Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32475 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 32475 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/12/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 2507/2017 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende;
-ricorrente-
contro
COGNOME, COGNOME , elettivamente domiciliate in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che le rappresenta e difende unitamente a ll’a vvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-controricorrenti-
nonché contro
NOME
-intimato- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. VENEZIA n. 811/2016 depositata il 20/06/2016.
Udita la relazione del Consigliere NOME COGNOME all’udienza pubblica dell’11 giugno 2024.
Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento dei motivi dal secondo al quinto e dal settimo al quattordicesimo; Uditi l’avv. dello Stato NOME COGNOME per la ricorrente e l’avv. NOME COGNOME su delega dell’avv. NOME COGNOME per le controricorrenti.
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle entrate emetteva avvisi di accertamento recanti imposte sui redditi ed IVA per il 2007 nei confronti della società di fatto RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME -costituita nel 2005, a seguito del decesso del titolare della omonima impresa individuale di allevamento di bovini e produzione di latte, e cessata il 31.12.2007 -e degli eredi personalmente NOME COGNOME (coniuge superstite), NOME COGNOME e NOME COGNOME (figli), ai quali i maggiori redditi erano stati imputati per trasparenza.
L’Ufficio, premesso che tanto l’impresa individuale quanto la società di fatto avevano optato per il regime di contabilità ordinaria sia ai fini delle imposte sui redditi sia ai fini IVA, rettificava il valore di cessione di un automezzo ceduto per zero euro e di beni strumentali, ceduti per euro 2.500,00, e riprendeva a tassazione plusvalenze realizzate dalla società attraverso le vendite, imponibili ai fini IVA, di un capannone non ultimato e di altra unità immobiliare (appartamento accatastato in A/7), beni iscritti nel registro dei beni ammortizzabili.
Proposti separati ricorsi dai soci, i quali, tra l’altro, avevano contestato di aver proseguito l’attività di impresa, la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Vicenza accoglieva parzialmente i ricorsi riuniti, annullando la ripresa relativa alla cessione dell’unità immobiliare in A/7, non trattandosi di bene strumentale.
Proponevano appello i contribuenti mentre l’Agenzia delle entrate proponeva appello incidentale; la Commissione Tributaria
Regionale (CTR) del Veneto, con la sentenza in epigrafe, accoglieva il primo e rigettava il secondo.
Secondo i Giudici d’appello, era credibile che i contribuenti non avessero esercitato alcuna attività di impresa e che la società di fatto fosse stata costituita al solo scopo di dismettere l’azienda agricola; pertanto, dovevano ritenersi plausibili i valori dati all’automezzo e ai beni strumentali, questi ultimi dimensionati alla struttura della stalla, desueti e non sfruttabili in modo diverso.
Quanto agli immobili, non essendovi mai stata attività di impresa non vi era stata cessione soggetta al relativo regime; il capannone, a seguito di dichiarazione di successione, era stato ceduto nell’ambito della sfera privata, cosicché non vi era alcuna plusvalenza tassabile e la cessione era soggetta a registro e non ad IVA in quanto gli eredi non erano una impresa di costruzioni; altrettanto valeva per l’altra unità immobiliare in A/7, che comunque non era bene strumentale della società.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate fondato su quattordici motivi.
Hanno resistito con controricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME E’ rimasto intimato NOME COGNOME Il Pubblico Ministero ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce nullità della sentenza impugnata per « inosservanza (violazione e falsa applicazione) dell’art. 36 d. lgs. 546/92» in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., laddove la CTR ha ritenuto credibili i valori di cessione attribuiti all’automezzo e alle attrezzature.
1.1. Con il secondo motivo si deduce nullità della sentenza impugnata per « inosservanza (violazione e falsa applicazione) art. 36 d. lgs. 546/92» in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., laddove la CTR ha affermato che nessuna attività di impresa era stata posta in essere dalla società di fatto.
1.2. Con il terzo motivo si deduce nullità della sentenza impugnata per « inosservanza (violazione e falsa applicazione) art. 36 d. lgs.546/92» in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., laddove la CTR ha escluso la plusvalenza con riguardo alla cessione del capannone.
