Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32002 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 32002 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 11/12/2024
Socio RAGIONE_SOCIALE ristretta base-decadenza art.43 dPR 600/73appello erariale -necessità di riproposizione dei motivi d ell’accertament o -esclusione-
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20521/2016 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso, in forza di procura in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliato in Roma alla INDIRIZZO presso l’Avv. NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 861/2016, depositata in data 17/02/2016, non notificata;
udita la relazione tenuta nell’adunanza camerale del 13 novembre 2024 dal consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle Entrate, Direzione provinciale I di Milano, emetteva un avviso di accertamento nei confronti di NOME COGNOME con cui, per l’anno di imposta 2006, recuperava a imposizione a fini Irpef i redditi di partecipazione nella società RAGIONE_SOCIALE di cui egli era socio al 99 per cento, società destinataria di autonomo avviso di accertamento.
La Commissione tributaria provinciale di Milano accoglieva il ricorso, ritenendo l’amministrazione decaduta dal potere di accertamento.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva l’appello erariale; in particolare riteneva non maturata la decadenza in presenza del presupposto dell’obbligo di denuncia; nel merito riteneva che, alla luce dalla mancata impugnazione dell’avviso da parte della società, il socio poteva dedurre le proprie ragioni di merito che nel caso di specie erano però infondate. Riteneva però di ridurre le sanzioni, per le quali aveva escluso la decadenza in via autonoma, alla misura del 120 per cento.
Contro tale sentenza propone ricorso il contribuente sulla base di quattro motivi, illustrati da successiva memoria.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 13 novembre 2024.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., è rubricato nullità della sentenza per difetto di motivazione e violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992. Violazione (per falsa applicazione) degli artt. 43 d.P.R. n. 600/1973, 4 d.lgs. n.
74/2000 e 331 cod. proc. pen. Nullità dell’atto di accertamento carenza dei presupposti -decadenza dell’Ufficio. Falsa applicazione degli artt. 8, comma 2, legge 11 marzo 2014, n. 23, e 1, comma 132, legge n. 208/2015 . Il ricorrente censura la decisione della CTR sia ritenendone la nullità per difetto di motivazione, in quanto ha fatto riferimento all’art. 57 d.P.R. n. 633 del 1972, in tema di Iva, sia per difetto di sinteticità; inoltre deduce la violazione dell’art. 43 d.P.R. n. 600 del 1973, laddove, in riforma di quanto ritenuto dai primi giudici, la CTR ha escluso la decadenza dell’amministrazione dal potere di accertamento in considerazione della sussistenza degli estremi dell’obbligo di denuncia ed escludendo la rilevanza di norme sopravvenute.
Il motivo contiene quindi due distinte censure, una in termini di vizio della motivazione e l’altra in termini di violazione di legge.
1.1. La prima censura non è fondata.
1.1. In primo luogo, non sussiste affatto la denunciata nullità per vizio di motivazione.
Dal complesso dell’articolata motivazione dei giudici d’appello appare del tutto evidente che essi avessero individuato l’oggetto della lite nel recupero dell’Irpef e nella decadenza dal potere accertativo dell’ufficio, regolata, a tal fine, dall’art. 43 d.P.R. n. 600 del 1973; il riferimento, contenuto in alcuni passaggi, alla (peraltro del tutto analo ga) previsione dell’art. 57 d.P.R. n. 633 del 1972, in tema di Iva, appare pertanto un mero errore materiale che non ostacola in alcun modo la comprensione del chiaro percorso motivazionale.
Né tale comprensione appare ostacolata dall’asserito difetto di sinteticità che appare del tutto insussistente, essendo la motivazione semplicemente completa e volta ad esaminare tutti i profili legati alla eccezione di decadenza, anche sotto il profilo dello jus superveniens .
1.2. In secondo luogo, la decisione è corretta anche sotto il profilo della denunciata violazione di legge.
1.2.1. L’art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis , prevede che «in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione».
