Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 14200 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 14200 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/05/2025
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 424/2017 proposto da:
Società «RAGIONE_SOCIALE, nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio del Prof. Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO giusta procura rilasciata in calce al ricorso per cassazione
(Pec: EMAIL
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO (Pec: EMAIL).
– controricorrente –
sul ricorso n. 427/2017 proposto da:
NOME e COGNOME NOME, quali eredi di COGNOME RAGIONE_SOCIALE, già socio della società «RAGIONE_SOCIALE, rappresentate e difese dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio del Prof. Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO giusta procura rilasciata in calce al ricorso per cassazione.
(Pec: EMAIL
– ricorrenti –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO (Pec: EMAIL).
– controricorrente –
sul ricorso n. 430/2017 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE, in qualità di socio della società RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio del Prof. Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO giusta procura rilasciata in calce al ricorso per cassazione.
(Pec: EMAIL
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i
cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO (Pec: EMAIL.
– controricorrente –
sul ricorso n. 431/2017 proposto da:
COGNOME RAGIONE_SOCIALE Teresa, quale socio della società «RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio del Prof. Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO giusta procura rilasciata in calce al ricorso per cassazione.
(Pec: EMAIL
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO (Pec: EMAIL).
– controricorrente –
sul ricorso n. 432/2017 proposto da:
Di COGNOME RAGIONE_SOCIALE, in qualità di socio della società RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio del Prof. Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO giusta procura rilasciata in calce al ricorso per cassazione.
(Pec: EMAIL
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i
cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO (Pec: EMAIL.
– controricorrente –
avverso le sentenze della Commissione tributaria regionale del LAZIO, sezione staccata di Latina, nn. 3121/40/2016, 3129/40/2016, 3125/40/2016, 3127/40/2016, depositate tutte in data 19 maggio 2016, e n. 3496/40/2016, depositata in data 6 giugno 2016, non notificate; udita la relazione delle cause svolte nella pubblica udienza del 9 aprile 2025 dal Consigliere NOME COGNOME udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto dei ricorsi; udito per le parti ricorrenti l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento de i ricorsi per cassazione; che ha
udito per la parte controricorrente l’Avv. NOME COGNOME chiesto il rigetto dei ricorsi per cassazione;
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle Entrate di Latina, con avviso di accertamento emesso a seguito di P.V.C. del 27 ottobre 2009 nei confronti della società «RAGIONE_SOCIALE, aveva recuperato il costo documentato dalla fattura n. 5 del 31 dicembre 2004, avente un imponibile di euro 13.000,00, oltre Iva detratta pari ad euro 2.600,00, emessa dalla Società RAGIONE_SOCIALE e relativa ad un’attività di facchinaggio, presumendo l’inesistenza soggettiva ed oggettiva della prestazione, solo formalmente documentata dalla citata fattura.
Da tale avviso emesso nei confronti della società scaturivano degli accertamenti per il reddito di partecipazione dei soci ex art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986 nei confronti di COGNOME Tommaso, COGNOME
COGNOME e COGNOME NOME (e per questi adesso gli eredi) e COGNOME NOME
La società e i soci proponevano separati ricorsi avverso gli atti impositivi loro notificati e la Commissione tributaria provinciale di Latina li accoglieva, ritenendo che l’Ufficio non avesse fornito adeguate prove a sostegno della ricostruzione accertativa operata e non avesse prodotto neppure il PVC ed osservando che dai rilievi della Guardia di Finanza si evidenziava che il costo del personale doveva imputarsi alla società e non alla cooperativa, ma che nulla rilevava in merito all’inesistenza della prestazione di facchinaggio effettuata, la quale, pertanto, non poteva essere ritenuta inesistente.
