con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va rigettata la richiesta del Procuratore generale di riunione della causa n. R.G. 27715/2021 con la presente, sul presupposto della sussistenza di motivi di connessione soggettiva ed oggettiva.
In proposito occorre rammentare che nel giudizio di cassazione, le finalità di economia processuale e di uniformità delle decisioni relative a casi identici, cui è ispirato l’obbligo della riunione previsto dall’art. 151 disp. att. cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 19, lett. f), del d.lgs. n. 40 del 2006, possono utilmente essere perseguite, in mancanza di un espresso riferimento della predetta disposizione al giudizio di legittimità, anche attraverso la trattazione nella medesima udienza e davanti allo stesso giudice di più cause riunibili, verificandosi in tale evenienza una situazione sostanzialmente assimilabile a quella
del «simultaneus processus» in senso tecnico (Cass., 30 novembre 2017, n. 28686; Cass., 23 febbraio 2010, n. 4357 del 23/02/2010), situazione nella specie sussistente, posto che la causa n. 27715/2021, per le quali la riunione è stata richiesta, è stata fissate per la medesima udienza innanzi a questa Sezione, con la conseguenza che, anche per ragioni di speditezza processuale, non appare necessario disporre la riunione dei procedimenti.
Ciò posto, con il primo motivo di ricorso, la ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ. ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per non avere considerato l’efficacia vincolante del giudicato di cui alle sentenze della CTP di Catania n. 6469/07/15 e n. 7193/9/2016, quest’ultima confermata dalla CTR della Sicilia con la sentenza n. 3713/13/18.
2.1 Il motivo, che ripropone la problematica della configurabilità, nel processo tributario, dell’istituto del giudicato esterno e della conseguente efficacia espansiva dello stesso, è inammissibile.
2.2 In punto di inammissibilità occorre muovere dal rilievo che « il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con l’onere di autosufficienza del ricorso; pertanto, la parte ricorrente che deduca l’esistenza del giudicato deve, a pena d’inammissibilità del ricorso, riprodurre in quest’ultimo il tes to integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione » (Cass., 23 giugno 2017, n. 15737), occorrendo, in particolare, il « richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo » (Cass., 8 marzo 2018, n. 5508).
2.3 Dunque, l’interpretazione del giudicato esterno può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena, nei limiti in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per cassazione e rispetti il principio di autosufficienza di questo mezzo di
impugnazione (Cass., 27 febbraio 2024, n. 5126), onere che nel caso in esame non è stato assolto atteso il mancato richiamo, nel ricorso per cassazione, del testo integrale dei giudicati dei quali si assume la mancata interpretazione da parte del giudice d’appello e si chiede a questa Corte di accertare la portata, né rileva la parte di contenuto della sentenza della CTP di Catania passata in giudicato riportata virgolettata nel ricorso per cassazione (a pagina 9), in quanto, come già sopra affermato, necessita la trascrizione del testo integrale delle sentenze (CTP di Catania n. 6469/2015 e CTR Sicilia n. 3713/13/18) e, specificamente, il richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo, tenuto conto, peraltro, di quanto affermato dai giudici di secondo grado, a pag. 11, che le richiamate pronunce riguardavano, almeno in parte, fatture emesse da un diverso fornitore.
2.4 Il motivo sarebbe in ogni caso infondato.
2.5 Secondo il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 13916 del 16.06.2006, infatti, ‘ Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il “petitum” del primo. Tale efficacia, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio dell’autonomia dei periodi d’imposta, in quanto l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso, oltre a riguardare soltanto le
imposte sui redditi ed a trovare significative deroghe sul piano normativo, si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente. In riferimento a tali elementi, il riconoscimento della capacità espansiva del giudicato appare d’altronde coerente non solo con l’oggetto del giudizio tributario, che attraverso l’impugnazione dell’atto mira all’accertamento nel merito della pretesa tributaria, entro i limiti posti dalle domande di parte, e quindi ad una pronuncia sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria (salvo che il giudizio non si risolva nell’annullamento dell’atto per vizi formali o per vizio di motivazione), ma anche con la considerazione unitaria del tributo dettata dalla sua stessa ciclicità, la quale impone, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e di effettività della tutela giurisdizionale, di valorizzare l’efficacia regolamentare del giudicato tributario, quale “norma agendi” cui devono conformarsi tanto l’Amministrazione finanziaria quanto il contribuente nell’individuazione dei presupposti impositivi relativi ai successivi periodi d’imposta’.
2.6 L’effetto preclusivo del giudicato relativo ad un singolo periodo di imposta, dunque, non opera indistintamente e in via generale per altri periodi d’imposta, essendo limitato non solo alle ipotesi di concreta sussistenza del ‘ medesimo rapporto giuridico’, ma anche alla ‘ soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune’, aventi natura di ‘ premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza’.
2.7 Detto effetto preclusivo può riguardare, poi, esclusivamente gli ‘ elementi costitutivi della fattispecie’ estensibili nel tempo e quindi insensibili al ‘periodo d’imposta’, individuati, in via esemplificativa, nella ‘ qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria’.
