Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 2123 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 2123 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 29/01/2025
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. n. 2383/2022 R.G. proposto da:
COGNOME -anche in qualità di coniuge ed erede unico di NOME, deceduta nelle more del giudizio-, COGNOME NOMECOGNOME E COGNOME SNC, con l’avvocato COGNOME che li rappresenta e difende
-ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato.
-controricorrente-
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sardegna n. 333/2021, depositata l’11 giugno 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16 gennaio 2025 dal relatore Consigliere NOME COGNOME
apparenza-
principio di diritto
CC.
16/01/2025
Rilevato che:
I ricorrenti propongono due motivi di ricorso, supportati da memoria, per la cassazione della sentenza in epigrafe, che ha rigettato il loro appello avverso la sentenza della CTP di Cagliari che, dopo averli riuniti, aveva rigettato i loro ricorsi avverso l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate in materia di IRAP, IVA ed imposte dirette altro per l’anno 2008.
L’Agenzia delle entrate si difende con controricorso.
Il ricorso è stato oggetto della proposta di cui all’art. 380-bis, c.p.c., a seguito della quale i ricorrenti hanno richiesto la decisione e depositato memoria.
Considerato che:
Con il primo motivo i ricorrenti denunziano ‘violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2927, 2697, 2247 e 1362-1363 del codice civile, dell’art. 3 8 del d.p.r 29.9.1973 n.600 e dell’art. 55 del d.p.r 26.10.1972 n. 633 (art 360. n.3.c.p.c.)’ e censurano la sentenza impugnata, nella parte in cui ha accertato la sussistenza della società di fatto tra i contribuenti.
Il mezzo è inammissibile per plurime ragioni, ciascuna sufficiente alla relativa declaratoria.
Infatti, il mezzo- con specifico riferimento ad atti diversi dall’avviso controverso, ed in particolar modo relativamente ai rogiti notarili ed al ruolo di NOME COGNOME (v. pag. 9 del ricorso) n on adempie l’onere di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ., di specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito. (Cass., 15/01/2019, n. 777; Cass., 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726).
Tale onere (ribadito ed aggravato, con l’inserimento altresì della necessaria illustrazione del contenuto rilevante degli stessi atti processuali e documenti, dall’ art. 3, comma 27, del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, applicabile tuttavia ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ex art. 35, comma 5, del medesimo d.lgs.), anche interpretato alla luce dei principi contenuti nella sentenza della Corte EDU, sez. I, 28 ottobre 2021, r.g. n. 55064/11, non può ritenersi rispettato qualora il motivo di ricorso non indichi specificamente i documenti o gli atti processuali sui quali si fondi; non ne riassuma il contenuto o ne trascriva i passaggi essenziali; né comunque fornisca un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui essi siano stati
prodotti o formati (cfr. Cass. Sez. U., 18/03/2022, n. 8950; Cass. 14/04/2022, n. 12259; Cass. 19/04/2022, n. 12481; Cass. 02/05/2023, n. 11325).
Il mezzo è ulteriormente inammissibile in quanto sovrappone in maniera inestricabile pretesi vizi della motivazione rassegnata dalla CTR, censure relative alle valutazioni della CTR sulle emergenze istruttorie e asseriti errori in diritto.
Invero, la lettura dell’intero corpo del relativo mezzo d’impugnazione evidenzia una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che comporta l’inammissibile prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili (Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando piuttosto specificamente separati la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793), o il preteso vizio assoluto di motivazione.
Pertanto, i distinti motivi di cui al num. 3 ed al num. 5 dell’art. 360, primo comma 1, cod. proc. civ. risultano, nel contenuto del mezzo, censure non ontologicamente distinte dai ricorrenti e quindi non autonomamente individuabili, senza possibilità di un inammissibile intervento di selezione e ricostruzione del mezzo d’impugnazione da parte di questa Corte.
Lo stesso mezzo è inammissibile anche con riferimento alla pretesa violazione dell’art. 2697 c.c. Infatti, « In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.» (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018).
Né comunque, nel caso di specie, vi è stata inversione dell’onere della prova, che il giudice di appello ha imputato all’Ufficio, dando atto che quest’ultimo lo ha assolto.
Inammissibile anche il riferimento all’art. 2927 c.c., di cui non viene illustrata la
pertinenza rispetto alla fattispecie controversa.
In ordine poi alla pretesa violazione dei canoni euristici di cui agli artt. 1362 e s. c.c., la censura del ricorrenti si limita sostanzialmente alla menzione di tali norme ed alla riaffermazione della diversa interpretazione della fattispecie concreta (e quindi delle risultanze probatorie apprezzate dalla CTR), ciò che non è ammissibile in questa sede ( ex plurimis Cass. n. 18214 del 03/07/2024).
