Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 33424 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 33424 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2935 -20 18 R.G. proposto da:
COGNOME NOME , quale socio ed ex liquidatore della RAGIONE_SOCIALE , rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce al ricorso , dall’avv. NOME COGNOME (pec: EMAIL;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici in Roma, INDIRIZZO, è domiciliata;
– resistente – avverso la sentenza n. 3591/06/2017 della Commissione tributaria regionale del LAZIO, depositata in data 20/06/2017;
Oggetto:
Tributi –
rimborso IVA –
società in
perdita fiscale
–
principio di diritto
udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 23 ottobre 2024 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
Rilevato che:
In controversia relativa ad impugnazione di un diniego di rimborso del credito IVA che la RAGIONE_SOCIALE aveva avanzato in data 02/08/2013 con riferimento all’anno d’imposta 2012 sul presupposto de ll’intervenuta cessazione dell’attività in data 26/11/2012 e cancellazione dal registro delle imprese il successivo 27/12/2012, che l’Agenzia delle entrate aveva rigettato adducendo che la predetta società contribuente, essendo risultata in perdita nel triennio 2009/2011, doveva considerarsi non operativa per l’anno d’imposta 2012, sicché, ai sensi dell’art. 30, comma 4, della legge n. 724 del 1994, non aveva diritto al rimborso, con la sentenza in epigrafe indicata la CTR rigettava l’appello proposto dal socio nonché ex liquidatore della società contribuente facendo propria la tesi dell’amministrazione finanziaria.
Avverso tale statuizione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a due motiv i. L’intimata si costituisce al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione della causa.
Considerato che:
Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la «Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 30, commi 1 e 4, della Legge 23/ 12/1994 n. 724 e dell’art. 2, commi 36 decies e duodecies D.L. 138/2011, come modificato in conversione dalla L. 148/2011 in relazione all’art. 30 D.P.R. 26710/1972 n. 633; agli artt. 12 e 15 delle Preleggi; alla direttiva 2006/112/CE; agli art.li 1 e 3, c. 1, L. 27/7/2000 n. 212; all’art. 23 Costituzi one».
1.1. Sostiene che la Corte di merito aveva fornito una interpretazione dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 in contrasto
con tutti i criteri di ermeneutica legislativa, ovvero il criterio teleologico o di interpretazione delle norme secondo il loro significato letterale, di cui all’art. 12 delle Preleggi, e quello di interpretazione sistematica.
1.2. Ove avesse operato correttamente, la CTR avrebbe dovuto considerare e ritenere:
che, ai sensi dell’art. 30 , comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, il rimborso dell’eccedenza detraibile è sempre dovuto in caso di cessazione dell’attività, e ciò «in ossequio alla natura dell’IVA, imposta comunitaria che poggia i presupposti della sua neutralità rispetto agli operatori commerciali, oltreché sul D.P.R. 633/1972, sull’art. 203 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28/11/2006»;
che ai soggetti che si trovano in condizione di piena operatività, invece, il rimborso dell’eccedenza è consentito soltanto nei casi espressamente disciplinati nei commi 3 e 4 dell’art. 30 citato;
c) che l’art. 30, comma 4, della legge n. 724 del 1994 è diretto a disciplinare «in via derogativa e temporanea, il ‘rimborso’ in caso di continuità aziendale» (ricorso, pag. 7) e non le ipotesi di cessazione dell’attività; invero, detta disposizione, nell a sua prima parte prevede che l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione IVA non è rimborsabile alle società non operative, né da queste e compensabile, quindi senza fare alcun riferimento ai casi di cessazione dell’attività; nella seconda parte prevede che l’eccedenza di credito delle società o gli enti non operativi che non effettuino, per tre periodi di imposta, operazioni rilevanti ai fini IVA (ovvero, «non inferiore all’importo che risulta dalla applicazione delle percentuali di cui al comma 1»), «non è ulteriormente riportabile a scomputo dell’IVA a debito relativa ai periodi di
imposta successivi», che è disposizione che presuppone la continuità dell’attività aziendale seppur in perdita.