Come più volte chiarito da questa Corte, anche sulla scorta dei principi enunciati da Corte Cost. n. 247 del 2011, il raddoppio opera in presenza di tale presupposto astratto, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass. 28/06/2019, n. 17586; Cass. 13/09/2018, n. 22337; Cass. 30/05/2016, n. 11171), non rilevando «né l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ai sensi dell’articolo 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione, né la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, anche in considerazione del doppio binario tra giudizio penale e procedimento e processo tributario» (Cass. 15/05/2015, n. 9974).
Anche in caso di eventuale prescrizione del reato, questa Corte ha già chiarito che «ai fini del raddoppio dei termini previsti dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione applicabile ratione temporis , rileva unicamente la sussistenza dell’obbligo di presentazione di denuncia penale, a prescindere dall’esito del relativo procedimento e nonostante l’eventuale prescrizione del reato, poiché ciò che interessa è solo l’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato» (Cass. 11/04/2017, n. 9322).
Ancora, «in tema di accertamento tributario, il cd. raddoppio dei termini previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento ed i termini prolungati sono anch’essi fissati direttamente dalla legge, non integrando quindi ipotesi di “riapertura” o proroga di termini scaduti né di reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti, in quanto i termini “brevi” e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono diversi, unitari e distinti termini di accertamento» (Cass. 09/10/2017, n. 23628).
Infine, si è anche precisato che nel caso di raddoppio dei termini per l’accertamento nei confronti di una società di capitali a ristretta base sociale, deve necessariamente conseguire il raddoppio dei termini per l’accertamento nei confronti dei soci, per i quali l’accertamento consegue automaticamente in base alla presunzione di percezione degli utili extracontabili conseguiti dalla società, poiché in materia di imposte sui redditi, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, è ammissibile la presunzione di attribuzione ai soci di utili extracontabili e vi sarebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra socio, che sia anche legale rappresentante, e gli altri soci, pur partecipi alla compagine sociale ristretta (Cass. 30/06/2021, n. 18451).
1.2.2. Ciò naturalmente non rende di per sé legittimo qualunque accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria oltre il termine-base fissato dalla legge, dovendo al contrario essere evitato, come chiarito dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 247 del 2011, un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni in esame al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.
Per verificare l’uso pretestuoso del raddoppio dei termini «il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al
riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità», con la precisazione però che «il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario – è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato» (p. 5.3. della sentenza della Corte costituzionale).
1.2.3. Inoltre, questa Corte ha già affermato che in tema di accertamento tributario, i termini previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600/1973 per l’Irpef (e 57 del d.P.R. n. 633/1972 per l’Iva), nella versione applicabile ratione temporis , sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 e già notificati (come nel caso di specie), incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della l. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 128 del 2015, che fa salvi gli effetti degli avvisi già notificati al 2 settembre 2015, come nel caso di specie (Cass. 9/08/2016, n. 16728; Cass. 14/05/2018, n. 11620; Cass. 10/12/2021, n. 39416; Cass. 19/09/2024, n. 25191).
Questa Corte (Cass. n. 16728/2016 citata) ha infatti al riguardo precisato che La salvezza contemplata da quest’ultima norma, riferendosi senza distinzione agli effetti degli avvisi, non può che riguardare l’intero corredo disciplinare, sul piano delle conseguenze, scaturente dal diritto vivente, dinanzi sunteggiato, al cospetto del quale è destinata a cedere l’applicabilità immediata delle norme introdotte nel 2015 in tema di raddoppio dei termini, derivante dalla loro natura procedimentale. Né si può invocare il principio del favor rei,
l’applicazione del quale è predicabile unicamente al cospetto di norme sanzionatorie, non già allorquando, come nel caso in esame, si tratti dei poteri di accertamento dell’ufficio .
Infine, al riguardo, questa Corte (Cass. n. 39416/2021 citata) ha anche ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 128 del 2015, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 53 e 97 Cost., nella parte in cui circoscrive l’ambito di operatività delle modifiche al regime del cd. raddoppio dei termini per l’accertamento tributario ai soli avvisi notificati dopo l’entrata in vigore del citato decreto legislativo, essendo espressione del ragionevole esercizio discrezionale del potere del legislatore la conservazione, pur a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 132, della l. n. 208 del 2015, della vigenza della disciplina transitoria di cui al succitato art. 2, comma 3.