Il motivo è ulteriormente inammissibile in quanto la censura relativa alla pretesa mancanza di esteriorizzazione della società di fatto non risulta, dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso, proposta o riproposta in appello, concentrandosi le contestazioni dei contribuenti sugli elementi del fondo comune e dell’ affectio societatis . Ulteriore ragione d’inammissibilità è poi l’insindacabilità della valutazione in fatto operata dal giudice a quo nel valutare i dati fattuali. Invero i ricorrenti, pur denunciando formalmente la pretesa violazione di una serie di norme, mirano, nel complesso e nella sostanza del mezzo, ad una rivalutazione del ragionamento decisorio che ha portato il giudice del merito, sulla base dell’esame delle deduzioni e delle prove addotte dalle parti, a ritenere provata l’esistenza della società di fatto, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass., Sez. VI, 4 luglio 2017, n. 8758), tanto più nella ricorrenza, ratione temporis , della c.d. doppia conformità delle due decisioni di merito, senza che i ricorrenti ne abbiano evidenziato il diverso fondamento (Cass. 22/12/2016, n. 26774).
Al riguardo, questa Corte ha più̀ volte affermato il principio secondo il quale «in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità̀», se non nei limiti del vizio di motivazione come indicato dall’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., nel testo riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134 (Cass. n. 24155/2017; Cass. n. 195/2016; Cass. 26110/2015). Ed è stato quindi affermato che «Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è
segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa» (Cass. n. 7394/2010).
Pertanto, laddove la deduzione della violazione di legge sia solo formale, l’oggetto del ricorso non è più l’analisi e l’applicazione delle norme, bensì la loro concreta applicazione operata dal giudice di merito ed a questi riservata (Cass., Sez. I, 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., Sez. I, 14 gennaio 2019, n. 640; Cass., Sez. I, 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass., Sez. V, Sez. 5, 4 aprile 2013, n. 8315), il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass., Sez. VI, 3 dicembre 2019, n. 31546; Cass., Sez. U., 5 maggio 2006, n. 10313; Cass., Sez. VI, 12 ottobre 2017, n. 24054).
1.1. Il motivo è anche infondato in quanto la sentenza resa dalla CTR integra il c.d. minimo costituzionale necessario della motivazione e risulta comprensibile, logica e non contraddittoria. (Cass., Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014).
In diritto, inoltre, la sentenza impugnata integra i principi espressi da questa Corte in materia di accertamento della sussistenza della società di fatto, non limitandosi (come pure sarebbe stato sufficiente: cfr. ex plurimis Cass. n. 9604 del 13/04/2017) a considerare manifestazioni comportamentali concludenti, in quanto rivelatrici di una struttura sovraindividuale; ma estendendo la valutazione puntualmente ad elementi interni al rapporto tra le parti (conferimento di beni in denaro per l’acquisto dell’area edificabile, scopo di dividerne gli utili, assunzione del rischio d’impresa), oggettivamente sintomatici del fondo comune e dell’ affectio societatis (Cass. n. 4385 del 13/02/2023).
Deve poi rivelarsi la contraddittorietà delle difese, sul punto della c.d. esteriorizzazione del vincolo sociale, dei ricorrenti, che nel ricorso danno atto di aver sostenuto, in appello, che nel caso di specie si dovrebbe ‘tutt’al più, riconoscere una società apparente ‘. Invero, l’apparenza è comunque una forma di esteriorizzazione del vincolo sociale, la cui natura non meramente apparente, ma effettiva, è stata poi oggetto di specifico accertamento in fatto della CTR.
Più in generale, poi, deve rivelarsi l’errore di prospettiva del mezzo nella parte in cui attribuisce rilevanza decisiva, ai fini dell’accertamento della società di fatto, alla esteriorizzazione del vincolo sociale.
Infatti, per questa Corte (Cass. n.24881 del 15/09/2021), in materia tributaria, i criteri di identificazione della società di fatto sono diversi da quelli che assumono rilevanza nei rapporti contrattuali di diritto privato, giacché in questi ultimi l’esigenza è quella di tutelare l’affidamento senza colpa dei terzi basato sul comportamento dei soci che,
perciò, si assumono il rischio relativo (Cass., sez. 1, 5 maggio 2016, n.898i; Cass., sez. 1, 29 ottobre 1997, n. 10695; Cass., sez. 1, 11 marzo 2010,n. 5961); mentre nei rapporti di diritto tributario l’esigenza è quella di verificare l’esistenza dei presupposti per applicare norme impositive, sicché è necessario accertare l’effettiva esistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociale, non essendo sufficiente la mera apparenza di tale vincolo, sia pure accompagnata dal ragionevole convincimento della sua esistenza (Cass., sez. 5, 16 dicembre 2005, n. 7775, Cass., sez. 1, 5 agosto 1996, n. 7164; Cass., sez. 1, 18 marzo 1988, n. 2500).