La Commissione tributaria regionale, per quel che rileva in questa sede, adita dall’Agenzia delle Entrate , con separati appelli, li ha accolti, sulla base delle seguenti considerazioni:
-) era errata l’affermazione dei primi giudici sull’esistenza della prestazione di facchinaggio, in quanto l’Ufficio aveva dedotto l’inesistenza dell’attività di intermediazione del lavoro svolto dalla società cooperativa e non l’inesistenza della prestazione di mano d’opera;
-) l’Ufficio, sulla base degli indizi gravi, precisi e concordanti, raccolti nel corso delle verifiche effettuate e come risultavano dal P.V.C., aveva ritenuto, condivisibilmente, la sussistenza di una interposizione fittizia del soggetto cooperativa, nello svolgimento del rapporto di «somministrazione lavoro», posto che vi era stata assoluta promiscuità tra i lavoratori della cooperativa e quelli della società e che la società cooperativa (che non aveva assolto ad alcun obbligo relativo al versamento delle imposte dovute, in particolare dell’Iva) aveva l’unico scopo di svolgere la funzione di soggetto interposto, al fine di emettere fatture in favore di terzi i quali traevano il duplice vantaggio fiscale di sostenere un costo documentato dalle fatture e di accumulare credito Iva in realtà inesistente, tuttavia suscettibile di utilizzazione in
compensazione o a rimborso e a ciò doveva aggiungersi il vantaggio, per la società accertata in oggetto, di far convergere gli obblighi contributivi della mano d’opera impegnata, su altro soggetto;
-) in tali casi, la società che intratteneva rapporti commerciali con la «cartiera» assumeva il rischio di un eventuale comportamento fraudolento di questa, con la conseguente impossibilità di portare in detrazione le somme versate a titolo di Iva, poiché rappresentate da documenti contabili illegittimi e con la conseguente indeducibilità del costo del lavoro, poiché costo non determinato secondo le regole del T.U.I.R., in particolare nel caso di specie ove il costo era costituito da una «somministrazione di personale».
La società «De RAGIONE_SOCIALE», NOME e COGNOME NOME, quali eredi di COGNOME Guido, già socio della società «De RAGIONE_SOCIALE»; COGNOME, COGNOME Teresa e COGNOME NOME, tutti quali soci della società «RAGIONE_SOCIALE», hanno proposto separati ricorsi per cassazione con atti affidati a cinque motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con separati controricorsi.
Con ordinanze interlocutorie nn. 21626, 21725 e 21718 del l’1 agosto 2024, questa Corte ha disposto il rinvio a nuovo ruolo delle cause nn. 427/2017 R.G., 430/2017 R.G. e 431/2017 R.G. per la trattazione congiunta dei ricorsi della società e dei singoli soci.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare, va disposta, ai sensi dell’art. 274 cod. proc. civ., la riunione, al ricorso per cassazione iscritto al n. 424/2017 R.G., dei ricorsi nn. 427/2017 R.G., 430/2017 R.G.; 431/2017 R.G. e 432/2017 R.G.
1.1 Ed infatti, benché i giudizi richiamati non investano la medesima sentenza, essi riguardano, tuttavia, provvedimenti fra loro connessi e
sono, inoltre, ravvisabili ragioni di economia processuale e configurabili profili di unitarietà sostanziale e processuale delle controversie, in presenza di sentenze pronunciate in grado di appello riguardo a contenzioso litisconsortile (Cass., Sez. U., 23 gennaio 2013, n. 1521; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27550; Cass., 15 febbraio 2018, n. 3789; Cass., 15 settembre 2022, n. 27158).
Deve premettersi che i ricorsi si fondano su cinque motivi del tutto sovrapponibili e che, dunque, appaiono suscettibili di un esame unitario, in ragione della loro sostanziale omogeneità.