1.2.4. A tali principi, consolidati da ampia e costante giurisprudenza di questa Corte, ai quali va data ulteriore continuità, la CTR ha dato corretta applicazione, rendendo sufficiente motivazione in fatto ove ha escluso il carattere strumentale della denuncia; ha infatti evidenziato che la ricostruzione dei redditi sociali e del socio fornita dall’amministrazione evidenziava una base imponibile ampiamente superiore alle soglie di punibilità; la denuncia della notizia di reato inoltre individuava la fattispecie addebitata, forniva una sintetica ricostruzione dei passaggi logici seguiti ed allegava il verbale di accertamento. Si rivela quindi infondata anche la seconda censura contenuta nel primo motivo di ricorso, dovendosi evidenziare peraltro che gli elementi appena indicati rendono la fattispecie del tutto diversa da quella esaminata da Cass. n. 16460/2024 indicata in memoria.
Col secondo motivo, proposto in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., si deduce violazione (per falsa applicazione) degli artt. 53 e 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, assumendo
che la CTR abbia errato laddove non ha ritenuto formatosi il giudicato interno sul merito dell’accertamento, in quanto l’amministrazione appellante, soccombente in primo grado sull’eccepita decadenza, aveva proposto appello solo su tale questione, senza riproporre le ragioni fondanti l’accertamento.
2.1. Il motivo non è fondato.
In primo luogo, non appare corretto il presupposto in fatto evidenziato dal ricorrente, e cioè che la CTP abbia reso delle statuizioni anche sul merito della lite; è del tutto evidente invece che il passo della sentenza di primo grado riportato dal ricorrente è meramente descrittivo dell’oggetto della lite e precede l’effettiva ratio decidendi , esplicitata chiaramente nell’affermazione secondo cui la questione della decadenza ha carattere preliminare e assorbente .
In secondo luogo, il motivo è infondato in diritto.
Secondo fermo orientamento di questa Corte, infatti, nel processo tributario, l’art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, nel prevedere che le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate, fa riferimento, come il corrispondente art. 346 cod. proc. civ., all’appellato e non all’appellante, principale o incidentale che sia, in quanto l’onere dell’espressa riproposizione riguarda, nonostante l’impiego della generica espressione «non accolte», non le domande o le eccezioni respinte in primo grado, bensì solo quelle su cui il giudice non abbia espressamente pronunciato, ad esempio, perché ritenute assorbite (Cass. 6/06/2018, n. 14534).
Coerentemente, ove il giudice di primo grado abbia accolto il ricorso sulla base di una questione, avente natura preliminare, proposta dal contribuente (come, nel caso di specie, la decadenza dal potere di accertamento ai sensi dell’art. 43 d.P.R. n. 600 del 1973), l’amministrazione correttamente deve censurare l’unica esplicita ratio
decidendi e nel fare ciò legittimamente devolve al giudice di appello l ‘esame dell’ intera controversia (in termini Cass. 10/08/2010, n. 18559; Cass. 26/05/2017, n. 13424; Cass. 27/04/2016, n. 8332; Cass. 25/06/2020, n. 12591; Cass. 26/04/2023, n. 10993).
Va pertanto riaffermato il principio di diritto per cui l’Amministrazione che impugni la sentenza sulla sola questione preliminare che ha condotto il giudice di primo grado all’accoglimento del ricorso, come nel caso di specie la decadenza dal potere di accertamento ai sensi dell’art. 43 d.P.R. n. 600 del 1973, non può ritenersi rinunciante a far valere nel merito la pretesa tributaria, non applicandosi l’art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, che va riferito all’appellato e non all’appellante.
Il motivo pertanto è infondato avendo la CTR correttamente escluso il giudicato interno sulle domande di merito dell’amministrazione.