1.3.Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2082, 2135, 2697 c.c., 2727-2729 c.c. e 115 c.p.c., laddove la CTR ha escluso che con la costituzione della società di fatto, finalizzata « a portare a compimento le attività in essere, ed in particolare il ciclo di allevamento dei vitelli », vi fosse stato esercizio di attività di impresa.
1.4. Con il quinto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dei principi generali in materia di assegnazione dei beni sociali ai soci e degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. in combinato disposto, laddove la CTR ha ritenuto che l’inclusione del capannone nella dichiarazione di successione del de cuius (presentata nel 2006) implicasse fuoriuscita del bene dalla società di fatto (costituita nel 2005), in difetto di atto di assegnazione ai soci, tanto più che al momento della cessione a terzi (avvenuta nel 2007) il bene era ancora iscritto nel registro dei beni ammortizzabili della società e la stessa cessione a terzi era stata annotata nel libro cespiti.
1.5. Con il sesto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 10 d.P.R. n. 633/1972, 2697 c.c. 115 c.p.c., laddove la CTR ha ritenuto la vendita del capannone esente da IVA, in quanto il capannone non era concluso, risultando un permesso di costruire, rilasciato dal Comune di Zuliano in data 29.4.2004, in relazione al quale non era mai stata dichiarata la ‘fine lavori’ né richiesta l’agibilità dello stesso; pertanto, l’operazione non era fuori campo IVA, rientrando nell’ipotesi di esclusione dell’esenzione di cui all’art. 10 n. 8 ter lett. a), cit..
1.6. Con il settimo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., omesso esame su un fatto decisivo sul quale le parti hanno discusso, e cioè il fatto che il capannone al momento della vendita non era ultimato e che l’altro immobile accatastato in A/7 era strumentale, in quanto avente destinazione residenziale/rurale, con locali ad uso agricolo e impianti ceduti unitamente all’immobile.
1.7. Con l’ottavo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 85 ed 86 d.P.R. n. 917/1986, laddove la CTR ha escluso che il bene accatastato in A/7 potesse generare plusvalenza in quanto non strumentale, perché i beni dell’impresa si dividono in beni strumentali e beni meramente patrimoniali e anche questi ultimi, se ceduti, possono generare plusvalenze.
1.8. Con il nono motivo si deduce nullità della sentenza impugnata per « inosservanza (violazione e falsa applicazione) art. 36 d. lgs. 546/92 e 112 c.p.c.» in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., lamentandosi motivazione apparente sulla esclusione della plusvalenza con riferimento al bene accatastato A/7.
1.9. Con il decimo motivo si deduce nullità della sentenza impugnata per « inosservanza (violazione e falsa applicazione) art. 36 d. lgs. 546/92 e 112 c.p.c.» in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., laddove la CTR ha affermato, con motivazione carente e meramente apparente, che anche il bene A/7 era compreso nella successione del 2006.
1.10. Con l’undicesimo motivo si deduce in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dei principi generali in materia di assegnazione dei beni sociali ai soci, degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. in combinato disposto, per aver la CTR ritenuto che l’inclusione del bene A/7 nella dichiarazione di successione del de cuius implicasse fuoriuscita del bene dall’azienda, in difetto di atto di assegnazione ai soci, tanto più che
al momento della cessione a terzi il bene era ancora iscritto nel registro dei beni ammortizzabili della società e la stessa cessione era stata annotata nel libro cespiti.
1.11. Con il dodicesimo motivo si deduce nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., essendo la sentenza viziata da ultra/extrapetizione laddove la CTR ha riconosciuto, per la cessione del capannone, l’esenzione ex art. 10 n. 8 ter d.P.R. n. 633/1972 mentre la parte aveva chiesto il riconoscimento dell’esenzione ex art. 10 n. 8 bis cit.