Il primo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità delle sentenze per violazione e falsa applicazione dell’art. 36, secondo comma, del decreto legislativo n. 546 del 1992 e dell’art. 132, secondo comma, nn. 3 e 4, c.p.c. Le sentenze impugnate non avevano assolto l’obbligo della « concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione », così come non c’era alcun richiamo alle fondamentali « richieste delle parti ». Nello specifico, sia in primo, che in secondo grado la società ricorrente aveva contestato all’Ufficio finanziario di avere posto in essere un accertamento « valevole erga omnes », nel senso che quell’accertamento non poteva riferirsi specificamente alla società RAGIONE_SOCIALE, ma genericamente a tutte le aziende che in quegli anni avevano avuto rapporti di lavoro con la RAGIONE_SOCIALE La parte ricorrente aveva richiesto all’Ufficio di fornire le generalità dei dipendenti anonimi, ma tale richiesta era stata disattesa dall’Ufficio e il Giudice di appello, contrariamente alla sentenza di primo grado (che sul punto aveva affermato che l’Ufficio non aveva dimostrato che gli operai erano comunque dipendenti della società contribuente), non ne aveva fatto alcuna menzione nel testo della sentenza.
3.1 Il motivo è infondato.
3.2 Deve premettersi, in punto di ricostruzione fattuale, che in data 21 ottobre 2009, la Guardia di Finanza aveva avviato una verifica fiscale
nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, in esito alla quale l’Agenzia delle Entrate aveva notificato l’avviso di accertamento n. RG3020301172/2009 per recupero a tassazione del costo di euro 13.000,00 e dell’IVA di euro 2.600,00 relativa alla fattura n. 5 del 31 dicembre 2004 emessa dalla RAGIONE_SOCIALE; contestualmente erano stati emessi gli avvisi di accertamento a carico dei soci (n. RC3010301243 a carico del socio COGNOME Guido; n. RC3010301245 a carico del socio COGNOME NOME; n. RC3010301244 a carico del socio COGNOME NOME e n. RC3010301246 a carico del socio COGNOME NOME), per il maggior reddito di partecipazione nella suddetta società di euro 3.250,00, pari al 25%. Inoltre, come si legge nel ricorso per cassazione nella parte in cui è trascritto il contenuto del PVC, la Guardia di Finanza aveva accertato un’intermediazione di mano d’opera abusiva, in quanto da un lato la società cooperativa sociale, che avrebbe dovuto versare l’IVA addebitata sulle fatture e le ritenute fiscali trattenute ai dipendenti, di fatto non le aveva versate, pur essendovi obbligata, e dall’altro lato la società committente aveva ottenuto il duplice vantaggio di sostenere un costo per il personale, documentato dalla fattura emessa dalla cooperativa e di vantare un credito IVA inesistente, suscettibile di rimborso. Ciò perché la società cooperativa sociale era risultata priva di strutture operative e con limitati beni strumentali. Ed ancora, per la Guardia di Finanza i lavoratori avevano effettivamente lavorato presso la società committente, ma pur essendo formalmente alle dipendenze della società cooperativa con contratto di lavoro subordinato essi avevano svolto la loro attività organizzativa inseriti nell’organizzazione produttiva della società committente. L’ufficio, dunque, con l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società aveva recuperato il costo della fattura in contestazione di euro 13.000,00, considerando detta somma reddito d’impresa (da euro 59.193,00 dichiarato ad euro
72.193,00 accertato) e sul reddito così determinato aveva calcolato l’IRAP dovuta (per euro 650,00) ed aveva recuperato l’Iva di euro 2.600,00, in ragione del mancato riconoscimento del credito Iva sulla somma di euro 13.000,00, applicando le relative sanzioni ed emettendo, poi, gli avvisi di accertamenti per il reddito di partecipazione dei soci ex art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986.