3. Il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., è rubricato violazione e falsa applicazione degli artt. 5 t.u.i.r., 2729, 2697 cod. civ., 116, primo comma, cod. proc. civ., 1, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992Falsa applicazione dell’art. 39 d.P.R. n. 600/1973 -Omesso assolvimento dell’onere della prova e delle regole che presiedono le presunzioni semplici e la formazione del convincimento -Motivazione insufficiente e contraddittoria -Violazione degli artt. 42 d.P.R. n. 600/1973 e 3 legge n. 241/1990 -falsa applicazione degli artt. 176 e 9 t.u.i.r. nonchè dell’art. 2555 cod. civ. – Carenza dei presupposti -Difetto d’istruttoria -. Violazione degli artt. 32 e 42 d.P.R. n. 600/1973, 3 legge n. 241/1990 e 7, comma 1, legge n. 212/2000 -illogicità e, irragionevolezza e ingiustizia manifesta .
Il ricorrente deduce, sotto un primo profilo, che la CTR ha errato laddove non ha tenuto conto che egli, benchè socio al 99 per cento, non fosse l’ amministratore della società; che l’amministrazione
finanziaria non avesse dato prova della ridistribuzione degli utili; che, trattandosi di recuperi per costi non riconosciuti o per riqualificazione di una cessione di azienda in cessione di immobili, non sussistessero maggiori utili da redistribuire; la giurisprudenza di questa Corte, in merito alla presunzione di distribuzione dei maggiori utili accertati, si riferirebbe agli utili extracontabili e non ad utili derivanti da costi non deducibili o da rettifiche contabili (tale censura viene ricondotta, nell ‘esposizione del motivo, alla violazione degli artt. 5 t.u.i.r., 2729 e 2697 cod. civ., 116, primo comma, cod. proc. civ., e 1, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992).
Con una seconda censura si contesta che la CTR abbia errato nell’esaminare le doglianze relative all’accertamento nei confronti della società; per quanto concerne la recuperata plusvalenza, il ricorrente deduce che dal contratto notarile e dagli allegati si ricavava trattarsi di conferimento di azienda, cui conseguiva l ‘applicabilità dell’art. 176 t.u.i.r., disconosciuto dall’amministrazione che aveva ritenuto trattarsi di cessione di immobile; per quanto concerne la seconda ripresa, relativa a operazioni attive della società desunte dal quadro IVA, portate tra i ricavi ai sensi dell’art. 85 t.u.i.r. , e al disconoscimento di costi non documentati, il contribuente deduce che, non essendo egli amministratore, non gli sarebbe imputabile il mancato deposito dei documenti contabili, chiesto all’amministratore, e che egli inoltre avrebbe ceduto le quote con due atti del 2007 e del 2008, prima dell’accertamento.
Sul punto, occorre premettere che appaiono inammissibili i riferimenti, contenuti nella rubrica, a ipotesi di motivazione insufficiente o contraddittoria, in quanto in seguito alla riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di
contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass., Sez. U., 7/04/2014, n. 8053; Cass. 3/03/2022, n. 7090).
L’esame del motivo deve essere quindi compiuto solo in riferimento alle censure in esso enucleabili che siano riconducibili a prospettate violazioni di legge.
3.1. Le doglianze esposte nella prima parte del motivo sostanzialmente attengono alla operatività della presunzione di redistribuzione degli utili in favore dei soci in una società a ristretta base sociale e sono tutte infondate.
3.1.1. In primo luogo, occorre ribadire il consolidato principio più volte espresso da questa Corte secondo il quale l’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 legittima la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili extra bilancio prodotti da società di capitali a ristretta base azionaria, con conseguente inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (Cass. 26/10/2005, n. 20851; Cass. 29/01/2008, n. 1924; Cass. 24/07/2013, n. 18032; Cass. 04/04/2022, n. 10679).
In questo senso la Corte ha precisato che la prova presuntiva che sia caratterizzata da una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali sia apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa sì che il fatto noto attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto ignorato, il quale cessa pertanto di essere tale
divenendo noto; ciò risolve l’equivoco logico che si cela nel divieto di doppie presunzioni (Cass. 07/12/2020, n. 27982).