2.8 Alla luce di questi condivisibili canoni giuridici è da escludere l’operatività in questo giudizio di un giudicato esterno riguardante altra annualità, oltre che diverse imposte, giacché né l’unicità della verifica fiscale e né i rilievi mossi per i diversi periodi d’ imposta rappresentano un fatto a carattere stabile ovvero permanente destinato a reiterarsi per le diverse annualità.
Con il secondo motivo, deduce la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000 e dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per non aver ritenuto nullo l’avviso di accertamento per difetto di motivazione a causa della mancata allegazione di atti richiamati.
3.1 Il motivo è inammissibile, oltre che infondato.
3.2 La censura è inammissibile per difetto di autosufficienza nella parte in cui la società ricorrente non riporta il contenuto dell’avviso di accertamento in contestazione, neppure riassunto nel suo specifico contenuto, non consentendo così a questa Corte di esprimere il suo giudizio in proposito alla correttezza o meno della valutazione compiuta dalla Commissione tributaria regionale (Cass., 19 dicembre 2022, n. 37170; Cass., 28 giugno 2023, n.18418, in motivazione).
3.3 La censura è pure infondata perché, come emerge a pag. 11 del ricorso per cassazione, le dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni ex art. 351 cod. proc. pen., anche se non sono state
allegate, sono state richiamate nell’avviso di accertamento e nel PVC nel quale sono state riportate per stralci.
3.4 Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, «nel regime introdotto dall’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche «per relationem», ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all’atto notificato, quando lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, cioè l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, la cui indicazione consente al contribuente ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono le parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento» (Cass., 11 settembre 2017, n. 21066; Cass., 11 aprile 2017, n. 9323; Cass., 15 aprile 2013, n. 131109).
3.5 Pertanto, la riproduzione del contenuto essenziale dell’atto richiamato dall’avviso di accertamento non si realizza necessariamente, con la pedissequa trascrizione delle sue parti rilevanti nel contesto dell’atto impositivo, ma anche con la semplice indicazione, in forma riassuntiva, del suo contenuto essenziale, per come apprezzato e valutato dall’Amministrazione finanziaria e, quindi, posto a sostegno della pretesa impositiva.
3.6 Ne consegue che l’obbligo di allegazione riguarda i soli atti che non siano stati riprodotti nella loro parte essenziale nell’avviso di accertamento, con esclusione, altresì: a) di quelli cui l’Ufficio abbia fatto comunque riferimento, i quali, pur essendo considerati irrilevanti ai fini della motivazione, sono comunque utilizzabili per la prova della pretesa impositiva (Cass., 5 ottobre 2018, n. 24417); b) di quelli di cui il contribuente abbia già integrale o legale conoscenza (Cass., 14
gennaio 2015, n. 407; Cass., 2 luglio 2008, n. 18073), tra i quali rientrano certamente anche quelli comunicati al contribuente poi fallito, dovendosi presumere la conoscenza degli stessi da parte del curatore (Cass., 27 novembre 2015, n. 24254; Cass., 7 ottobre 2016, n. 20166; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27628).
3.7 In ultimo, va ribadito che, in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso ai sensi dell’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, va inteso in necessaria correlazione con la finalità «integrativa» delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone l’art. 3, terzo comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241; il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione, ma non di conoscere il contenuto di tutti quegli atti, cui si faccia rinvio nell’atto impositivo e sol perché ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia, pertanto, mero valore «narrativo»), oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) sia già riportato nell’atto noto. Pertanto, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui l’atto impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’atto impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione (Cass., 5 ottobre 2018, n. 24417; Cass., 10 febbraio 2016, n. 2614; Cass., 16 maggio 2012, n. 7654), con la conseguenza che, in difetto di prova, non offerta dalle società contribuente, che il contenuto della nota richiamata dall’avviso di accertamento fosse necessario ad integrare la motivazione dell’atto impositivo emesso a suo carico, deve ritenersi che ogni ulteriore allegazione avrebbe potuto essere utilizzata
dall’Ufficio eventualmente ai fini probatori, ma non ai fini motivazionali (Cass., 9 marzo 2020, n. 6524).
Con il terzo motivo, deduce la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 e 1, comma 132, della legge n. 208 del 2015, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per non aver ritenuto decaduta l’amministrazione finanziaria in virtù della mancata applicazione del raddoppio dei termini di accertamento. Nel caso di specie, l’accertamento era stato notificato il 6 settembre 2013 e, quindi, doveva essere applicata la disciplina anteriore all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 128 del 2015 e il raddoppio si verificava solo se l’obbligo della denuncia penale si manifestava entro i termini di decadenza dell’azione ordinaria di accertamento. Alla fattispecie in questione non si poteva applicare, come erroneamente riferito dalla CTR, l’art. 2 del decreto legislativo n. 128 del 2015, ma si applicava la disciplina transitoria prevista dall’art. 1, comma 132, della legge n. 208 del 2015, la quale ammetteva il raddoppio solo se corroborato dall’inoltro tempestivo della denuncia.
4.1 Anche il terzo motivo è infondato.
4.2 Secondo questa Corte, i termini previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’Irpef e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’Iva, come modificati dall’art. 37, comma 24, del decreto legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, nella versione applicabile ratione temporis , sono raddoppiati in presenza di «seri indizi di reato» che facciano sorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale (indipendentemente dall’effettiva presentazione della stessa, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo, cfr. Cass. 13 settembre 2018, n. 22337), anche con
riferimento alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore (4 luglio 2006) del predetto decreto, tanto derivando non dalla natura retroattiva della novella, ma, secondo la lettura di tali disposizioni data dalla sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011, dalla circostanza che, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del detto decreto, essa incide necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data, nel rispetto del principio cristallizzato dall’art. 11, comma 1, disp. prel. al cod. civ. (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27629).