3.3 Ciò posto, le sentenze impugnate, che si caratterizzano per assumere lo stesso iter argomentativo, hanno ritenuto che sussistevano indizi gravi, precisi e concordanti che riscontravano la sussistenza di una interposizione fittizia del soggetto cooperativa (mentre era effettiva la prestazione di facchinaggio resa dai dipendenti asseritamente somministrati dalla società cooperativa), nello svolgimento del rapporto di «somministrazione lavoro», posto che vi era assoluta promiscuità tra i lavoratori della cooperativa e quelli della società e che la società cooperativa (che non aveva assolto ad alcun obbligo relativo al versamento delle imposte dovute, in particolare dell’Iva) aveva l’unico scopo di svolgere la funzione di soggetto interposto, al fine di emettere fatture in favore di terzi i quali traevano il duplice vantaggio fiscale di sostenere un costo documentato dalle fatture e di accumulare credito Iva in realtà inesistente, tuttavia suscettibile di utilizzazione in compensazione o a rimborso e a ciò doveva aggiungersi il vantaggio, per la società accertata in oggetto, di far convergere gli obblighi contributivi della mano d’opera impegnata, su altro soggetto; inoltre, in presenza di rapporti commerciali con la società cooperativa, società cartiera, non era possibile portarsi in detrazione l’Iva (in quanto i documenti contabili erano illegittimi), né era possibile portarsi in deduzione il costo del lavoro, che non era stato determinato secondo le regole del T.U.I.R..
3.4 Risulta, pertanto, evidente che le decisioni impugnate assolvono in misura adeguata al requisito di contenuto richiesto dalle disposizioni di legge di cui i ricorsi lamentano la violazione, attesa l’esposizione delle
ragioni di fatto e di diritto delle decisioni, sufficiente ad evidenziare il percorso argomentativo e funzionale alla loro comprensione e alla loro eventuale verifica in sede di impugnazione.
3.5 Va osservato, con la giurisprudenza di questa Corte, che, dovendo l’obbligo motivazionale ritenersi compiutamente adempiuto allorché per mezzo della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione venga ad essere illustrato il percorso motivazionale che ha indotto il giudice a regolare la fattispecie al suo esame mediante la norma di diritto applicata, viene al contrario meno all’obbligo in parola – e si mostra perciò viziata dal difetto di motivazione apparente o di mancanza della motivazione – la decisione nella quale « il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento » (Cass., 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., 5 agosto 2019, n. 20921; Cass., 7 aprile 2017, n. 9105).
3.6 Più specificamente in base alla costante giurisprudenza di legittimità, la «motivazione apparente» ricorre allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente – come parte del documento in cui consiste la sentenza (o altro provvedimento giudiziale) – non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’ iter logico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice (Cass., Sez. U. 22 settembre 2014, n. 19881).
3.7 Così delineati i principi statuiti da questa Corte, la censura svolta dai motivi non appare fondata, dal momento che dalla lettura delle sentenze impugnate risultano chiaramente esposte, anche se in forma concisa, le ragioni della decisione: i giudici di secondo grado, sulla
premessa della effettività delle prestazioni di facchinaggio rese alle dipendenze della società committente, hanno sostanzialmente ritenuto la sussistenza di un ‘ interposizione fittizia della società cooperativa, tenuto conto che la stessa era una società cartiera (dunque soggetto inesistente) e che vi era una assoluta promiscuità tra i lavoratori della cooperativa (soggetto appaltatore) e quelli della società ricorrente (soggetto committente) e che la società cooperativa non aveva assolto al versamento dell e imposte dovute e, in particolare, dell’Iva relativa alle fatture che emetteva (e tra questa anche la fattura oggetto di accertamento nella vicenda in esame); in tal modo la società contribuente da un lato aveva conseguito il duplice vantaggio fiscale di sostenere il costo documentato dalla fattura e di maturare un credito Iva che, in realtà, era inesistente, ma suscettibile di essere utilizzato in compensazione o a rimborso e, dall’altro, aveva fatto convergere gli obblighi contributivi della mano d’opera utilizzata per le prestazioni di lavoro in capo ad un altro soggetto (la società cooperativa).
