Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 33390 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 33390 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 20581/2020 proposto da:
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO come da procura in calce al controricorso.
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della TOSCANA n. 136/2020, depositata in data 27 gennaio 2020, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23 ottobre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dell’Ufficio avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto i ricorsi, riuniti, della società RAGIONE_SOCIALE ( aventi ad oggetto l’avviso di accertamento, relativo all’anno di imposta 2012, con il quale l’Ufficio, verificata la natura di società non operativa, accertava maggiori imposte IRES ed IRAP, oltre interessi e sanzioni, e l’atto di recupero con il quale l’Ufficio, ritenuta l’inammissibilità del credito IVA per le società non operative, recuperava il credito d’imposta portato in detrazione nell’anno 2013 oltre interessi e sanzioni ), qualificando l’avviso di accertamento oggetto di impugnazione, con il quale l’Ufficio aveva effettuato una modificazione in aumento del precedente avviso annullato in autotutela, come avviso integrativo/modificativo ai sensi dell’art. 43, comma 4, del d. P.R. n. 600 del 1973,
I giudici di secondo grado, per quel che rileva in questa sede, hanno affermato che:
-) il superamento o meno del test di operatività previsto dall’art. 30 della legge n. 724 del 1994, sul quale si basava la fondatezza di entrambi gli avvisi di accertamento oggetto della presente controversia, dipendeva dalla qualificazione giuridico economica dei terreni posti in comune di Massarosa, località INDIRIZZO», di proprietà della società ricorrente, che la stessa qualificava nel conto economico come «rimanenze», mentre l’Ufficio come «immobilizzazioni materiali» in quanto inedificabili;
-) nell’anno di riferimento i terreni in questione, inseriti nel comparto urbanistico UTOE 2 «Bocchette – Zone di trasformazione per insediamenti produttivi», non avevano perduto la propria capacità edificativa, ancorché la variante al Piano Strutturale approvata con deliberazione consiliare n. 59 del 16 giugno 2010 avesse subordinato tale capacità, o potenzialità, ad un più stringente regime vincolistico, costituito dalle misure di salvaguardia operanti fino all’approvazione del Regolamento Urbanistico e comunque per una durata non superiore a tre anni;
-) era, dunque, sussistente all’epoca, per quanto fortemente compressa e vincolata, la capacità edificatoria di tali terreni e gli stessi erano stati correttamente iscritti nel conto economico della società quali rimanenze, derivandone conseguentemente un risultato positivo al test di operatività e risultando pertanto infondati entrambi gli avvisi di accertamento opposti.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
La società RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Il primo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994, nonché degli artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ., degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.. I giudici di secondo grado, con la sentenza impugnata, non avevano fatto corretta applicazione dei principi di diritti dettati in tema di società di comodo, non potendo la società qualificare i terreni in esame quali rimanenze, ma doveva iscriverli tra le immobilizzazioni materiali. Come più volte evidenziato, per i medesimi terreni la società contribuente aveva richiesto al Comune di Massarosa il permesso a costruire « edifici produttivi commerciali e artigianali» e, con comunicazione prot. 7082
del 18 marzo 2011, il Comune di Massarosa aveva comunicato che «è stata verificata, l’esistenza di elementi che non consentono di procedere al rilascio dell’atto finale favorevole alla società interessata». Peraltro, tali terreni per effetto dell’adozione della variante generale del Regolamento Urbanistico pubblicata sul BURT n. 33 del 20 agosto 2014, erano stati inseriti in zona agricola ovvero area di salvaguardia e riserva per la declinazione delle strategie di P.S., quindi non potevano essere edificati. Poiché, dunque, la società contribuente aveva per oggetto sociale «la costruzione e la ristrutturazione in proprio e per conto di terzi, di immobili di qualsiasi tipo ed in generale l’esercizio dell’attività edilizia» e, all’epoca dei fatti, aveva come unico asset i terreni sopra indicati, non poteva classificare tali terreni quali rimanenze ma doveva iscriverli in bilancio tra le immobilizzazioni materiali (B.II.1 “terreni e fabbricati”). Il Giudice di secondo grado non aveva debitamente considerato il mancato assolvimento dell’onere probatorio facente capo alla società contribuente, che si era limitata ad affermare la criticità urbanistica dell’immobile. La Commissione tributaria regionale, che non aveva considerato tutte le risultanze indiziarie evidenziate dall’Agenzia e che aveva considerato gli elementi dedotti dall’Ufficio in modo atomistico, aveva fondato la propria decisione sull’erroneo convincimento che la riferita problematica urbanistica dell’immobile aveva determinato una oggettiva indisponibilità dell’immobile in parola, ma senza considerare, come detto, se gli immobili in questione fossero da ritenersi inedificabili.