4.3 Inoltre, in tema di accertamento tributario, i termini previsti dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dall’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, come modificati dall’art. 37 citato, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, già notificati, incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della legge n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del decreto legislativo n. 128 del 2015, nella parte in cui sono fatti salvi gli effetti degli avvisi già notificati (Cass. 14 maggio 2018, n. 11620; Cass., 19 dicembre 2019, n. 33793 e, più di recente, Cass., 23 luglio 2024, n. 20400).
4.4 Infatti, secondo l’art. 2, comma 3, del decreto legislativo n. 128 del 2015 « sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni
amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto. Sono, altresì, fatti salvi gli effetti degli inviti a comparire di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218 notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché dei processi verbali di constatazione redatti ai sensi dell’articolo 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 dei quali il contribuente abbia avuto formale conoscenza entro la stessa data, sempre che i relativi atti recanti la pretesa impositiva o sanzionatoria siano notificati entro il 31 dicembre 2015 ».
4.5 Dalla giurisprudenza citata si evince un favor del legislatore per il raddoppio dei termini in presenza di seri indizi di reato che facciano sorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale (indipendentemente dall’effettiva presentazione della stessa), in ossequio ai principi costituzionali di cu i all’art. 53 Cost. (capacità contributiva) e 112 Cost. (obbligo di esercitare l’azione penale e interesse della collettività al perseguimento dei reati) tutte le volte in cui tale raddoppio del termine non incida su diritti fondamentali del contribuente, quali il diritto di difesa (Cass., 8 ottobre 2020, n. 21698; Cass., 15 luglio 2020, n. 15001; Cass., 5 novembre 2019, n. 28356; Cass., 14 maggio 2018, n. 11620; Cass., 16 dicembre 2016, n. 26037; da ultimo, Cass., 3 agosto 2023, n. 23662 e Cass., 23 luglio 2024, n. 20400).
4.6 Al riguardo, l’art. 2, comma 3, citato va interpretato in maniera costituzionalmente orientata alla luce della suddetta ratio nonché alla luce di una interpretazione piana e lineare della norma, la quale consente – senza alcun distinguo quanto al momento in cui sia sorto l’obbligo della denuncia – il raddoppio del termine ove l’avviso di accertamento sia stato comunque
notificato entro la data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 128 del 2015 (ossia il 2 settembre 2015: nella specie la notifica è avvenuta il 6 settembre 2013, pag. 4 del ricorso per cassazione). Pertanto, il regime transitorio previsto dalla legge n. 208 del 2015 per i periodi d’imposta anteriori a quello in corso al 31 dicembre 2016 – secondo cui il raddoppio dei termini di accertamento, quali stabiliti dal secondo periodo comma 132, opera, nel caso delle indicate violazioni penali, solo a condizione che la denuncia penale sia presentata o trasmessa dall’Amministrazione Finanziaria entro il termine stabilito nel primo periodo del medesimo comma 132 riguarda solo le fattispecie non regolate dal precedente regime transitorio, cioè i casi in cui non sia stato notificato un atto impositivo (o di irrogazione di sanzioni) entro il 2 settembre 2015, in quanto, ai sensi dell’art. 3 comma 2, del decreto legislativo n. 128 del 2015 sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili, con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore di tale decreto.
4.7 Nella specie, la CTR si è attenuta ai suddetti principi nel ritenere applicabile il raddoppio dei termini con riguardo all’avviso di accertamento per l’anno 200 6, notificato il 6 settembre 2013 (prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 128 del 2015) ancorché l’inoltro della notitia criminis fosse avvenuto dopo il decorso del termine ordinario di decadenza.
Con il quarto motivo, deduce la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 e dell’art. 2697 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per aver ritenuto assolto l’onere della
prova da parte dell’ufficio. La sentenza impugnata aveva ritenuto erroneamente che l’Agenzia delle Entrate avesse assolto all’onere della prova in quanto non aveva effettuato alcun accesso sui luoghi né aveva mai contestato specificamente i calcoli di cui alla specifica e dettagliata perizia prodotta dalla società ricorrente (corredata di numerosi rilievi fotografici) la quale, senza alcuna valida ragione, era stata ritenuta avente meno efficacia probatoria rispetto a generiche e mai allegate dichiarazioni rese da soggetti privi di una contabilità regolare. La RAGIONE_SOCIALE invece, aveva dimostrato che le opere erano state realmente realizzate (e ciò era stato riconosciuto anche nella sentenza impugnata a pag. 18) e che i fornitori avevano effettivamente lavorato presso il cantiere per la costruzione di tale stabilimento che, peraltro, era stato realizzato per euro 5.000.000,00 con il contributo statale e per i restanti 2/3 con risorse proprie della società.
5.1 Il motivo è inammissibile perché si tratta di una doglianza diretta, con evidenza, a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa, che non costituiscono vizio di violazione di legge (Cass., 19 agosto 2020, n. 17313).