4. Il secondo motivo deduce l’omesso esame di fatti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., e specificamente della totale mancanza di prove a sostegno delle varie e ge neriche deduzioni contenute nell’avviso di accertamento e dell’esistenza di attrezzature che, anche se poche, erano comunque sufficienti per svolgere semplici lavori di facchinaggio, dal che si deduceva come la società cooperativa fosse giuridicamente esistente e realmente operativa, anziché «cartiera», come apoditticamente affermato nella sentenza impugnata. Elementi decisivi erano dunque la « mancata produzione di atti e/o documenti da parte dell’Ufficio aventi ad oggetto il licenziamento da parte della S.n.c. e la successiva riassunzione di operai da parte della RAGIONE_SOCIALE, quale operazione ritenuta rilevante dai Giudici (che da essa hanno fatto dipendere “il vantaggio, per la società accertata in oggetto, di far convergere gli obblighi contributivi della mano d’opera, su altro soggetto…”),
nonostante l’Agenzia non avesse affatto prodotto in giudizio (benché ripetutamente intimata a farlo) nemmeno un contratto di lavoro riguardante operai tanto della RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, quanto della RAGIONE_SOCIALE ». I giudici di secondo grado non avevano considerato che anche se le attrezzature erano poche, in ogni caso esistevano ed erano state utilizzate dagli operai della cooperativa. Non era stata, poi, verificata l’affermazione dell’Ufficio, secondo cui la società ricorrente aveva licenziato alcuni suoi operai (i cui nomi non erano stati mai forniti) per farli diventare soci della cooperativa per poi riprenderli al lavoro quali dipendenti di questa.
5. Il terzo motivo deduce l’omesso esame di fatti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma , n. 5, c.p.c., costituito dalla antieconomicità dell’ipotizzata interposizione di mano d’opera e dalla presunta creazione ad hoc di una società cooperativa che si faceva carico, in luogo della società ricorrente, degli oneri fiscali previdenziali gravanti sui vari lavoratori. In particolare, la società ricorrente aveva utilizzato il lavoro di facchinaggio per il solo anno 2004 e la RAGIONE_SOCIALE era una Onlus preesistente ed operante da anni in quel settore, peraltro dotata di specifica autorizzazione ottenuta dalla stessa Agenzia delle Entrate. Non era stato considerato il mancato «vantaggio» economico per la società derivato dall’utilizzo di altri lavoratori in aggiunta ai propri dipendenti interni, in quanto la società ricorrente, per supplire al picco stagionale registratosi nel 2004 nella lavorazione dei prodotti ortofrutticoli, si era servita della società cooperativa solo per qualche settimana, sostenendo un costo di appena 13.000,00 euro, a fronte di un costo annuale sostenuto per le retribuzioni ai propri lavoratori assunti a tempo indeterminato, di 311.593,00 euro, come risultava dai bilanci prodotti nei giudizi di merito, con la conseguenza che non poteva esserci alcuna convenienza economica a creare una apposita cooperativa al fine di trasferire su di essa i costi gravanti su compensi di soli euro 13.000,00 e
corrispondenti ad appena lo 0,04% dei salari corrisposti dalla società ricorrente al proprio personale interno.
Il quarto motivo deduce l’omesso esame di fatti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.. I giudici di secondo grado, in particolare, non avevano considerato che la società committente, e quindi il socio di questa, non poteva rispondere delle omissioni fiscali della cooperativa per tre motivi: a) perché la cooperativa non era una «cartiera» ma un soggetto vero ed operante, che fatturava operazioni vere e non false (come avevano affermato sia l’Agenzia delle Entrate che il giudice d’appello); b) perché la cooperativa era una ONLUS (come aveva affermato la stessa Agenzia) riconosciuta ufficialmente tale dalla stessa Agenzia delle Entrate dopo apposita istruttoria, per cui la committente si era rivolta ad essa con fiducia anche in virtù del riconoscimento erariale; c) perché trattandosi di rapporto di breve durata e per importi marginali rispetto ai costi sostenuti dalla società partecipata per proprio personale dipendente interno, la medesima, qualora avesse davvero mai dovuto vigilare, non aveva mai saputo, né avrebbe potuto sapere, né avrebbe avuto i mezzi per sapere che la cooperativa era inadempiente nell’assolvimento dei propri obblighi fiscali, né l’Ufficio aveva mai provato il contrario.