Con il secondo motivo di ricorso la società ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la « Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2, commi 36 decies e duodecies, D.L. n. 138/2011, convertito in L. n. 148/2011 in relazione al c. 4 art. 30 L. 724/1994, all’art. 11 delle preleggi e agli artt. 1 e 3 L. 212/2000», nonché la «Violazione dell’art. 113 c.p.c.».
2.1. Sostiene che la CTR aveva abdicato al proprio dovere di jus dicere qualificando la società contribuente come non operativa sulla base della ‘autoqualificazione’ operata dalla stessa che aveva erroneamente barrato la relativa casella sul modello di dichiarazione, omettendo di procedere ad un autonomo accertamento al riguardo.
2.2. Sostiene, inoltre, che i giudici di appello avevano erroneamente ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 2, comma 36 decies , del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, che ha equiparato alle società non operative quelle in perdita fiscale per tre periodi di imposta (nella versione vigente ratione temporis ), a decorrere dal successivo quarto periodo d’imposta, estendendo ad esse la disciplina di cui all’art. 30 della legge n. 724 del 1994, benché il comma 36 duodecies del citato decreto legge avesse previsto l’applicabilità del comma 36 decies «a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto», ovvero dal 16 settembre 2011 e quindi con decorrenza dal periodo di imposta 2012, sicché la circostanza che la società contribuente fosse in perdita fiscale negli anni precedenti (2009, 2010 e 2011) era del tutto irrilevante.
Le questioni che vengono in rilievo nel presente giudizio impongono alcune preliminari considerazioni.
4. La disciplina delle società non operative o ‘di comodo’, va rinvenuta nell’art. 30 della legge n. 724 del 1994, che «al comma 1, prevede una presunzione legale relativa, in base alla quale una società si considera “non operativa” se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli “asset” patrimoniali intestati alla società (cd. “test di operatività dei ricavi”), senza che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci» (Cass., Sez. 5, ordinanza n. 9852 del 20/04/2018, Rv. 647962 – 01).
4.1. Oltre a quelle che non superano il cd. test di operatività, dal periodo d’imposta 2012 e fino al periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2022, erano considerate non operative anche le società in perdita fiscale per determinati periodi di imposta consecutivi, come prevedeva il comma 36 decies dell’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011, introdotto in sede di conversione dalla legge n. 148 del 2011, e sue successive modificazioni, nonché, ai sensi del comma 36 undecies , le società e gli enti in perdita fiscale per determinati periodi d’imposta consecutivi ed in uno abbiano dichiarato un reddito inferiore all’ammontare determinato ai sensi dell’articolo 30, comma 3, della citata legge n. 724 del 1994. Disposizioni, queste, abrogate con la decorrenza sopra indicata, dall’art. 9 del d.l. n. 73 del 21/06/2022, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 04/08/2022.
4.2. Alle società non operative di cui all’ art. 30, commi 1 e 2, della legge n. 724 del 1994 e alle società a quelle equiparate, come sopra individuate, non è consentito ottenere il rimborso dell’eventuale eccedenza del credito IVA o la sua compensazione e tantomeno la sua cessione.
4.3. Il comma 4 del citato art. 30, infatti, nella prima parte prevede che «Per le società e gli enti non operativi, l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non è ammessa al rimborso né può costituire oggetto di compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, o di cessione ai sensi dell’articolo 5, comma 4-ter, del decreto-legge 14 marzo 1988, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 154«.
4.4. Nella seconda parte tale disposizione prevede anche il divieto, a determinate condizioni, di riporto dell’eccedenza di credito a scomputo nelle dichiarazioni IVA dei periodi di imposta successivi al verificarsi dell’eccedenza.