5.2 Ed invero, il vizio dedotto non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass., 3 ottobre 2018, n. 24035; Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152; Cass., 23 maggio 2014, n. 11511).
5.3 Né sussiste la violazione dell’art. 2697 cod. civ., che si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l ‘onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di ripartizione basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass., 23 ottobre 2018, n. 26769) ed avendo la CTR correttamente rilevato, a pag. 21 della sentenza impugnata, che l’ipotesi di sovrafatturazione, ricorrente nel caso di specie, rientrava a pieno titolo nella fattispecie dell’emissione di fatture per operazioni inesistenti, con la conseguenza irrilevanza, ai fini del riparto dell’onere della prova, della circostanza che i lavori erano stati realmente eseguiti.
5.4 Peraltro, nel processo tributario, le dichiarazioni rese da un terzo, inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione e recepite nell’avviso di accertamento, hanno valore indiziario e possono assurgere a fonte di prova presuntiva, concorrendo a formare il convincimento del giudice anche se non rese in contraddittorio con il contribuente e senza necessità di ulteriori indagini da parte dell’Ufficio (Cass., 7 ottobre 2022, n. 29241). Le dichiarazioni rese da terzi, quindi, rilevano quali fonti di conoscenza in termini di fatti o indizi che spetta al giudice di merito valutare insieme agli altri elementi presuntivi, al fine di completare il quadro probatorio a sostegno della pretesa tributaria (Cass., 28 ottobre 2022, n. 32024) e le stesse sono utilizzabili dal contribuente per assolvere il proprio onere della prova contraria in assoluto rispetto dell’art. 6 CEDU e del principio di parità delle armi di cui all’art. 47 CDFUE (Cass., 22 marzo 2023, n. 8221).
6. Con il quinto motivo deduce la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 651 e ss. cod. proc. pen., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per non avere considerato la sentenza penale di assoluzione per i
medesimi fatti passata in giudicato (sentenza n. 511 del 2019) perché il fatto non sussiste.
6.1 Il motivo è inammissibile perché non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata nella parte in cui afferma: « È, infine, appena il caso di rilevare l’inesistente incidenza probatoria del dispositivo di sentenza penale allegato alla memoria illustrativa depositata il 19.2.21, atteso che tale produzione, a dir poco incompleta, non consente di conoscere, in assenza del testo integrale della pronuncia, né le imputazioni né le motivazioni di quel giudizio. Non è, pertanto, neppure necessario attardarsi a richiamare il ben noto principio del doppio binario, al fine di rimarcare l’assoluta irrilevanza di tale produzione »; poiché questa affermazione che, integra un’autonoma ratio decidendi ed è idonea a sorreggere di per sé sola la decisione sul punto, non è stata fatta oggetto di alcuna contestazione, ne deriva, come questa Corte ha più volte osservato, che la società ricorrente non ha interesse a dolersi del profilo qui impugnato, poiché, quand’anche se ne riscontrasse la fondatezza, l’impugnata decisione si suffragherebbe pur sempre in base all’affermazione non censurata (cfr. Cass., 18 giugno 2019, n. 16314; Cass., 27 luglio 2017, n. 18641; Cass., 12 ottobre 2007, n. 21431; Cass., Sez. U., 8 agosto 2005, n. 16602).
6.2 Il motivo è comunque infondato.
6.3 Al riguardo occorre rammentare che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la sentenza penale, anche irrevocabile, non è idonea, in forza del disposto di cui all’art. 654 cod. proc. pen., ad esplicare alcun effetto vincolante nel processo tributario, assumendo -per il principio della circolazione dei mezzi di prova -un rilievo solo quale elemento di prova, soggetto all’autonoma valutazione del giudice tributario.
6.4 Pertanto, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non assume efficacia di giudicato nel processo tributario, neppure quando i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione solo come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare (Cass. n. 6918 del 20/03/2013; Cass. n. 2938 del 13/02/2015; Cass. n. 10578 del 22/05/2015; Cass. n. 17258 del 27/06/2019; Cass. n. 4645 del 21/02/2020).
6.5 Occorre evidenziare, poi, che in relazione alla fattispecie in esame non assume alcuna rilevanza la nuova disposizione di cui all ‘art. 21bis del d.lgs. n. 74 del 2000, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera m), del d.lgs. n. 87 del 2024 (‘ Revisione del sistema sanzionatorio tributario, ai sensi dell’articolo 20 della legge 9 agosto 2023, n. 111 ‘), in vigore dal 29 giugno 2024, il quale stabilisce che: « Art. 21-bis (Efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione) –
La sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi.
La sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio.
Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perchè il fatto non sussiste, anche
nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonchè nei confronti dei loro soci o associati».
6.6 La nuova norma, quindi, si riferisce alle sole sentenze di assoluzione perché ‘il fatto non sussiste’ o ‘l’imputato non lo ha commesso’, emesse a ‘seguito di dibattimento’, restando, quindi, escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 21bis le sentenze di condanna, le sentenze di assoluzione e proscioglimento con una diversa formula (come il fatto non costituisce reato, il fatto non è più previsto come reato o le formule di improcedibilità), i provvedimenti di archiviazione, le sentenze di applicazione della pena concordata (444 cod. proc. pen.) e tutte le sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato.