Il secondo, terzo e quarto motivo, che devono essere trattati unitariamente perché strettamente connessi, sono inammissibili, in quanto, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., come introdotta dal decreto legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, oggetto del vizio di cui alla citata norma è esclusivamente l’omesso esame circa un «fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti». Il mancato esame, dunque, deve riguardare un vero e proprio «fatto», in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 cod. civ., cioè un «fatto» costitutivo,
modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (Cass., 8 settembre 2016, n. 17761; Cass. 13 dicembre 2017, n. 29883), e non, invece, le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass., SU, 20 giugno 2018, n. 16303; Cass. 14 giugno 2017, n. 14802), oppure gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053), così, nel caso in esame, dove i ricorrenti hanno dedotto come fatti omessi la totale mancanza di prove a sostegno delle deduzioni contenute nell’avviso di accertamento; l’esistenza della società cooperativa; la mancata considerazione che anche se le attrezzature erano poche, in ogni caso queste esistevano ed erano state utilizzate dagli operai della cooperativa; la mancata verifica del licenziamento da parte della società ricorrente di alcuni suoi operai (i cui nomi non erano stati mai forniti) per farli diventare soci della cooperativa per poi riprenderli al lavoro quali dipendenti di questa, ed, infine, l’antieconomicità dell’interposizione di mano d’opera e della creazione di una apposita società cooperativa sulla quale fare gravare il carico fiscale previdenziale dei lavoratori.
7.1 Il «fatto» il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere «decisivo», vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia, e deve, altresì, essere stato «oggetto di discussione tra le parti»: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto «controverso», contestato, non dato per pacifico tra le parti. È utile rammentare, poi, che Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053, ha chiarito che « la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ. – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla
sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti » (cfr. anche Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415).
7.2 Si tratta di motivi, in realtà, che, all’evidenza, mirano a contrastare la valutazione compiuta dal giudice di merito in ordine alla gravità, precisione e concordanza degli elementi indiziari posti a base dell’avviso di accertamento a supporto delle riprese, tali ritenuti dai giudici di secondo grado e che sulla base degli stessi hanno accertato che la società cooperativa fosse una società cartiera e che pertanto non avesse effettivamente prestato l’attività di intermediazione oggetto del contratto di appalto stipulato con la società committente e ciò senza prescindere dalla circostanza che, comunque, gli indizi offerti dall’Amministrazione finanziaria non devono assumere i connotati di prove certe e che la Commissione tributaria regionale ha specificamente elencato gli elementi indiziari sulla base dei quali ha fondato il proprio convincimento e ha legittimamente effettuato la propria valutazione di merito in ordine alla congruità delle presunzioni poste a fondamento dell’avviso di accertamento.
8. Il quinto motivo deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 14, comma 4 bis , della legge n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta dall’art. 8, comma 1, del decreto legge n. 16 del 2012; degli artt. 19 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972; dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c .p.c. I costi risultanti da operazioni soggettivamente inesistenti erano deducibili se sul piano oggettivo sussisteva l’inerenza della prestazione all’attività d’impresa del beneficiario. Nel caso in esame non era stata mai messa in discussione né la reale effettuazione dell’operazione, né la sua inerenza all’attività esercitata dalla società ricorrente , né l’Ufficio aveva fornito il riscontro documentale di quegli indizi (gravi, precisi e concordanti),
circa l’inesistenza soggettiva, richiesti dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale.
