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Società non operative: come contestare la presunzione

Una società di capitali, qualificata come “società non operative” a causa di perdite consecutive, ha dichiarato il reddito minimo presunto senza versare l’imposta, al fine di poter impugnare la successiva cartella di pagamento. La Corte di Cassazione, ribaltando le decisioni dei giudici di merito, ha stabilito che tale comportamento è una strategia processuale legittima. Il contribuente ha sempre il diritto di dimostrare in giudizio la sussistenza di situazioni oggettive che giustificano la disapplicazione della disciplina, anche se ha presentato una dichiarazione conforme alla presunzione legale. La Corte ha sottolineato che il diniego dell’interpello non è un atto impugnabile e che il giudice tributario deve valutare il rapporto sostanziale e non solo l’atto formale.

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Pubblicato il 28 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Società non operative: la Cassazione apre alla contestazione post-dichiarazione

La disciplina delle società non operative, o società di comodo, rappresenta da sempre un terreno di scontro tra Fisco e contribuenti. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito un chiarimento fondamentale, stabilendo che un’impresa può legittimamente contestare tale status anche dopo aver indicato in dichiarazione il reddito minimo presunto. Vediamo nel dettaglio come si è giunti a questa importante conclusione.

I Fatti del Caso

Una società di capitali si trovava in una situazione di perdita fiscale per tre esercizi consecutivi. Per evitare l’applicazione del regime penalizzante previsto per le società non operative, ha presentato un interpello all’Amministrazione Finanziaria, cercando di dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive che le avevano impedito di conseguire ricavi.

L’Agenzia delle Entrate ha respinto l’istanza. A questo punto, per poter contestare la presunzione di non operatività in sede giudiziaria, la società ha adottato una precisa strategia: ha compilato la dichiarazione dei redditi indicando l’imponibile minimo previsto dall’art. 30 della L. 724/1994, ma ha omesso il relativo versamento. L’obiettivo era provocare l’emissione di un atto impositivo (una cartella di pagamento) da poter impugnare. I giudici di primo e secondo grado, tuttavia, hanno ritenuto che, indicando quell’imponibile, la società avesse di fatto legittimato la pretesa del Fisco, rendendo superfluo l’esame delle sue ragioni nel merito.

La disciplina delle società non operative e la decisione della Corte

La questione centrale riguardava se la compilazione della dichiarazione secondo i criteri delle società non operative costituisse un’ammissione di debito tale da precludere ogni successiva contestazione. I giudici di merito avevano risposto affermativamente, sposando una visione formalistica secondo cui la dichiarazione vincolava il contribuente.

La Corte di Cassazione ha completamente ribaltato questa prospettiva. Ha accolto il ricorso della società, affermando un principio di diritto fondamentale: la possibilità per il contribuente di provare in giudizio le cause oggettive di disapplicazione della normativa antielusiva non può essere preclusa da una scelta procedurale finalizzata proprio a instaurare quel giudizio.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte ha basato la sua decisione su diverse argomentazioni logico-giuridiche:

1. La Funzione del Giudizio Tributario: Il giudice tributario non deve limitarsi a un controllo formale dell’atto impugnato, ma deve esaminare il rapporto tributario sottostante nella sua interezza. La dichiarazione, quindi, non crea un “automatismo accertativo” che impedisce al contribuente di difendersi nel merito.
2. L’Inoppugnabilità del Diniego di Interpello: Il diniego dell’interpello non è un atto autonomamente impugnabile. Di conseguenza, l’unico modo per il contribuente di ottenere una revisione giurisdizionale è attendere l’emissione di un atto impositivo e contestare quello. La condotta della società era, pertanto, l’unica via percorribile per accedere alla tutela giurisdizionale.
3. Anomalia di Sistema: La Corte ha anche riconosciuto che, all’epoca dei fatti, i sistemi informatici per la compilazione della dichiarazione generavano un “errore bloccante” se non si compilava il quadro relativo al reddito delle società di comodo. Questo rendeva la condotta della società non solo strategica, ma in un certo senso “necessitata” dal sistema stesso.
4. Diritto alla Prova: Negare la possibilità di dimostrare in giudizio le proprie ragioni violerebbe il principio di capacità contributiva e il diritto di difesa del contribuente. L’onere della prova delle cause di esclusione resta a carico della società, ma essa deve avere la possibilità di fornirla in sede contenziosa.

Le Conclusioni e le Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza è di grande importanza per tutte le imprese che rischiano di essere classificate come società non operative. La Cassazione ha sancito che la sostanza prevale sulla forma: una dichiarazione compilata per necessità procedurali non può trasformarsi in una trappola che impedisce la difesa nel merito.

In conclusione, viene confermato che il contribuente, anche di fronte a un interpello respinto, può utilizzare la dichiarazione come strumento per aprire la via del contenzioso, dove avrà il pieno diritto di dimostrare con prove concrete l’esistenza di quelle “oggettive situazioni” che rendono inapplicabile la presunzione di comodo. Un principio che rafforza le garanzie del contribuente e promuove una giustizia tributaria più equa e sostanziale.

Una società classificata come non operativa può contestare tale status anche dopo aver indicato il reddito minimo presunto nella sua dichiarazione?
Sì. La Corte di Cassazione ha stabilito che indicare il reddito minimo presunto in dichiarazione, omettendo il versamento, è una strategia processuale legittima per provocare l’emissione di un atto impugnabile e poter così dimostrare in giudizio l’esistenza di cause oggettive che giustificano la disapplicazione della disciplina sulle società non operative.

Il diniego a un’istanza di interpello disapplicativo può essere impugnato direttamente in tribunale?
No. L’ordinanza conferma che il diniego dell’interpello non costituisce un atto autonomamente impugnabile. Esso funge unicamente da presupposto per l’avvio del procedimento di verifica, ma la tutela giurisdizionale per il contribuente si apre solo con l’impugnazione del successivo atto impositivo (es. avviso di accertamento o cartella di pagamento).

La compilazione della dichiarazione fiscale vincola il contribuente a quanto dichiarato, impedendogli di difendersi in seguito?
No. Secondo la Corte, il giudice tributario non si limita a scrutinare l’atto impositivo, ma deve esaminare il rapporto d’imposta sottostante. Pertanto, la dichiarazione non crea un automatismo che impedisce al contribuente di contestare nel merito la pretesa fiscale e di dimostrare l’insussistenza della condotta elusiva.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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