6.7 Le prime pronunce di questa Corte (Cass. 31 luglio 2024, n. 21584; Cass. 3 settembre 2024, n. 23570; Cass. 3 settembre 2024, n. 23609; Cass. 11 ottobre 2024, n. 16584; Cass. 2 dicembre 2024, n. 30814; Cass. 3 dicembre 2024, n. 30900; Cass. 16 gennaio 2025, n. 1021) hanno ritenuto la norma immediatamente applicabile anche con riguardo a sentenze penali preesistenti alla novella, pur indicandone i limiti con riguardo alle decisioni emesse dal giudice dell’udienza preliminare ovvero in relazione alla diversità delle statuizioni espresse.
6.8 Come è stato poi rilevato da una recente sentenza di questa Corte (Cass. n. 3800 del 14/02/2025), emessa nella stessa udienza e al cui contenuto il Collegio si riporta, condividendolo, l’art. 21 -bis cit. si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non riguarda l’imposta, ossia la decisione del giudice tributario sulla pretesa impositiva (« L’art. 21-bis d.lgs. n. 74 del 2000, introdotto con l’art. 1, d.lgs. n. 87 del 2024, poi recepito nell’art. 119 T.U. della giustizia
tributaria, in base al quale la sentenza penale dibattimentale di assoluzione, con le formule perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto, ha, nel processo tributario, efficacia di giudicato quanto ai fatti materiali, si riferisce, alla luce di una interpretazione letterale, sistematica, costituzionalmente orientata e in conformità ai principi unionali, esclusivamente alle sanzioni tributarie e non all’accertamento dell’imposta, rispetto alla quale la sentenza penale assolutoria ha rilievo come elemento di prova, oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice tributario unitamente agli altri elementi di prova introdotti nel giudizio »).
Nel caso in esame appare in ogni caso dirimente, ai fini dell’applicabilità dell’art. 21 -bis cit., la questione della rilevanza della sentenza penale pronunciata con la formula assolutoria prevista dall’art. 530, comma 2, cod. proc. pen.
7.1 Occorre partire dalla considerazione che nel giudizio penale la prova positiva dell’innocenza dell’imputato (art. 530, comma 1) e la prova negativa della sua responsabilità (art. 530, comma 2) hanno pari valore.
7.2 La giurisprudenza civile, invece, nell’interpretare gli artt. 651654 cod. proc. pen., ha distinto le due situazioni, attribuendo differente valore alle ipotesi di assoluzione pronunciate a norma del primo comma rispetto a quelle pronunciate a norma del secondo comma.
Si tratta di orientamento che è consolidato da oltre trent’anni e che ha trovato il suo riconoscimento anche da parte delle Sezioni Unite (v. Sez. U, n. 1768 del 26/01/2011, che, con riguardo all’art. 652, ma anche rispetto agli artt. 651, 653 e 654 cod. proc. pen., ha affermato che « la sentenza di assoluzione è idonea a produrre gli effetti di giudicato ivi indicati non in relazione alla formula utilizzata, bensì solo in quanto contenga, in termini categorici, un effettivo e positivo accertamento circa l’insussistenza del fatto »).
In particolare, si è rilevato che il principio generale è quello « dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile, sicché il carattere di eccezione a tale principio che si rinviene in quanto previsto dalla norma dell’art. 652 c.p.p. (e analogamente è da dirsi per le ipotesi contemplate dagli artt. 651, 653 e 654 dello stesso codice) impedisce non solo di poter fare applicazione analogica della citata disposizione oltre i casi espressamente previsti, ma impone di perimetrarne anche in senso restrittivo l’operatività, tenuto conto dei limiti costituzionali del rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio, richiamati dalla stessa legge delega (tra le altre, Cass., 2 agosto 2004, n. 14770; Cass., 8 marzo 2013, n. 5898; Cass., 29 agosto 2013, n. 19863; Cass., 18 novembre 2014, n. 24475; Cass., 5 aprile 2016, n. 6541; Cass., 22 giugno 2017, n. 15470; Cass., 13 giugno 2018, n. 15392; Cass., 3 luglio 2018, n. 17316) ».
Inoltre, si è evidenziato che « l’efficacia preclusiva del giudicato di assoluzione è tale, però, soltanto se il giudicato stesso contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato e non anche nell’ipotesi in cui l’assoluzione sia determinata dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato e cioè quando l’assoluzione sia stata pronunziata a norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p. » (v. tra le molte, Cass. n. 19863/2013; Cass., 25 settembre 2014, n. 20252 e Cass., 11 marzo 2016, n. 4764; Cass. 12 settembre 2022, n. 26811; da ultimo v. anche Cass. n. 4201/2024, secondo cui « in tema di rapporti tra giudizio penale e giudizio civile, la sentenza di assoluzione ha effetto preclusivo nel processo civile (sia ex. art. 652 c.p.p. che ex art. 654 c.p.p.) solo nel caso in cui contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’ins ussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato, e non anche nell’ipotesi in cui sia stata pronunciata a
norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p., per inesistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o la sua attribuibilità all’imputato »).