2. Il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli articoli 36 e 61 del decreto legislativo n. 546 del 1992, e dell’articolo 132 cod. proc. civ.. La sentenza impugnata aveva motivato sostanzialmente solo sulla seguente apodittica affermazione «Si ritiene che nell’anno di
riferimento i terreni in questione. non avessero perduto la propria capacità edificativa». La motivazione in esame era del tutto carente se non addirittura apparente laddove non esplicitava, sulla base di quale norma giuridica ovvero di quale documentazione agli atti era stato rigettato l’appello .
Il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e specificamente la presenza della comunicazione n. 7082 del 18 marzo 2011, con cui il Comune di Massarosa aveva evidenziato l’impossibilità di concedere alla società richiedente il permesso di costruire la presenza della variante generale del Regolamento Urbanistico (pubblicata sul BURT n. 33 del 20 agosto 2014) con cui veniva confermata la non edificabilità delle aeree in questione; la presenza del seguente passaggio contenuto nella sentenza del TAR del 27 giugno 2011, citata dalla stessa controparte con cui veniva sostanzialmente confermata la non edificabilità delle aree in questione: «l’annullamento del solo regolamento Urbanistico nei limiti sopradescritti, non implica che in assenza della disposizione regolamentare annullata l’intervento edilizio de quo sarebbe realizzabile. Anche in assenza delle previsioni del Regolamento annullate con la presente sentenza, dunque, le norme del Piano avrebbero impedito legittimamente l’espandersi delle facoltà edificatoria dei ricorrenti».
Il secondo motivo, la cui trattazione è prioritaria, è infondato.
4.1 I giudici di secondo grado, infatti, hanno affermato, sia pure in forma concisa, che: 1) il superamento o meno del test di operatività previsto dall’art. 30 della legge n. 724 del 1994, sul quale si basava la fondatezza di entrambi gli avvisi di accertamento dipendeva dalla qualificazione giuridico economica dei terreni posti in comune di Massarosa, località «INDIRIZZO», di proprietà della società ricorrente,
che la stessa qualificava nel conto economico come «rimanenze», mentre l’Ufficio come «immobilizzazioni materiali» in quanto inedificabili; 2) nell’anno di riferimento i terreni in questione, inseriti nel comparto urbanistico UTOE 2 « Bocchette – Zone di trasformazione per insediamenti produttivi », non avevano perduto la propria capacità edificativa, ancorché la variante al Piano Strutturale approvata con deliberazione consiliare n. 59 del 16 giugno 2010 avesse subordinato tale capacità, o potenzialità, ad un più stringente regime vincolistico, costituito dalle misure di salvaguardia operanti fino all’approvazione del Regolamento Urbanistico e comunque per una durata non superiore a tre anni; 3) era, dunque, sussistente all’epoca, per quanto fortemente compressa e vincolata, la capacità edificatoria di tali terreni e gli stessi erano stati correttamente iscritti nel conto economico della società quali rimanenze, derivandone conseguentemente un risultato positivo al test di operatività e risultando pertanto infondati entrambi gli avvisi di accertamento opposti. I giudici di secondo grado, dunque, contrariamente a quanto dedotto dall”Agenzia delle Entrate, non si sono limitati ad affermare che nell’anno di riferimento i terreni non avevano perduto la propria capacità edificativa, ma hanno supportato tale assunto evidenziando che la variante al Piano Strutturale approvata con deliberazione consiliare n. 59 del 16 giugno 2010 aveva subordinato tale capacità, o potenzialità, ad un più stringente regime vincolistico, costituito dalle misure di salvaguardia operanti fino all’approvazione del Regolamento Urbanistico e, comunque, per una durata non superiore a tre anni (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata).