Si è chiarito, pertanto, che non è configurabile nel sistema processuale un divieto di presunzioni di secondo grado, non essendo lo stesso riconducibile agli artt. 2729 e 2697 cod. civ. né ad altre norme; è ben possibile che il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituisca la premessa di un’ulteriore presunzione, ferma restando la necessità di valutare in concreto l’attendibilità del risultato, in termini di gravità, precisione e concordanza idonee a fondare l’accertamento del fatto ignoto (Cass. 22/04/2009, n. 9519; Cass. 29/10/2020, n 23860; Cass. 21/12/2022, n. 37361).
Essa opera con riferimento allo stesso esercizio in cui gli utili sono stati realizzati (Cass. 18/12/2015, n. 25468) e anche in assenza di rapporti di parentela, in quanto la ristrettezza della base sociale implica di per sé un elevato grado di compartecipazione dei soci, la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utili extrabilancio (Cass. 18/11/2014, n. 24572). In tal caso, la ristrettezza della base sociale è elemento presuntivo idoneo a reggere l’accertamento nei confronti del socio.
Nel caso di specie il ricorrente, come pacifico in atti, è socio, tramite fiduciaria, al 99 per cento della società.
Questa Corte ha altresì chiarito che neanche occorre, come invece dedotto dal ricorrente, che l’accertamento emesso nei confronti dei soci risulti fondato anche su elementi di riscontro, attraverso l’analisi delle loro movimentazioni bancarie o l’intervenuto acquisto di beni di particolare valore, non giustificabili sulla base dei redditi dichiarati (Cass. 11/08/2020, n. 16913).
Appare opportuno precisare, in riferimento in particolare alle osservazioni sviluppate nella memoria del contribuente su tale punto, che il nuovo comma 5bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992,
introdotto dall’art. 6 della l. n. 130 del 2022, secondo cui l’ amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato, non si pone in contrasto con la persistente applicabilità delle presunzioni anche non legali; in relazione alle ipotesi in cui non vi è una presunzione legale relativa (alcuni autori hanno parlato di presunzioni di creazione giurisprudenziale), come quella oggetto di esame, questa Corte, già nell’immediatezza dell’entrata in vigore della norma, ha affermato che in tema di onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, l’art. 7, comma 5bis , del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della l. n. 130 del 2022, non stabilisce un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale (Cass. 27/10/2022, n. 31878).
La disposizione in oggetto non ha fatto altro che ribadire un principio già presente nell’ordinamento tributario, ossia che l’amministrazione finanziaria deve provare il fondamento delle proprie pretese ma non pone limiti di sorta al modo attraverso cui tale prova deve essere fornita; né si ravvisano ulteriori limitazioni nell’art. 17 della legge di delega n. 111 del 2023, e nella successiva disciplina attuativa, per cui senz’altro deve ritenersi consentito il ricorso alle presunzioni semplici, ossia agli indizi che, se gravi, precisi e concordanti, integrano ai sensi degli artt. 2727 e 2729 cod. civ. la prova richiesta dall’art. 2697 cod. civ. (Cass. 8/05/2024, n. 12575; Cass. 9/07/2024, n. 18764; Cass. 10/10/2024, n. 26473).
Ne consegue che il principio innanzi indicato mantiene intatta la sua valenza, poiché la legge n. 130 del 2022 si è limitata a registrare una ricorrente modalità di valutazione, in applicazione dei principi generali,
degli elementi presuntivi che devono essere comunque essere accertati in relazione alla vicenda concreta (Cass. 15/07/2024, nn. 19409 e 19357).