1.12. Con il tredicesimo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 10 d.P.R. n. 633/1972, dell’art. 2697 c.c., avendo la CTR riconosciuto l’esenzione di cui all’art. 10 n. 8 ter cit. senza accertare il presupposto ivi previsto, e cioè che l’immobile non era suscettibile di diversa utilizzazione senza radicale trasformazione.
1.13. Con il quattordicesimo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 58 d.lgs. n. 546/1992, per non aver la CTR ammesso la documentazione prodotta in appello, relativa al carteggio con il Comune di Zugliano, perché in possesso dell’Agenzia prima della notifica degli avvisi e producibile, quindi, in primo grado.
I primi tre motivi nonché il nono e decimo motivo possono essere esaminati congiuntamente, deducendo tutti la medesima censura (apparenza della motivazione), e sono infondati.
2.1. Non essendo più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza -di ‘mancanza della motivazione quale requisito essenziale del
provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata (Cass. n. 23940 del 2018; Cass. sez. un. 8053 del 2014), a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (v., ultimamente, anche Cass. n. 7090 del 2022). Questa Corte ha precisato, altresì, che « la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture » (Cass. sez. un., n. 22232 del 2016; conf. Cass. n. 9105 del 2017, secondo cui ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica in modo da rendere impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento). Come si desume dalla superiore espositiva, una motivazione esiste, avendo la CTR spiegato, sia pure in maniera sintetica, per ciascuna delle questioni dedotte, le ragioni delle decisioni assunte che, in disparte la loro correttezza, sono chiaramente intelligibili.
Anche il quarto e quinto motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, e sono ammissibili, oltre che fondati. Non ha pregio l’eccezione dei controricorrenti secondo cui si mirerebbe, in particolare con il quarto motivo, alla rivalutazione del merito in quanto la doglianza non investe la ricostruzione del fatto compiuta dal giudice
d’appello, ma la individuazione che questi ha compiuto della norma applicata a quel fatto così come accertato, riconducibile all’ipotesi di falsa applicazione della legge, usualmente definita «vizio di sussunzione». Come noto, il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre esula dallo stesso l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa (Cass., n. 3340 del 2019; Cass., n. 10320 del 2018; Cass., n. 24155 del 2017). L’ espressione ‘violazione o falsa applicazione di legge’, di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., descrive i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto e quello relativo all’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Mentre il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata, il vizio di falsa applicazione di legge consiste o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista -pur rettamente individuata e interpretata -non è idonea a regolarla o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (Cass., n. 640 del 2019; Cass., n. 18782 del 2005). Fa, dunque, parte del’ sindacato di legittimità secondo il paradigma della « falsa applicazione di norme di diritto » il controllare se la fattispecie concreta (assunta così come ricostruita dal giudice di merito), è stata ricondotta sotto la corretta fattispecie giuridica, ferma restando l’insindacabilità dei fatti accertati e l’impossibilità di
ricostruirli in modo diverso -e l’errore eventualmente commesso non è un errore di accertamento, ma un errore di giudizio, consistente nello scegliere in modo non corretto quella, tra le tante norme dell’ordinamento, della quale deve farsi applicazione al caso concreto (Cass., n. 1106 del 2018).
3.1. In questo caso la CTR ha errato laddove ha escluso l’es ercizio di una impresa da parte della società di fatto tra i coeredi di NOME COGNOME In tema di accertamento del reddito d’impresa ai fini IRPEF ed ILOR, anche in assenza di una formale costituzione della società di fatto, se alla morte dell’imprenditore individuale l’impresa non cessa con una necessaria fase di liquidazione, si deve presumere che essa venga continuata in una forma di comunione da tutti i chiamati all’eredità, e, quindi, tra di loro è legittimamente configurabile, anche in mancanza di atti formali, una società di fatto (Cass. n. 14889 del 2000). Più in generale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, a seguito del ricadere – in questo caso per successione – in comunione delle componenti mobiliari ed immobiliari di un complesso aziendale, la decisione di tutti i condomini di mantenere la precedente destinazione e di conservare in vita l’impresa pone necessariamente costoro nella veste di contitolari dell’impresa stessa (Cass. n. 3195 del 1997), anche in forma di società di fatto (v. anche Cass. n. 24197 del 2020; v. anche Cass. n. 32353 del 2023; in precedenza, Cass. n. 3028 del 2009), cosicché deve escludersi la configurabilità di una mera amministrazione di beni ereditari in regime di comunione incidentale di godimento, essendosi in presenza, invece, dell’esercizio di attività imprenditoriale da parte di una società di fatto (Cass. n. 10188 del 2019; Cass. n. 13291 del 1999; Cass. n. 1810 del 1968; Cass. n. 2430 del 1973; Cass. n. 1366 del 1975). L’elemento discriminante tra comunione a scopo di godimento e società è infatti costituito dallo scopo lucrativo perseguito tramite un’attività imprenditoriale che si sostituisce al mero godimento ed
in funzione della quale vengono utilizzati i beni comuni (vedi Cass. n.3028 del 2009).