4.2 Risulta, pertanto, evidente che la decisione impugnata assolve in misura adeguata al requisito di contenuto richiesto dalle disposizioni di legge di cui il ricorso lamenta la violazione, attesa l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, sufficiente ad evidenziare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione
4.3 Va osservato, con la giurisprudenza di questa Corte, che, dovendo l’obbligo motivazionale ritenersi compiutamente adempiuto allorché per mezzo della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione venga ad essere illustrato il percorso motivazionale che ha indotto il giudice a regolare la fattispecie al suo esame mediante la norma di diritto applicata, viene al contrario meno all’obbligo in parola – e si mostra perciò viziata dal difetto di motivazione apparente o di mancanza della motivazione – la decisione nella quale «il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento» (Cass., 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., 5 agosto 2019, n. 20921; Cass., 7 aprile 2017, n. 9105).
4.4 Più specificamente in base alla costante giurisprudenza di legittimità, la «motivazione apparente» ricorre allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente – come parte del documento in cui consiste la sentenza (o altro provvedimento giudiziale) – non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’ iter logico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice (Cass., Sez. U. 22 settembre 2014, n. 19881).
4.5 Così delineati i principi statuiti da questa Corte, la censura svolta dal motivo non appare fondata, dal momento che dalla lettura della sentenza impugnata risultano chiaramente esposte, anche se in forma concisa, le ragioni della decisione.
Il primo motivo è inammissibile, in quanto si tratta di doglianza diretta, con evidenza, a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione
delle risultanze probatorie di causa, che non costituiscono vizio di violazione di legge (Cass., 19 agosto 2020, n. 17313).
5.1 Ed invero, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., 26 ottobre 2021, n. 30042).
5.2 Peraltro, deve osservarsi che a seguito dell’ordinanza interlocutoria di questa Corte n. 16091 del 19 maggio 2022 (che qui interamente si richiama), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza 7 marzo 2024, n. 341, ha stabilito in sede pregiudiziale che: 1) L’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone; 2) L’articolo 167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che
essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle.
5.3 La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha specificato che
:
-) «soggetto passivo» è chiunque eserciti, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività e la nozione di «attività economica» comprende ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate e deve considerarsi tale «lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità»;
-) la nozione di «attività economica» ha un carattere oggettivo nel senso che l’attività viene considerata di per sé stessa, indipendentemente dai suoi scopi o dai suoi risultati;
-) la qualità di soggetto passivo IVA non è subordinata alla condizione che una persona effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico superi una soglia di reddito previamente fissata, la quale corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone, in quanto ciò che rileva è esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica e che sfrutti un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità;
-) nessuna disposizione della direttiva IVA subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia e che, di contro, il diritto alla detrazione dell’IVA è garantito, purché ricorrano le condizioni richieste;
-) se è vero che il diritto alla detrazione dell’IVA può essere negato al soggetto passivo qualora sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che esso è invocato fraudolentemente o abusivamente, dato che la lotta contro frodi, evasione fiscale ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva IVA, tuttavia, il diniego del diritto a detrazione è un’eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce, per cui incombe alle autorità tributarie dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo ha commesso un’evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una tale evasione;
-) inoltre, l’accertamento di un comportamento abusivo in materia di IVA richiede, da un lato, che le operazioni di cui trattasi, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della direttiva IVA e della normativa nazionale di recepimento, debbano avere come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da tali disposizioni e dall’altro, deve risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo essenziale di tali operazioni si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale;
-) dunque, le misure che gli Stati membri possono adottare, ai sensi dell’articolo 273 della direttiva IVA, per assicurare l’esatta riscossione dell’IVA ed evitare le evasioni non devono eccedere quanto necessario per conseguire tali obiettivi. Esse non possono, quindi, essere utilizzate in maniera tale da mettere sistematicamente in discussione il diritto alla detrazione dell’IVA e, pertanto, la neutralità dell’IVA.