4.5. Tale disposizione così recita: «Qualora per tre periodi di imposta consecutivi la società o l’ente non operativo non effettui operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non inferiore all’importo che risulta dalla applicazione delle percentuali di cui al comma 1, l’eccedenza di credito non è ulteriormente riportabile a scomputo dell’IVA a debito relativa ai periodi di imposta successivi».
Sulla disciplina delle società non operative e, in particolare sulla compatibilità della stessa con la direttiva 2006/112 e i principi generali della neutralità dell’IVA e di proporzionalità della limitazione del diritto alla detrazione dell’IVA, si è pronunciata la Corte di giustizia dell’unione europea a seguito di rinvio pregiudiziale operato da questa Corte con ordinanza interlocutoria n. 16091 del 2022.
5.1. Con la sentenza 7 marzo 2024 in causa C-341/22, (RAGIONE_SOCIALE), la Corte unionale ha affermato che l’art. 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso
che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone; ancora, che l’art. 167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralit à dell’IVA e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insuff iciente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle .
5.2. Richiamando quanto affermato recentemente da Cass. 11 settembre 2024, n. 24442, «la Corte unionale ritiene, in sostanza, che la qualità di soggetto passivo non sia subordinata alla condizione che una persona effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico superi una soglia di reddito previamente fissata, la quale corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone; ciò che rileva al riguardo è esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica; inoltre, la Corte di Giustizia ha ritenuto il richiamato art. 30 contrario all’art. 167 della direttiva IVA nella parte in cui prevede la perdita del credito IVA “in quanto nessuna disposizione della direttiva IVA subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia”; va ricordato che secondo costante giurisprudenza del Giudice del Lussemburgo, il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA di cui sono debitori l’IVA dovuta o assolta
a monte per i beni acquistati e per i servizi ricevuti costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA. Tale diritto, in presenza di tutte le condizioni previste, costituisce, quindi, parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni a meno che non sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che esso sia stato invocato in un contesto di frode o evasione; – in proposito è da evidenziare che, sebbene gli Stati membri, ai sensi dell’art. 273 della direttiva IVA, possano adottare misure di contrasto per assicurare l’esatta riscossione dell’IVA, tali misure non devono eccedere quanto necessario per conseguire tali obiettivi e non possono essere utilizzate in maniera tale da mettere in discussione il diritto alla detrazione dell’IVA. Nel caso di specie, la Corte dell’Unione ha ritenuto che il criterio della soglia dei ricavi, individuato dall’art. 30 in argomento, non si basi su una valutazione della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate nel corso di un determinato periodo d’imposta, ma solo sulla valutazione del loro volume. Tale criterio, quindi, non appare idoneo a dimostrare che il diritto alla detrazione dell’IVA sia stato invocato in modo fraudolento o abusivo».
5.3. La citata ordinanza di questa Corte ha quindi pronunciato il seguente principio di diritto: «In materia di società non operative, alla stregua della pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE, sent. 7 marzo 2024 in causa C-341/22, RAGIONE_SOCIALE), l’art. 9, par. 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, va interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini di tale imposta il cui valore economico non raggiunga la soglia fissata da una normativa nazionale, che corrisponda ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale soggetto dispone, in
quanto nessuna disposizione della direttiva subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia. Pertanto, ciò che rileva ai sensi dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 è esclusivamente il fatto che detto soggetto, in un determinato periodo d’imposta, abbia esercitato effettivamente un’attività economica, ponendosi detta disposizione in contrasto con l’art. 167 della direttiva IVA nella parte in cui, invece, prevede la perdita del diritto a detrazione al mancato raggiungimento di determinate soglie di ricavi».
5.4. In pratica, come correttamente si è affermato in Cass. 11 settembre 2024, n. 24416, alla luce dei principi espressi dalla Corte di giustizia unionale, « l’art. 30 l. n. 724 del 1994 va disapplicato, non potendosi derivare la privazione del diritto di detrazione in mera dipendenza dell’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un abuso».