8.1 Il motivo è infondato.
8.2 Ed invero già questa Corte ha affermato con riguardo all’Iva che tocca all’acquirente di beni o al committente di prestazioni di servizi che invochi il diritto di detrazione dell’iva assolta o dovuta provare che ricorrono i presupposti per fruirne (tra varie, Corte di Giustizia UE, 18 luglio 2013, causa C-78/12, “RAGIONE_SOCIALE” EOOD, punto 37), con il conseguente corollario che grava sulla contribuente l’onere di provare che quelli intercorsi con la società cooperativa siano rapporti contrattuali di appalto. È in tal caso, difatti, che potrebbe sostenere che l’intero corrispettivo previsto rientri nella base imponibile dell’iva e, quindi, affermare la correlativa detraibilità dell’imposta assolta o dovuta.
8.3 Ed invero, il contratto di somministrazione di manodopera irregolare schermato da quello di appalto, anche dopo il d.lgs. n. 276 del 2003 (che non ha eliminato la figura della somministrazione irregolare di manodopera già vietata dall’art. 1 della legge n. 1369 del 1960), séguita ad incorrere in nullità e ciò conforma anche la sorte del contratto fra lavoratore e somministratore ed incide ai fini dell’IVA e dell’IRAP e restando irrilevante, a tali fini, la richiesta del lavoratore, mediante ricorso giudiziale a norma dell’art. 414 c.p.c., di costituire il rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione (Cass., 19 aprile 2017, n. 18808; Cass., 7 dicembre 2018, n. 31720; Cass., 10 dicembre 2019, n. 32185).
8.4 Anche quanto alla pretesa per l’ IRAP, la pretesa scaturisce dall’esclusione della deducibilità dei costi sostenuti dalla società contribuente per le prestazioni dei lavoratori formalmente dipendenti dalla società cooperativa, facendo leva sulla configurazione come appalto del rapporto con questa intercorso; laddove, a fronte dell’onere per il fisco di provare l’esistenza di un reddito imponibile e la qualità di
debitore del contribuente, spetta a quest’ultimo l’onere di provare la sussistenza di componenti negativi da dedurre (cfr. Cass., 18 febbraio 2017, n. 5079).
8.5 Rileva, dunque, ancora una volta il rapporto intercorso tra le società come appalto, oppure somministrazione irregolare. Qualora si ravvisi la somministrazione nulla per mancanza di forma scritta, visto che i lavoratori per legge sono considerati alle dipendenze dell’imprenditore che ne utilizza effettivamente le prestazioni, è destinato a rimanere fermo il principio, dettato in relazione alla disciplina precedente, secondo il quale soltanto sull’utilizzatore gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo, nonché fiscale, scaturenti dal rapporto di lavoro, sicché egli non può portare in deduzione ai fini IRAP, quale componente negativa di reddito, le spese per il personale dipendente, ai sensi dell’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 446 del 1997 (Cass., 19 aprile 2017, n. 18808, in motivazione).
8.6 Ma anche negli altri casi di somministrazione nulla, in cui occorre che siano i lavoratori a chiedere ed ottenere la conversione sopra specificata, i componenti in questione non sono deducibili, per mancanza di certezza, derivante appunto dalla nullità del titolo giuridico da cui scaturisce la relativa obbligazione patrimoniale. E, come già precisato da questa Corte, che il requisito della certezza dei costi sia predicabile anche in tema di IRAP, si evince dal richiamo che l’art. 5 del d.lgs. n. 446 del 1997 fa all’art. 2425 c.c. e, per conseguenza, ai requisiti di correttezza e veridicità del bilancio che attengono al risultato economico (Cass., 19 aprile 2017, n. 18808, sempre in motivazione).
8.7 Né è prospettabile l’applicazione dell’art. 14, comma 4 bis, della legge n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del decreto legge n. 16 del 2012, come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 44 del 2012, che implicitamente ammette la deducibilità dei costi e delle spese dei beni o delle prestazioni di
servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività integranti reato contravvenzionale (in termini, Cass., 4 marzo 2013, n. 5342), benché l’art. 18 del d.lgs. n. 276 del 2003 configuri « nei confronti dell’utilizzatore che ricorre alla somministrazione di prestatori di lavoro da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 4, comma 1, lettera a), ovvero da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 4, comma 1, let tera b), o comunque al di fuori dei limiti ivi previsti» , appunto un reato contravvenzionale. E ciò a causa ancora una volta della mancanza di certezza dei costi, comunque necessaria ai fini dell’applicazione della disposizione (cfr. Cass., 7 dicembre 2018, n. 31720; Cass. 20 aprile 2016, n. 7896; Cass., 17 dicembre 2014, n. 26461).