5.4 I giudici unionali, in particolare, hanno demandato al giudice del rinvio di stabilire:
-) se, nel corso dei periodi d’imposta controversi, in relazione ai quali l’autorità tributaria ritiene che la società non abbia carattere operativo,
tale società abbia esercitato un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività, intesa come attività comprendente ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate, ivi comprese lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità;
-) se spetta il diritto di detrazione dell’Iva, sulla premessa che nessuna disposizione della direttiva IVA subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia e che il soggetto passivo è autorizzato a detrarre l’IVA dovuta o assolta per i beni o servizi acquistati quando questi, agendo in quanto tale nel momento dell’acquisto di detti beni o servizi, li impieghi ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, indipendentemente dai risultati delle attività economiche del soggetto passivo interessato;
-) sussistono elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo ha commesso un’evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una tale evasione e se l’op erazione realizzata, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della direttiva IVA e della normativa nazionale di recepimento, abbia come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da tali disposizioni.
5.5 Così individuate le ragioni poste a fondamento della sentenza, deve, dunque, concludersi che la norma dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 si pone effettivamente in conflitto con l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva IVA, e con l’articolo 167 della direttiva Iva, con la conseguente necessità della sua disapplicazione da parte del giudice
nazionale. Ed invero, per quanto diffusamente esposto, la normativa italiana (diretta a disincentivare la costituzione di società di comodo e, quindi, a impedire che persone giuridiche che svolgono formalmente un’attività economica, senza tuttavia essere, in realtà, operative, beneficino di vantaggi fiscali), che va disapplicata, prevede un meccanismo deterrente che si fonda sulla presunzione secondo cui il carattere non operativo di una società può essere dedotto dal fatto che gli introiti che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui essa dispone sono inferiori rispetto alla soglia di reddito determinata da detta disposizione (presunzione che la società può superare dimostrando che, a causa di situazioni oggettive, in un determinato periodo non è stato possibile raggiungere tale soglia di reddito); in forza di questo meccanismo, le società non operative non possono ottenere il rimborso del credito IVA che figura nella loro dichiarazione e che risulta segnatamente da un importo di IVA detraibile superiore a quello dell’IVA riscossa, né tale credito può costituire oggetto di compensazione o di cessione; inoltre, pur potendo detto credito essere riportato a scomputo dell’IVA a debito relativa ai periodi d’imposta successivi, qualora per tre periodi d’imposta consecutivi una società non operativa non effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA non inferiore all’importo che risulta da detta soglia di reddito, il credito in discussione non può più essere riportato, con il conseguente corollario che la società perderebbe il diritto alla detrazione dell’Iva. Ed invero, la qualità di soggetto passivo deriva dall’esercizio, da parte del soggetto che si avvale di tale qualità, di un’attività economica e, di conseguenza, il diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte non può essere negato a una società che effettua operazioni rilevanti ai fini dell’IVA senza tuttavia raggiungere la soglia di reddito prevista dalla normativa italiana di cui all’art. 30 della legge n. 724 del 1994 e ciò a prescindere dalla prova fornita dalla società contribuente sull’esistenza di situazioni oggettive che rendano
impossibile il conseguimento di redditi superiori a detta soglia. Ancora, le misure adottate dagli Stati membri per la lotta contro frodi, evasione fiscale ed eventuali abusi, obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva IVA, non devono tuttavia eccedere quanto necessario per raggiungere tale obiettivo e, in particolare, non possono essere utilizzate in modo tale da mettere sistematicamente in discussione il principio di neutralità dell’IVA. dell’IVA (cfr. Cass., 6 agosto 2024, n. 22249, Cass., 11 settembre 2024, n. 24416).
5.6 Di recente, questa Corte ha statuito, sul punto, il seguente principio di diritto: « In materia di società non operative, alla stregua della pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE, sent. 7 marzo 2024 in causa C-341/22, RAGIONE_SOCIALE), l’art. 9, par. 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, va interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini di tale imposta il cui valore economico non raggiunga la soglia fissata da una normativa nazionale, che corrisponda ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale soggetto dispone, in quanto nessuna disposizione della direttiva subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia. Pertanto, ciò che rileva ai sensi dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 è esclusivamente il fatto che detto soggetto, in un determinato periodo d’imposta, abbia esercitato effettivamente un’attività economica, ponendosi detta disposizione in contrasto con l’art. 167 della direttiva IVA nella parte in cui, invece, prevede la perdita del diritto a detrazione al mancato raggiungimento di determinate soglie di ricavi » (Cass., 11 settembre 2024, n. 24442).