I principi affermati dalla Corte unionale vanno senz’altro estesi alle società in perdita fiscale equiparate, a determinate condizioni, a quelle di comodo, ai sensi dei commi 36 decies ed undecies , del d.l. n. 138 del 2011, introdotti in sede di conversione dalla legge n. 148 del 2011.
6.1. Infatti, se «l’articolo 167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle» », analogamente deve consentirsi la detrazione ad un soggetto passivo che sia in perdita fiscale per uno o più periodi di imposta.
6.2. L’evidente antinomia scaturente dal raffronto delle disposizioni nazionali in esame con i parametri sovranazionali e le indicazioni della giurisprudenza europea sulla specifica e peculiare fattispecie in esame, conduce alla disapplicazione anche delle disposizioni appena sopra citate, che equiparano alle società di comodo quelle in perdita fiscale.
6.3. Va quindi affermato il seguente principio di diritto:
« in tema di società non operative, anche alle società in perdita fiscale che, ai sensi dei commi 36 decies ed undecies , del d.l. n. 138 del 2011, introdotti in sede di conversione dalla legge n. 148 del 2011, vigente ratione temporis , sono equiparate a quelle di comodo di cui all’art. 30, commi 1 e 2, della legge n. 724 del 1994, va applicato il principio affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 7 marzo 2024 in causa C-341/22 (RAGIONE_SOCIALE, in base al quale l’art. 9, par. 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, va interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA – e quindi il diritto alla detrazione, alla compensazione, alla cessione dell’eccedenza di credito IVA e al rimborso, che non siano invocati in modo fraudolento o abusivo – al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini di tale imposta ».
Va precisato, al riguardo, che l’ accertamento della frode o dell’ abuso messo in atto dal soggetto passivo non è precluso dalla mancanza di originaria contestazione, «posto che la ricorrenza degli indici contemplati dall’art. 30 l. n. 724/1994 era idonea a fondare (sia pure illegittimamente) una presunzione in sé esaustiva dell’inconsistenza dell’attività economica perché apparente, in frode od artificiosa» (Cass. n. 24416 del 2024, cit.), e che il diritto alla
detrazione, alla compensazione, alla cessione dell’eccedenza di credito IVA e al rimborso può essere concesso ricorrendone, però, tutti i presupposti.
7.1. Sul punto, in Cass. n. 24416 del 2024, citata, si è condivisibilmente affermato che «il diritto di detrazione», ma anche gli altri sopra enunciati, «va riconosciuto se:
nel corso del periodo d’imposta controverso, in relazione al quale l’autorità tributaria ha reputato la società non operativa, la stessa abbia effettivamente esercitato un’attività economica (indipendentemente dallo scopo o dai risultati), intesa come comprensiva di ogni attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi, per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità;
la società medesima abbia impiegato i beni e servizi acquistati per le sue operazioni soggette ad imposta, e ciò indipendentemente dai risultati delle attività economiche;
le operazioni non si inseriscano in una frode (connotata anche soggettivamente secondo il consolidato principio per cui la parte sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare ad una evasione) o non integrino, ai fini unionali, un abuso, inteso anche, come si esprime la sentenza della CGUE (v. par. 33-36), quale ‘realizzazione di una costruzione artificiosa’.
7.2. Con riguardo ai punti a) e b), inoltre, va sottolineato che la detrazione dell’imposta può spettare anche in assenza di operazioni attive, ossia con riguardo alle attività di carattere preparatorio, purché esse siano finalizzate alla costituzione delle condizioni d’inizio effettivo dell’attività tipica (v. Cass. n. 25635 del 31/08/2022; Cass. n. 23994 del 03/10/2018).
Per quanto riguarda specificamente il diritto al rimborso, ne va accertata la spettanza al soggetto passivo secondo le disciplina sua propria, ovvero nel rispetto delle condizioni previste dall’artt.
30 del d.P.R. n. 633 del 1972 e della giurisprudenza nazionale ed unionale.