Dunque, si è precisato che la prova della sussistenza della società di fatto, seppure non possa essere desunta dalla mera esteriorizzazione del vincolo nei confronti dei terzi, può essere però dedotta anche dall’esistenza di indici presuntivi (Cass., sez. 5, 16 giugno 2016, n. 12500).
Pertanto, in tema di imposte sui redditi, ai fini dell’individuazione del soggetto effettivo titolare del reddito prodotto da una specifica attività economica, l’esistenza di una società di fatto – caratterizzata dall’ intenzionale esercizio in comune fra i soci di un’attività commerciale, anche occasionale, a scopo di lucro, e dal conferimento a tal fine dei necessari beni e servizi (Cass., sez. 5, 13 novembre 2008, n. 27088) – può ben essere desunta da manifestazioni comportamentali rivelatrici di una struttura sovraindividuale indiscutibilmente consociativa, assunte non per una loro autonoma valenza, ma quali elementi apparenti e rivelatori, sulla base di una prova logica, dei fattori essenziali di un rapporto di società nella gestione dell’azienda (Cass., sez. 5, 20 gennaio 2006, n. 1127; Cass., sez. 6-5, 13 aprile 2017, n. 9604).
Può dunque dirsi che «L’accertamento, ai fini fiscali, dell’esistenza di una società di fatto richiede l’effettiva esistenza degli elementi costitutivi del vincolo societario ( l’intenzionale esercizio in comune fra i soci di un’attività commerciale, anche occasionale, a scopo di lucro, ed il conferimento a tal fine dei necessari beni e servizi), che l’amministrazione può provare anche in via presuntiva, rilevando l’apparenza del vincolo sociale nei confronti dei terzi non quale autonomo titolo della responsabilità fiscale dei soci (nascendo l’obbligazione tributaria ex lege solo al concreto verificarsi del presupposto dell’imposizione), ma come uno dei possibili indici rivelatori della reale esistenza di tale società.».
2. Con il secondo motivo si denuncia ‘violazione degli artt. 6, comma 2 decreto legislativo 18.12.1997, n.472 e 10, comma 3 della legge 27.7.2000 n.212’,
censurandosi la sentenza impugnata per non aver disapplicato d’ufficio le sanzioni tributarie per l’assunta obiettiva incertezza nell’interpretazione ed applicazione delle disposizioni di riferimento.
Secondo l’orientamento prevalente di questa Corte, il potere del giudice tributario di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni, per errore sulla norma tributaria, in caso di obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito applicativo della stessa, presuppone una domanda del contribuente formulata nei modi e nei termini processuali appropriati, che non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di appello e, quindi, neppure in questa sede (ex plurimis Cass. n. 15406 del 03/06/2021; Cass.,26 giugno 2019, n. 17195; Cass. n. 14402 del 14/07/2016; Cass. n. 24060 del 12/11/2014; Cass. n. 25676 del 24 ottobre 2008), come accaduto nel caso di specie. È ben noto, tuttavia, a questo Collegio l’orientamento contrario di legittimità (Cass. n. 2604 del 29/01/2024 e giurisprudenza ivi citata), favorevole alla rilevabilità anche d’ufficio, a seguito di mera sollecitazione del contribuente.
Tuttavia, nel caso di specie, il motivo è in ogni caso infondato, in quanto i ricorrenti individuano sostanzialmente la pretesa obiettiva incertezza non riferendola ad una fattispecie normativa astratta, come prevedono le norme invocate, ma ad ‘un’interpretazione della fattispecie concreta del tutto opinabile, e comunque di tipo analogico e presuntivo, e comunque in assenza di riscontro di elementi oggettivi’ in ordine alla sussistenza della società di fatto. Si tratta, evidentemente, di considerazioni, in fatto ed in diritto, sulla decisione della CTR, già peraltro oggetto del primo motivo di ricorso, ritenuto inammissibile ed infondato.
Le spese seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 380bis , comma 3, cod. proc. civ., le parti soccombenti vanno condannate a pagare:
in solido la somma di euro 1.200,00, equitativamente determinata, a favore della controparte, ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.;
ciascuna, in proprio e n.q., la somma di euro 500,00 a favore della cassa delle ammende, ex art. 96, quarto comma, cod. proc. civ..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna le parti ricorrenti al pagamento:
in solido, a favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 2.400,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito; nonché di euro 1.200,00 ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.;
di euro 500,00 ciascuna a favore della cassa delle ammende ex art. 96, quarto comma, cod. proc. civ.
a i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2025.