3.2. In questo caso non solo vi era stata l’esteriorizzazione di una società tra i coeredi (dichiarazioni agli uffici tributari, tenuta dei libri sociali), ma erano stati compiuti atti di esercizio di una impresa agricola come individuata dall’art. 2135 c.c. (v. anche artt. 32 e 55 TUIR). Gli stessi contribuenti, affermando di essersi limitati « a portare a termine, in qualità di eredi, il ciclo di allevamento del bestiame», in particolare il ciclo di allevamento dei vitelli , forzatamente interrotto a seguito del decesso del titolare dell’impresa, « al solo fine di non generare inutili perdite », riconoscono l’esercizio d i una impresa, perché quella attività non ha natura meramente conservativa, e tanto meno liquidatoria, determinando, con la crescita degli animali, un aumento di valore di quell’ asset e implicando quindi uno scopo di lucro mirante proprio a quel maggior valore.
3.3. Deve altresì escludersi che la dichiarazione di successione presentata dagli eredi successivamente alla costituzione della società abbia determinato l’assegnazione a costoro di quei beni ereditari appartenenti alla società di fatto, atteso che questa dichiarazione ha valore eminentemente fiscale con riguardo al profilo della successione ereditaria tra le persone fisiche (Cass. n. 10729 del 2009; Cass. n. 4783 del 2007).
Strettamente connesso è l’ottavo motivo , con cui si afferma che la plusvalenza derivante dalla cessione dell’appartamento accatastato in A/7, in quanto appartenente alla società di fatto, è tassabile ex art. 86 TUIR.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2 . E’ bene premettere che, ai sensi dell’art. 5 comma 3 lett. b) del TUIR, « le società di fatto sono equiparate alle società in nome collettivo o alle società semplici secondo che abbiano o non abbiano per oggetto l’esercizio di attività commerciali». Ai fini delle imposte
sui redditi le società semplici, non potendo svolgere attività commerciale, non possono conseguire reddito d’impresa. Così, le plusvalenze derivanti dall’esercizio di società semplici rientrano tra i ‘redditi diversi’ disciplinati dall’art. 67 del TUIR (« Sono redditi diversi se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente..» ). Invece, per le società in nome collettivo e in accomandita semplice, in forza dell’art. 6 comma 3 TUIR, i redditi da queste prodotti, da qualsiasi fonte provengano, sono considerati redditi d’impresa.
4.3 . Ai sensi dell’art. 32 comma 2 lett. b), TUIR l’allevamento di animali è considerata attività agricola se svolta « con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno… »; il successivo comma 3 stabilisce che « Con decreto del Ministro delle finanze, di concerto con il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, è stabilito per ciascuna specie animale il numero dei capi che rientra nei limiti di cui alla lettera b) del comma 2, tenuto conto della potenzialità produttiva dei terreni e delle unità foraggere occorrenti a seconda della specie allevata ». Secondo il successivo art. 55, « Sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d’impresa» , facendovi rientrare anche le attività di allevamento eccedenti i limiti come determinati dai decreti ministeriali.