8.1. Al riguardo, va ricordato:
che « incombe sul contribuente, il quale invochi il riconoscimento di un credito d’imposta, l’onere di provare i fatti costitutivi dell’esistenza del credito, e, a tal fine, non è sufficiente l’esposizione della pretesa nella dichiarazione, poiché il credito fiscale non nasce da questa, ma dal meccanismo fisiologico di applicazione del tributo » (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 18427 del 26/10/2012; nello stesso senso, Cass., sez. 6-5, n. 26937 del 2017; Sez. 5, n. 27580 del 30/10/2018; Cass. n. 5288 del 28/02/2024, non massimata);
b) che la richiesta di rimborso dev’essere presentata nel rispetto del termine decadenziale biennale ex art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, che decorre dal giorno in cui si è verificato il presupposto del rimborso, ossia dal giorno in cui è stato effettuato il pagamento che dà diritto alla restituzione del versato (cfr., ex multis, Cass. n. 11652 dell’ 11/05/2017, Rv. 644123 -01; Cass. n. 34429 dell’ 11/12/2023, Rv. 670444 -01);
ove si tratti di richiesta di rimborso relativa all’eccedenza d’imposta risultata alla cessazione dell’attività, la fattispecie è regolata dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30, comma 2, e la richiesta è soggetta al termine di prescrizione ordinario decennale, non a quello biennale di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, art. 21, applicabile in via sussidiaria e residuale, solo in mancanza di disposizioni specifiche; e ciò in quanto l’attività non prosegue, sicché non sarebbe possibile portare l’eccedenza in detrazione l’anno successivo (Cass. n. 32424 del 2019 e la giurisprudenza ivi richiamata). Si è correttamente osservato, al riguardo (cfr. Cass. n. 9941 del 2015), che «siffatta soluzione ermeneutica è del resto coerente con il diritto eurounitario, poiché, se è vero che gli Stati
membri adottano le misure necessarie ad assicurare l’osservanza degli obblighi di dichiarazione e di pagamento, l’esatta riscossione dell’imposta e la prevenzione di frodi, tuttavia è pur vero che tali misure non possono eccedere gli obiettivi sopra indicati (v. Corte di giustizia, 11 dicembre 2014, in causa C-590/14, Idexx; 8 maggio 2008, in causa C- 95/07 e C-96/07, RAGIONE_SOCIALE; 27 settembre 2007, in causa C- 146/05, Coilee), essendo il diritto al ristoro dell’Iva versata “a monte” basilare nel sistema comunitario, in forza del principio di neutralità (cfr. Corte di giustizia, 22 dicembre 2010, in causa C- 438/09, Dankowski, p.to 34, con riguardo al caso di cessazione d’attività; 18 dicembre 1997, in cause riunite C-286/94, C-340/95, C- 401/95, C-47/96, Molenheide e altri)» (Cass. n. 20691 del 17/07/2023);
8.2. Va, altresì, ricordato che «l ‘Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione, che non derivi dalla sottostima dell’imposta dovuta, anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento o per la rettifica dell’imponibile e dell’imposta dovuta, senza che abbia adottato alcun provvedimento » (Cass., Sez. U, sentenza n. 21766 del 29/07/2021; conf. Cass. n. 5288 del 28/02/2024).
Orbene, l’applicazione dei suddetti principi al caso di specie comporta l’accoglimento dei motivi di ricorso in quanto la pronuncia d’appello si pone in netto contrasto con essi. Deve, in ultima analisi, ritenersi spettante alla società ricorrente il rimborso richiesto sicché la causa, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, non essendo state contestate la sussistenza e l’entità dell’eccedenza IVA, può essere decisa nel merito con l’accoglimento dell’originario ricorso della società contribuente, mentre la novità della questione trattata giustifica la compensazione delle spese dell’intero giudizio .
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso della società contribuente. Compensa tra le parti le spese processuali dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma il 23 ottobre 2024