7.3 Il principio è stato affermato anche dal giudice amministrativo (Consiglio di Stato, sez. 2, n. 2509 del 2014), secondo il quale ‘ l’efficacia vincolante del giudicato penale è configurabile solo allorché la sussistenza dei reati contestati sia stata esclusa ai sensi dell’art. 530, comma 1, c.p.p. ‘.
7.4 Per completezza, occorre evidenziare che la dottrina e la giurisprudenza penale esprimono il diverso orientamento della piena equiparazione tra le pronunce assolutorie pronunciate ai sensi del primo e del secondo comma dell’art. 530 cod. proc. pen., da intendersi estesa anche agli effetti extra-penali, posto che non sussisterebbe un interesse dell’imputato a proporre ricorso nei confronti di una sentenza di assoluzione pronunciata ex art. 530, comma 2, cod. proc. pen., in quanto questa formula non dispiega minore valenza (rispetto alla formula ex art. 530, comma 1, cod. proc. pen.) nei giudizi civili.
7.5 In realtà, la giustificazione logica e giuridica dell’orientamento che distingue la rilevanza ai fini civili tra i due commi si coglie nel fatto che il fondamento sostanziale della scelta di attribuire efficacia di giudicato alla sentenza penale di assoluzione (per le formule assolutorie di insussistenza del fatto e per non aver commesso il fatto, qui in rilievo) deriva dal maggior approfondimento istruttorio che caratterizza il processo penale rispetto a quello civile (e tributario) e dalla possibilità, propria del processo penale, di ricostruire la situazione fattuale con estrema certezza.
Tale condizione (ossia la ricostruzione della situazione fattuale con estrema certezza) si ha, tuttavia, solamente nei casi in cui la pronuncia di assoluzione sia resa ex art. 530, comma 1, cod. proc. pen. (prova positiva che superi ogni ragionevole dubbio) e non nei casi in cui la
pronuncia di assoluzione sia resa ex art. 530, comma 2, cod. proc. pen. (prova mancante, insufficiente o carente).
7.6 Ne deriva che, ai fini della disciplina in esame, non è suscettibile di rilievo, con valenza di giudicato, l’assoluzione pronunciata ai sensi del secondo comma dell’art. 530 cod. proc. pen., che determinerebbe un mero automatismo a fronte della necessità di verificare che la decisione penale abbia operato un concreto ed effettivo accertamento dei fatti.
Nella specie, come si evince dalla copia della sentenza penale allegata al ricorso, la società RAGIONE_SOCIALE è stata assolta dall’illecito contestatole al capo B) della rubrica, in relazione al reato di truffa di cui all’art. 640 -bis cod. pen. (capo A), con la formula ‘perché il fatto non sussiste’, ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen.; la medesima sentenza ha poi dichiarato non doversi procedere nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, per i reati alla stessa ascritti ai capi A) (art. 640-bis cod. pen.) e C) (art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000) perché estinti per intervenuta prescrizione.
8.1 A prescindere da ogni ulteriore considerazione in ordine all’identità o meno dei fatti contestati nei due giudizi, la sentenza penale non potrebbe comunque esplicare alcuna efficacia di giudicato nel presente giudizio tributario ai sensi dell’art. 21 -bis. del d.lgs. n. 74 del 2000, in quanto la pronuncia di assoluzione nei confronti della società non è stata resa ai sensi dell’art. ex art. 530, comma 1, cod. proc. pen., mentre nei confronti del legale rappresentante, COGNOME NOME vi è stata una dichiarazione di non doversi procedere per estinzione dei reati ascrittile per prescrizione.
Con il sesto motivo, deduce la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per
avere la CTR deciso solo sulla base di dichiarazioni, rese in sede di SIT ex art. 351 cod. proc. pen. contradditorie e mai verificate, di tre fornitori la cui contabilità era risultata in seguito irregolare e di cui uno (COGNOME) aveva persino ritrattato.
9.1 Il motivo, che in parte ripropone sotto altro profilo la censura mossa con il quarto motivo, è inammissibile perchè mira ad ottenere un nuovo accertamento in fatto, inammissibile in questa sede. Ed invero, senza prescindere dalla valenza probatoria, nel processo tributario, delle dichiarazioni rese da un terzo (Cass. n. 29241/2022 cit.), nel caso in esame la CTR, conformemente alla giurisprudenza di questa Corte, non ha deciso soltanto sulla base delle dichiarazioni dei terzi, ma ha tenuto conto, oltre che delle perizie prodotte nel giudizio di primo grado, espressamente richiamate e valutate nella parte descrittiva (e non valutativa) anche dei dati di carattere oggettivo attinenti alla qualità di evasori totali dei fornitori e alla indisponibilità da parte di costoro, stando alle risultanze contabili, di risorse aziendali in termini di beni strumentali e di personale, per l’esecuzione dei predetti lavori, realizzati pertanto con messi o dipendenti di terzi e/o reperiti in modo occulto (cfr. pagine 19 e 20 della sentenza impugnata).
10. Con il settimo motivo, deduce la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2727, 2729 e 2697 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere deciso su indizi privi dei caratteri di gravità, precisione e concordanza; sostiene che la sentenza è nulla per avere ritenuto che l’Ufficio avesse assolto all’onere della prova mediante indizi senza specificare in alcuna parte della sentenza che tali indizi assurgevano al rango di presunzioni gravi, precise e concordanti.