4.4. Quindi, la società di fatto che svolge attività di allevamento oltre i limiti di cui all’art. 32 comma 2 lett. b), in forza del combinato degli artt. 55 e 5 cit., va assimilata alle società in nome collettivo, ma ciò non significa piena coincidenza di disciplina con
riguardo alle « plusvalenze dei beni relativi all’impresa» (v. art. 86 TUIR). E’ necessario soffermarsi sull’art. 65 TUIR (a far data dall’1.1.2004, in precedenza art. 77) che definisce la categoria prevedendo che « 2. Per le società in nome collettivo e in accomandita semplice si considerano relativi all’impresa tutti i beni ad esse appartenenti, salvo quanto stabilito nel comma 3 per le società di fatto. 3. Per le società di fatto si considerano relativi all’impresa i beni indicati alle lett. a) e b) del comma 1 dell’art.85, i crediti acquisiti nell’esercizio dell’impresa e i beni strumentali per l’esercizio dell’impresa, compresi quelli iscritti in pubblici registri a nome dei soci utilizzati esclusivamente come strumentali per l’esercizio dell’impresa».
4.5. Secondo la giurisprudenza di questa Corte la disposizione al terzo comma ha introdotto «una presunzione di appartenenza alla società di fatto dei beni immobili di proprietà dei soci, ove utilizzati nell’esercizio dell’impresa, facendo così prevalere, sul criterio formale dell’appartenenza, quello dell’uso strumentale effettivo ed esclusivo del bene» (Cass. n. 4609 del 2009; v. anche Cass. n. 14686 del 2000; Cass. n. 15040 del 2000). L’art. 65 comma 3 del TUIR reca una speciale disciplina per l’identificazione dei beni « relativi all’impresa » delle società di fatto, diversa da quella prevista per le società commerciali regolari per le quali si considerano relativi all’impresa tutti i beni ad esse appartenenti (cosicché la loro cessione genera comunque plusvalenza ex art. 86 cit.): si presumono tali, per le società di fatto, quelli iscritti nei pubblici registri a nome dei soci « utilizzati esclusivamente come strumentali per l’esercizio dell’impresa »; in mancanza di questo requisito i beni restano personali, non appartengono all’impresa sociale e, quindi, non possono generare, ai sensi dell’art. 86 TUIR, le plusvalenze dei « beni relativi all’impresa », né la loro cessione può determinare una plusvalenza tassabile tra i redditi diversi, ai
sensi dell’art. 67 comma 1 lett. b) TUIR, se sono pervenuti per successione.
4.6. In questo caso la CTR ha accertato che « il fabbricato accatastato in categoria A/7 (..) è bene non strumentale all’azienda » e la stessa ricorrente riconosce una destinazione ‘residenziale/rurale’ dell’immobile, così escludendo comunque un utilizzo esclusivamente strumentale all’esercizio dell’impresa.
Il sesto motivo e il quattordicesimo motivo vanno esaminati congiuntamente e sono fondati.
5.1. L’Agenzia ha prodotto in appello documentazione tendente a dimostrare che il capannone era stato interessato da lavori edilizi di ristrutturazione e al momento della vendita non era concluso. Erroneamente la CTR ha ritenuto che la documentazione prodotta in appello fosse inammissibile in quanto in possesso dell’Amministrazione precedentemente alla notifica degli avvisi impugnati. Infatti, in tema di contenzioso tributario, l’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall’art. 345 c.p.c., da esercitarsi – stante il richiamo operato dall’art. 61 del citato d.lgs. alle norme relative al giudizio di primo grado – entro il termine previsto dall’art. 32, comma 1, dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza, con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma 1 (Cass. n. 9635 del 2024; Cass. n. 18103 del 2021; Cass. n. 414 del 2013; Cass. n. 655 del 2014; Cass. n. 3661 del 2015 e Cass. n. 29087 del 2018); tale facoltà è consentita anche se si tratta di documenti preesistenti al giudizio di primo grado e pure se, in quest’ultimo giudizio, la parte era rimasta contumace (Cass. n. 17921 del 2021; Cass. n. 8927 del 2018).