3.1.2. Quanto, infine, al tema della prova contraria incombente sul contribuente, in un primo tempo, questa Corte ne ha individuato il contenuto nella (sola) dimostrazione che i maggiori ricavi dell’ente siano stati accantonati o reinvestiti ( ex plurimis , Cass. 24/07/2013, n. 18032; Cass. 18/10/2017, n. 24534), prova che il contribuente può fornire anche nel suo ruolo di titolare meramente formale delle quote, ma estraneo di fatto alla gestione societaria, perché comunque il ruolo formale permetterebbe, se del caso, di accedere ai libri sociali per acquisire elementi a tal fine.
Successivamente, si è riconosciuta la possibilità per il socio di vincere la presunzione di distribuzione degli utili extra bilancio dando la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria, avendo ricoperto un ruolo meramente formale di semplice intestatario delle quote sociali, senza avere concretamente svolto alcuna delle attività di gestione e controllo riservate dalla legge (e dallo statuto) al socio della società a responsabilità limitata ( ex plurimis, Cass. 7/06/2024, n. 15991; Cass. 4/03/2022, n. 7170; Cass. 15/9/2021, n. 24870; Cass. 1/12/2020, n. 27445; Cass. 24/07/2020, n. 15895; Cass. 9/07/2018, n. 18042; Cass. 14/07/2017, n. 17461; Cass. 22/12/2016, n. 26873; Cass. 2/02/2016, n. 1932). Di recente in tal senso Cass. 09/07/2024, n. 18764 e Cass. 10/10/2024, n. 26473, la quale in particolare ha espressamente evidenziato che ciò non collide con le ragioni che legittimano la presunzione posta dalla ristretta base sociale, che sono date dalla massima di comune esperienza che, dalla ristrettezza della base sociale, inferisce un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra i soci medesimi; infatti una volta dimostrata, a dispetto
della ristretta base sociale, l’assoluta estraneità del socio alla gestione e alla vita stessa della società, la suddetta massima di esperienza perde il suo rilievo probatorio. Ovviamente, la prova dell’estraneità assoluta del socio alla gestione e alla vita della società deve essere precisa e rigorosa.
3.1.3. Infine, occorre ribadire l’altrettanto consolidato orientamento secondo il quale l’accertata dichiarazione o esposizione in bilancio di costi fittizi, da parte di una società di capitali a ristretta base partecipativa, è di per sé sufficiente a far presumere l’esistenza di un maggior reddito imponibile in misura pari ai costi fittiziamente dichiarati, senza alcuna necessità per l’amministrazione finanziaria di dimostrare che dal maggior reddito siano derivati maggiori utili distribuibili ai soci, e ferma restando la possibilità, per il contribuente, di fornire la prova contraria (Cass. 4/04/2022, n. 10669; Cass. 19/12/2019, n. 33976).
3.1.4. Alla luce di tali consolidati principi, quindi, la decisione della CTR è corretta e le censure appaiono tutte infondate.
I l riferimento all’art. 5 t.u.i.r. contenuto in un passaggio della sentenza è del tutto irrilevante, essendo invece la decisione tutta fondata sull’applicazione dei predetti principi; ben poteva inoltre l’accertamento fondarsi sull’elemento presuntivo della ristretta base , non dovendo l’ufficio fornire anche la prova di movimenti sul conto corrente del contribuente ; le censure in merito all’estraneità del ricorrente alla gestione della società (di cui era pacificamente socio al 99 per cento) sono del tutto generiche, non essendo rilevante la sola circostanza dedotta (ed esaminata dalla CTR) del non esserne amministratore, peraltro a fronte di un possesso quasi totalitario delle quote ; né tanto meno rileva l’uscita dalla società successiva all’annualità oggetto di accertamento .
3.2. Le doglianze esposte nella seconda parte del motivo attengono invece all’accertamento emesso nei confronti della società.
Sono in primo luogo inammissibili i riferimenti a disposizioni regolanti la motivazione dell’avviso di accertamento, che non trovano alcuna esplicita spiegazione nel corpo del motivo e della cui deduzione non vi è traccia nella sentenza impugnata.