10.1 Il motivo è inammissibile, in quanto la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito (Cass., 19 luglio 2021, n. 20553).
Invero, il giudizio di merito non può essere ulteriormente revisionato in questa sede, tenuto conto del principio di diritto secondo cui « Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione » (Cass., 26 ottobre 2021, n. 30042).
10.2 In sede di legittimità è, poi, possibile censurare la violazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ. solo allorché ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso (Cass., 13 febbraio 2020, n. 3541), evenienza che, nel caso in esame, non è stata dedotta dalla società ricorrente.
11. Con l ‘ottavo motivo, deduce la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972 e 8 della legge n. 74 del 2000, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto che, trattandosi di sovrafatturazione, ‘ l’intero importo di cui alle fatture contestate dovesse ritenersi imponibile interamente recuperato in quanto le fatture erano da considerarsi interamente oggettivamente inesistenti ‘.
11.1 Il motivo è infondato.
11.2 L’art. 21, settimo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, dispone che « Se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relativi sono indicate in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura ». Si tratta di una norma che concorda con l’art. 21, § 1, lett. c), della direttiva n. 77/388/CEE del 17 maggio 1977 (sesta direttiva), secondo cui l’IVA è dovu ta da « chiunque indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in una altro documento che ne fa le veci », disposizione quest’ultima che è stata ribadita dall’art. 203 della direttiva n. 2006/112/CE del 28 novembre 2006.
11.3 Questa Corte ha rilevato che « In virtù dell’art. 21, settimo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, sul punto corrispondente all’art. 21, n. 1, lettera c) della sesta direttiva, chiunque esponga l’Iva in una fattura o in ogni altro documento che ne fa le veci è debitore di tale imposta. La previsione mira ad eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale, che può derivare dall’esercizio del diritto di detrazione; rischio che, secondo la Corte di giustizia, sussiste «fintantoché il destinatario di una fattura che espone una Iva non dovuta possa utilizzarla al fine di siffatto esercizio» (Corte di Giustizia, sentenza 19 settembre 2000, in C-454/08, COGNOME & COGNOME e COGNOME, punto 57) » e che « Il sistema,
del resto, prevede come rimedio per il cessionario il diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa, per cui l’Iva pagata va retrocessa al titolare del diritto al rimborso, comprendendo tale diritto l’intera prestazione ricevuta e divenuta indebita » (cfr. Cass., 30 giugno 2020, n. 13091, in motivazione).
11.4 Come è stato precisato dai giudici unionali, tale meccanismo di rettifica è parte integrante del sistema di detrazione dell’Iva poiché esso, nel favorire la precisione delle detrazioni, garantisce la neutralità dell’Iva, così da assicurare che le operazioni compiute a monte seguitino a consentire l’esercizio del diritto di detrazione soltanto nei limiti in cui servano a fornire prestazioni -o concretino cessioni -soggette a tale imposta. Né sull’obbligo di rettifica gravante sul cessionario o sul committente può incidere la circostanza che l’Iva dovuta dal fornitore non sia stata essa stessa rettificata. L’emittente della fattura, difatti, è debitore dell’Iva indicata in fattura anche in mancanza di un’operazione imponibile, a norma dell’art. 203 della direttiva 2006/112/CE (cfr. Corte di Giustizia, 3 marzo 2014, in causa C-107/13, Firin 00D; Corte di Giustizia, 31 gennaio 2013, in causa C643/11, RAGIONE_SOCIALE; Corte di Giustizia, 18 giugno 2009, in causa C-566/07, Stadeco) e, dunque, dell’art. 21, settimo comma, d.P.R. n. 633 del 1972 .
11.5 Ancora, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia della UE, gli Stati membri possono concedere la rettifica delle imposte indebitamente fatturate, ma unicamente nel caso in cui chi ha emesso la fattura dimostri la propria buona fede (Corte di Giustizia, 13 dicembre 1989, in causa C-342/87, RAGIONE_SOCIALE; Corte di Giustizia 11 aprile 2013, in causa C-138/12, RAGIONE_SOCIALE) o, comunque, anche in assenza di buona fede, di avere completamente eliminato in tempo utile il rischio di perdita di gettito fiscale (Corte di Giustizia, 8 maggio
2019, in causa C-712/17; Corte di Giustizia, 2 luglio 2020, in causa C835/2018). In ogni caso, ben possono gli Stati membri ritenere che la redazione di fatture fittizie con l’indicazione della relativa IVA integra un tentativo di frode fiscale, applicando in tal caso ammende e sanzioni (Corte di Giustizia, 19 settembre 2000, in causa C-454/98).