5.2. Si tratta, quindi, di documentazione ammissibile, che può essere rilevante ai fini dell’assoggettamento della vendita del capannone all’IVA. La CTR ha escluso l’imponibilità ai fini IVA della
vendita del capannone osservando che « gli eredi non erano un’impresa di costruzioni per cui il regime Iva naturale è l’esenzione »; peraltro, secondo l’art. 10 n. 8 ter, lett. a), nella versione vigente ratione temporis , restano fuori dal campo IVA « le cessioni di fabbricati o di porzioni di fabbricato strumentali che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni, escluse: a) quelle effettuate, entro quattro anni dalla data di ultimazione della costruzione o dell’intervento, dalle imprese costruttrici degli stessi o dalle imprese che vi hanno eseguito, anche tramite imprese appaltatrici, gli interventi di cui all’articolo 31, primo comma, lettere c), d) ed e), della legge 5 agosto 1978, n. 457» .
5.3. L’Agenzia delle entrate, con la circolare n. 12/E del 1.3.2007, ha affermato che « occorre tener conto che l’art. 10, nn. 8-bis) e 8ter del d.P.R. n. 633 del 1972, nell’individuare il regime IVA applicabile alla cessione di fabbricati, non tratta specificamente anche dei fabbricati “non ultimati”, e ciò diversamente da quanto espressamente previsto in altri ambiti normativi (come, ad esempio, il n. 21) della Tabella A, parte II, allegata al d.P.R. n. 633 del 1972 e il n. 127-undecies) della Tabella A, parte III, allegata al medesimo d.P.R.). Ciò induce a ritenere che la cessione di un fabbricato effettuata da un soggetto passivo d’imposta in un momento anteriore alla data di ultimazione del medesimo (come individuata nel paragrafo che precede) sia esclusa dall’ambito applicativo dei richiamati nn. 8-bis) e 8-ter) dell’art. 10 del d.P.R. n. 633 del 1972 trattandosi di un bene ancora nel circuito produttivo, la cui cessione, pertanto, deve essere in ogni caso assoggettata ad IVA », ed espressioni analoghe si rinvengono nella circolare n. 12/E del 12.3.2010. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, al fine di affermare che l’atto di cessione è sottoposto ad IVA, è necessario che il bene non sia ancora uscito dal circuito produttivo sicché nel caso in cui l’immobile, non ancora completato,
pervenga ad un consumatore finale, il quale provveda all’ultimazione dei lavori a mezzo dì contratto di appalto, ci si trova in regime di esenzione ai sensi dell’art. 10, commi 8 bis e ter, d.P.R. 633/1972 e l’atto va assoggettato ad imposta di registro (Cass. nn. 22138 del 2017, 22757 del 2016; 23499 del 2016). Diversamente opinando, ovvero qualora si ritenesse che qualsiasi cessione dì fabbricati o di loro porzioni non ultimati sia esenti da IVA, si legittimerebbero operazioni elusive che non si giustificano alla luce di quella che deve intendersi essere la ratio della norma, volta ad assoggettare ad IVA le cessioni di fabbricati o di porzioni di fabbricato (abitativi o strumentali) non ultimati che avvengono nell’ambito del circuito produttivo e non sono poste in essere a favore del consumatore finale (cfr. anche Cass. n. 27123 del 2020).
Il settimo, l’undicesimo, il dodicesimo e tredicesimo motivo restano assorbiti.
In conclusione, accolti il quarto, il quinto, il sesto e il quattordicesimo motivo, rigettati il primo, il secondo, il terzo, l’ottavo, il nono e il decimo e assorbiti gli altri, la sentenza deve essere cassata di conseguenza con rinvio al giudice del merito che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il quarto, il quinto, il sesto e il quattordicesimo motivo, rigettati il primo, il secondo, il terzo, l’ottavo, il nono e il decimo, assorbiti gli altri, cassa di conseguenza la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Veneto in diversa composizione che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
In Roma nella camera di consiglio dell’11 giugno 2024 riconvocata il 23 ottobre 2024.
Il Consigliere estensore Il Presidente
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