5.7 Ciò posto, nella vicenda in esame, l’Amministrazione finanziaria ha applicato il quarto comma dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994, ritenendo che la riqualificazione dei terreni da rimanenze in immobilizzazioni materiale comportasse il superamento del test di operatività di cui all’art. 30 della legge n. 724 del 1994. La Commissione tributaria regionale ha affermato, contrariamente a quanto argomentato dall’Ufficio, con un accertamento in fatto non sindacabile in questa sede (e sotto questo specifico profilo le censure dell’Agenzia delle Entrate si palesano, come già detto , inammissibili), che i terreni oggetto di accertamento non erano da classificarsi tra le immobilizzazioni materiali, in quanto non avevano perso la loro vocazione edificatoria, seppure erano stati sottoposti ad un regime vincolistico più stringente, costituito dalle misure di salvaguardia operanti per un periodo non superiore ai tre anni. I giudici di secondo grado, dunque, hanno evidenziato che tutto ciò portava ad escludere la possibilità di ricorrere alla riqualificazione dei beni in questione e, quindi, alla riclassificazione delle poste, che erano, pertanto, da considerarsi beni merce e non già immobilizzazioni materiali e che, di conseguenza, non poteva farsi ricorso alla normativa di cui all’art. 30 della legge n. 724 del 1994 e successive modificazioni (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata). La Commissione tributaria regionale ha, in conclusione, accertato che il presupposto posto dall’Ufficio a fondamento dell’applicabilità dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994, ovvero la riclassificazione delle poste da beni merci in immobilizzazioni materiali non sussisteva, e che, comunque, l ‘attività effettivamente svolta dalla società contribuente fosse un’attività economica e che la società fosse un soggetto passivo Iva.
5.8 Non vi è stato, dunque, nessuna violazione dell’art. 2697 cod. civ., che si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l ‘onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le
regole di ripartizione basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass., 23 ottobre 2018, n. 26769), né la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., che non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, come sostanzialmente dedotto nella specie, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass., 17 gennaio 2019, n. 1229).
Anche il terzo motivo è inammissibile.
6.1 Ed invero, il vizio contemplato dall’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ. (nella formulazione disposta dall’art. 54 del decreto legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis ), concerne esclusivamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti e postula l’esatto adempimento degli specifici oneri di allegazione sanciti da Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053, qui, invece, rimasti assolutamente inosservati.
6.2 Più in particolare, il mancato esame, dunque, deve riguardare un vero e proprio ≪ fatto ≫ , in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 cod. civ., cioè un ≪ fatto ≫ costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (Cass., 8 settembre 2016, n. 17761; Cass. 13 dicembre 2017, n. 29883), e non, invece, le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass., SU, 20 giugno 2018, n. 16303; Cass. 14 giugno 2017, n. 14802), oppure gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in
considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).
6.3 Dunque anche questa censura, che riguarda sostanzialmente il complessivo governo del materiale istruttorio, ha totalmente obliterato che la valutazione delle risultanze istruttorie rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile nel giudizio di legittimità.
Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e l’Agenzia ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla società controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
7.1 Non vi è luogo a pronuncia sul raddoppio del contributo unificato, perché il provvedimento con cui il giudice dell’impugnazione, nel respingere integralmente la stessa (ovvero nel dichiararla inammissibile o improcedibile), disponga, a carico della parte che l’abbia proposta, l’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto ai sensi del comma 1 bis del medesimo art. 13, non può aver luogo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Cass., Sez. U., 25 novembre 2013, n. 26280; Cass., 14 marzo 2014, n. 5955).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia ricorrente al pagamento, in favore della società controricorrente delle spese del
giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, in data 23 ottobre 2024.