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Società di fatto: prova inammissibile per la Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’Agenzia delle Entrate contro un contribuente accusato di essere socio di una società di fatto esterovestita. La Corte ha stabilito che l’appello è inammissibile se si limita a riproporre le proprie tesi senza contestare specificamente le motivazioni della sentenza di secondo grado, la quale aveva escluso la sussistenza della società per mancanza di prove concrete su elementi essenziali come l’affectio societatis e il fondo comune.

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Pubblicato il 22 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Società di Fatto: Quando la Prova dell’Agenzia delle Entrate è Inammissibile

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 11674/2025, offre un importante chiarimento sui requisiti probatori necessari per dimostrare l’esistenza di una società di fatto in ambito tributario. La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria, rea di aver richiesto un riesame dei fatti senza contestare efficacemente la logica della decisione di secondo grado. Questo caso sottolinea un principio fondamentale: non basta elencare indizi, bisogna costruire una prova solida e coerente.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine da una verifica fiscale della Guardia di Finanza nei confronti di una società di capitali olandese. Gli inquirenti conclusero che si trattasse di una società di fatto esterovestita, con sede direttiva in Italia, e identificarono diversi soci, tra cui il contribuente protagonista della nostra analisi. Di conseguenza, l’Agenzia delle Entrate emetteva un avviso di accertamento, imputando al contribuente una quota di reddito da partecipazione per trasparenza.

Il contribuente impugnava l’atto, e sia la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) che quella Regionale (CTR) gli davano ragione. Entrambi i giudici di merito ritenevano non provata l’esistenza della società di fatto, evidenziando l’assenza di elementi concreti a sostegno della tesi dell’Ufficio. In particolare, il ruolo di “Capo Area Finanze” o “cassiere” del contribuente veniva considerato un dato neutro, compatibile con un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione professionale, piuttosto che con la qualità di socio.

Il Ricorso in Cassazione dell’Agenzia delle Entrate

L’Amministrazione Finanziaria non si arrendeva e proponeva ricorso per cassazione, lamentando principalmente la violazione delle norme sulla prova per presunzioni (artt. 2697 e 2729 c.c.). Secondo l’Agenzia, i giudici di merito non avrebbero correttamente valutato gli elementi indiziari offerti, che nel loro complesso avrebbero dovuto condurre al riconoscimento della società di fatto.

Parallelamente, il contribuente depositava sentenze penali irrevocabili di assoluzione, ottenute per gli stessi fatti con la formula “perché il fatto non sussiste”, invocandone l’efficacia nel giudizio tributario.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Corte ha deciso di esaminare con precedenza il motivo relativo alla violazione delle norme sulla prova, ritenendolo decisivo. La conclusione è stata netta: il motivo, e di conseguenza l’intero ricorso, è inammissibile.

La Suprema Corte ha spiegato che il giudice d’appello (la CTR) aveva fornito una motivazione esaustiva e logica. La CTR aveva chiarito che gli elementi portati dall’Ufficio – come il ruolo dirigenziale del contribuente – non erano sufficienti a dimostrare una partecipazione societaria, specialmente perché le attività venivano svolte “secondo le disposizioni operative di massima del dominus”.

Il ricorso dell’Agenzia, secondo la Corte, non si confrontava con questa precisa ratio decidendi. Invece di smontare il ragionamento del giudice di secondo grado, l’Amministrazione si era limitata a riproporre le proprie tesi e a chiedere una nuova valutazione degli elementi di fatto. Questo, però, è un compito precluso alla Corte di Cassazione, che è giudice di legittimità e non di merito. L’Agenzia non ha illustrato come avesse provato l’esistenza di elementi essenziali quali:

* Un fondo comune.
* L’affectio societatis (la volontà di essere soci).
* Un accordo sulla ripartizione di utili e perdite.

L’inammissibilità del motivo principale ha reso irrilevanti le altre questioni sollevate, come quella del litisconsorzio necessario (la mancata partecipazione al giudizio di tutti i presunti soci) e dell’efficacia della sentenza penale di assoluzione. Se il ricorso principale è inammissibile, queste questioni perdono di ogni interesse.

Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio cruciale nel contenzioso tributario: l’onere della prova grava sull’Amministrazione Finanziaria. Per sostenere l’esistenza di una società di fatto, non è sufficiente presentare una serie di indizi ambigui. È necessario fornire una prova rigorosa e circostanziata degli elementi costitutivi del vincolo sociale. Inoltre, un ricorso per cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sui fatti. Deve invece attaccare specificamente i vizi logici o giuridici della sentenza impugnata. In assenza di una critica mirata e pertinente, il ricorso è destinato all’inammissibilità, con la conseguenza che la decisione di merito favorevole al contribuente diventa definitiva.

Cosa deve provare l’Agenzia delle Entrate per dimostrare l’esistenza di una società di fatto?
Secondo la sentenza, l’Agenzia deve fornire elementi di prova concreti che dimostrino l’esistenza di un fondo comune, la comune intenzione dei soci di collaborare su un piano di parità (affectio societatis) e un accordo sulla ripartizione di utili e perdite. Indizi generici o ruoli lavorativi, anche di alto livello, non sono di per sé sufficienti.

Perché il ricorso dell’Agenzia delle Entrate è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché non contestava specificamente le motivazioni della sentenza di secondo grado. Invece di dimostrare un errore di diritto o un vizio logico nel ragionamento dei giudici d’appello, l’Agenzia si è limitata a riproporre le proprie tesi, chiedendo di fatto un nuovo esame del merito della vicenda, attività preclusa alla Corte di Cassazione.

Che valore hanno le sentenze penali di assoluzione nel processo tributario in questo caso?
In questo specifico caso, la questione dell’efficacia delle sentenze penali di assoluzione è stata assorbita e non decisa. Poiché il ricorso principale dell’Agenzia è stato dichiarato inammissibile per ragioni procedurali, la Corte non ha avuto bisogno di pronunciarsi sull’applicabilità dell’art. 21-bis del D.Lgs. 74/2000 e sugli effetti del giudicato penale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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