8.8 Si tratta di principi che sono stati confermati, più di recente, sia con riguardo all’IVA, (cfr. Cass., 17 novembre 2021, n. 34876, secondo cui « in caso di somministrazione irregolare, schermata da un contratto di appalto di servizi, va escluso il diritto alla detrazione dei costi dei lavoratori per invalidità del titolo giuridico dal quale scaturiscono, non essendo configurabile prestazione dell’appaltatore imponibile ai fini IVA» ), sia in relazione all’IRAP (cfr. Cass., 8 marzo 2022, n. 7440 , che ha statuito che « in caso di somministrazione irregolare, schermata da un contratto di appalti di servizi, va escluso il diritto alla detrazione dei costi dei lavoratori per invalidità del titolo giuridico dal quale scaturiscono, per non essere configurabile prestazione dell’appaltatore imponibile ai fini Irap, né può assumere rilevanza l’azione giudiziale dei lavoratori per la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore effettivo, in quanto la conversione del rapporto, di per sé, implica la nullità dei contratti che ne sono oggetto »).
8.9 Invero, come precisato da questa Corte, una volta venuta meno l’efficacia giuridica della fatturazione, per la nullità dei contratti fra la società interponente e la società interposta ( così nel caso in esame, dove rileva il contratto di appalto stipulato tra la società cooperativa e
la società contribuente ), viene meno anche la deducibilità dei costi fatturati e l’onere della prova rigorosa delle componenti di costo riferibili in concreto alla sola forza lavoro incombe su colui che invoca la deduzione (Cass., 17 ottobre 2014, n. 22020 e, più di recente, Cass., 19 aprile 2024, n. 10648).
8.10 Ciò posto, nel caso in esame, dove i giudici di secondo grado hanno accertato l’inesistenza della prestazione di intermediazione di manodopera svolta dalla società cooperativa (soggetto appaltatore) nei confronti della società ricorrente (soggetto committente), va escluso il diritto alla detrazione dei costi dei lavoratori per invalidità del titolo giuridico dal quale scaturiscono (contratto di somministrazione di manodopera irregolare schermato da quello di appalto), non essendo configurabile una prestazione dell’appaltatore imponibile ai fini IVA e ai fini IRAP (nella vicenda in esame, infatti, non si discute della deduzione dei costi con rifer imento alle ritenute d’acconto) ; manca, infatti, la certezza dei costi, comunque necessaria ai fini dell’applicazione della disposizione invocata dai ricorrenti.
Per quanto esposto, il ricorso va rigettato e i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, in applicazione dell’art. 4 , comma 2, del d.m. n. 55 del 2014, (« Quando in una causa l’avvocato assiste più soggetti aventi la stessa posizione processuale, il compenso unico può essere aumentato per ogni soggetto oltre il primo nella misura del 30 per cento, fino a un massimo di dieci soggetti, e del 10 per cento per ogni soggetto oltre i primi dieci, fino a un massimo di trenta. La disposizione di cui al periodo precedente si applica quando più cause vengono riunite, dal momento dell’avvenuta riunione e nel caso in cui l’avvocato assiste un solo soggetto contro più soggetti »), nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
La Corte dispone la riunione al ricorso n. 424/2017 R.G., dei ricorsi nn. 427/2017 R.G., 430/2017 R.G.; 431/2017 R.G. e 432/2017 R.G.; rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, ex art. 4, comma 2, del d.m. n. 55 del 2014, in euro 13.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 9 aprile 2025 e, a seguito di riconvocazione, il