Quanto alla ripresa relativa alla plusvalenza da cessione di immobili, avendo co sì l’amm inistrazione riqualificato il conferimento d’azienda, la CTR ha evidenziato che la parte non aveva portato alcun supporto probatorio (ad esempio il contratto di vendita e la consistenza della presunta organizzazione aziendale); il ricorrente nel motivo espone il contenuto dell’atto notarile per notaio COGNOME del 27 luglio 2006, senza però in alcun modo evidenziare se esso sia stato prodotto nel giudizio di merito e in quale sede, il che determina l ‘ inammissibilità della censura, avente peraltro carattere evidentemente meritale.
Giova infatti precisare che l’interpretazione del contratto può essere sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale (Cass. 10/05/2018, n. 11254), laddove nel caso di specie il ricorrente si limita a ribadire che il negozio configurasse un conferimento dell’azienda neanche c onfrontandosi con le ragioni poste dalla CTR a fondamento della decisione (la mancanza di prova del contratto stesso e della presenza di un complesso di beni ulteriore rispetto all’immobile).
Per analoghe ragioni il motivo deve considerarsi inammissibile anche per l’ulteriore doglianza.
La questione della mancata prova delle operazioni contabilizzate risulta esaminata dalla CTR che ha evidenziato che il contribuente si
sarebbe difeso deducendo la responsabilità esclusiva del liquidatore ed affermando di non essere in possesso della documentazione contabile; individuate in tali termini le difese, ha poi ritenuto irrilevante nei confronti del fisco sia la mala gestio del liquidatore sia la circostanza della cessione delle quote sociali, avvenuta successivamente al periodo di imposta.
Il motivo appare inammissibile laddove formula una generica critica di tale ratio decidendi , riaffermando l’estraneità del ruolo del socio che non svolgeva incarichi di amministrazione nella società.
Il quarto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., è rubricato illegittimità ed incongruità delle sanzioni irrogate-decadenza della pretesa sanzionatoria- violazione degli artt. 2, 3, 19 e 20 d.lgs. n. 472/1997 -violazione dei principi di proporzionalità e di adeguatezza-violazione del principio del ne bis in idem , nonché in relazione al disposto dell’art . 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., carenza assoluta di motivazione, insufficienza e contraddittorietà della determinazione delle sanzioni .
Il ricorrente esprime due censure; con la prima, evidenzia l’ error in iudicando della CTR laddove ha ritenuto che alle sanzioni si applicasse il medesimo termine di decadenza dell’accertamento e quindi anche il relativo raddoppio per le ipotesi di obbligo di denuncia; con la seconda (formulata in riferimento all’art. 360, primo comma , n. 5, cod. proc. civ.) deduce la insufficiente, contraddittoria e carente motivazione della sentenza laddove ha ridotto le sanzioni dal 200 per cento al 120 per cento anziché in misura minima.
4.1. La prima censura è infondata.
Il ricorrente a fondamento della stessa riporta, invero parzialmente, il testo dell’art. 20 d.lgs. n. 472 del 1997, senza considerare in primo luogo che nel caso di specie l ‘i rrogazione della sanzione è stata contestuale all’accertamento e in secondo luogo che
comunque lo stesso art. 20 prevede che «l’atto di contestazione di cui all’art. 16, ovvero l’atto di irrogazione, devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione, o nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi»; da ciò si evince, in modo non equivoco, che i termini per l’accertamento e quelli per la irrogazione delle sanzioni corrono parallelamente (Cass. 3/08/2023, n. 23662).
Il motivo è altresì inammissibile laddove pare dedurre una violazione del ne bis in idem rispetto ad un procedimento penale di cui non fornisce alcuna deduzione.
4.2. La seconda censura è inammissibile, in quanto, come visto, la previsione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione vigente, non consente la deduzione del vizio motivazionale in termini di insufficienza della motivazione ma unicamente in ragione dell’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia che sia stato oggetto di discussione tra le parti.
Concludendo, il ricorso va rigettato.
Alla soccombenza segue condanna del ricorrente al pagamento delle spese in favore dell’Agenzia delle entrate, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore di Agenzia delle entrate, spese che liquida in euro 13.200,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 , della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma in data 13 novembre 2024.