11.6 Il tema del rapporto tra principio di cartolarità e principio di neutralità dell’IVA è stato vagliato anche nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità, che ha affermato che « In tema di IVA, nel caso in cui sia erroneamente emessa fattura per operazioni oggettivamente inesistenti, il contribuente non può avvalersi della procedura di cui all’art. 26, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, che consente la regolarizzazione solo ove si tratti di operazioni effettive e reali, anche se venute meno in tutto o in parte, ma, in base al principio di cartolarità, di cui all’art. 21, comma 7, dello stesso decreto, è tenuto a versare l’imposta per l’intero ammontare indicato, fermo restando il diritto del contribuente al rimborso dell’imposta versata qualora venga accertato dal giudice di merito che sia stato eliminato in tempo utile qualsiasi rischio di perdita del gettito fiscale, derivante dall’utilizzo della fattura ai fini della detrazione da parte del destinatario, quando la fattura non possa ritenersi emessa ai sensi dell’art. 21, comma 1, dello stesso decreto, ovvero quando sia stata emessa, ma tempestivamente ritirata dal destinatario, senza che quest’ultimo abbia potuto utilizzarla per finalità fiscali, o ancora quando l’Amministrazione abbia disconosciuto il diritto alla detrazione del destinatario con provvedimento definitivo o ritenuto legittimo con sentenza passata in giudicato » (cfr. Cass., 26 settembre 2018, n. 22963; Cass., 18 aprile 2019, n. 10974; Cass., 12 marzo 2020, n. 2020; Cass., 30 settembre 2021, n. 26515).
11.7 E’ utile anche ricordare che dal compimento di un’operazione imponibile discendono tre rapporti fra di loro autonomi, l’uno tra
l’amministrazione finanziaria e il cedente, relativamente al pagamento dell’imposta, l’altro tra il cedente ed il cessionario, in ordine alla rivalsa e il terzo tra l’amministrazione ed il cessionario, per ciò che attiene alla detrazione dell’imposta assolta in via di rivalsa e che tale autonomia presuppone che rimanga salvo il principio della neutralità dell’IVA, il quale postula l’esclusione, in concreto, dell’eventualità di una perdita di gettito tributario (Cass., 17 marzo 2020, n. 7325).
11.8 La giurisprudenza di legittimità richiamata, recependo l’orientamento della Corte di giustizia, ha affermato che il fatto stesso dell’emissione di una fattura per operazioni inesistenti implichi l’obbligo di pagamento della relativa IVA, fatti salvi l’esistenza della buona fede (che, ovviamente, non può mai sussistere in caso di operazioni oggettivamente inesistenti: cfr. Cass., 14 settembre 2016, n. 18118), ovvero l’obbligo di eliminare il pericolo di perdita di gettito per l’Erario, il cui onere probatorio spetta al contribuente (cfr. Corte di Giustizia, 8 maggio 2019, in causa C-712/17; Corte di Giustizia, 2 luglio 2020, in causa C-835/2018, citate). In questa prospettiva, la fattispecie individuata dall’art. 21, settimo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 è, dunque, del tutto speciale ed esula dalla applicazione del regime ordinario dell’IVA, in quanto il legislatore, in caso di «operazione inesistente», ha, infatti, inteso privilegiare la rappresentazione cartolare del rapporto rispetto alla effettiva irrealtà della operazione sottostante, assoggettando comunque ad imposizione detto rapporto; si tratta di una previsione normativa che opera specificamente dal lato del debito d’imposta gravante sull’emittente, quale soggetto passivo nei confronti dell’Erario; mentre dal lato del cessionario/destinatario della prestazione di servizi, in difetto di alcuna disciplina normativa speciale, rimane confermato il meccanismo ordinario dell’IVA, per cui, in difetto di verificazione del presupposto impositivo (attesa la inesistenza di una reale cessione di beni/prestazioni di servizi in cambio
di corrispettivo), alcun diritto alla detrazione/rimborso può sorgere dall’utilizzo di una fattura passiva che è stata emessa per una operazione che in realtà non esiste. E sul punto va richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di IVA, una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., 18 ottobre 2021, n. 28628, in motivazione, citata; Cass., 5 luglio 2018, n. 17619).
11.9 Deve precisarsi che, nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria ha contestato alla società contribuente la sovrafatturazione di operazioni commerciali, ovvero quel particolare meccanismo fraudolento che costituisce anche il presupposto per la configurabilità della fattispecie illecita prevista dall’art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, ovvero l’«emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», in relazione alla quale si è affermato che « Il delitto previsto dall’art. 8 del D.Lgs. n. 74 del 2000 e dall’art. 4, comma primo, lett. d) legge n.516 del 1982, intende punire ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e l’espressione documentale di essa e non soltanto la mancanza assoluta dell’operazione. La falsa fatturazione quantitativa è punita non solo nel caso in cui la divergenza tra il reale ed il rappresentato è totale, ma anche quando è parziale e l’operazione economica si sia effettivamente verificata tra i soggetti indicati in fattura, ma in termini minori rispetto al dichiarato (Cass.
pen., n. 5804 del 2004; Cass. pen. n. 45056 del 2010)» (cfr. Cass., 14 febbraio 2019, n. 4344).
11.10 Dunque, in tema di Iva, la sovrafatturazione di operazioni commerciali oggettivamente inesistenti, in attuazione del principio di «cartolarità» sancito dall’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, determina l’insorgenza del rapporto impositivo a fronte della semplice «emissione» del documento contabile, in quanto suscettibile di essere utilizzato a fini fiscali ove non sottratto tempestivamente al commercio giuridico, senza che ciò violi il principio di neutralità dell’IVA che informa la disciplina unionale, prevalendo la funzione ripristinatoria conseguente all’eliminazione dell’anomalia creata in difetto di rettifica od annullamento della fattura concernente dati difformi dalla realtà dell’operazione economica.
La sentenza impugnata è conforme ai principi suesposti.
12.1 In conclusione, dunque, il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2025