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Società di fatto: prova a carico dell’Agenzia Entrate

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, confermando che l’onere di provare l’esistenza di una società di fatto, ai fini dell’imputazione di un reddito da partecipazione, grava sull’Amministrazione finanziaria. Nel caso di specie, l’Agenzia non ha fornito prove sufficienti sugli elementi essenziali del vincolo societario, come il fondo comune e l’affectio societatis, rendendo illegittimo l’avviso di accertamento notificato al contribuente, ritenuto erroneamente socio di due società estere.

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Pubblicato il 4 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Società di fatto: chi deve provare la sua esistenza?

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 13903 del 2025, offre un importante chiarimento su un tema cruciale del diritto tributario: la società di fatto e l’onere della prova. Quando l’Amministrazione Finanziaria presume l’esistenza di un’entità societaria non formalizzata per imputare redditi ai presunti soci, su chi ricade il compito di dimostrarne l’effettiva esistenza? La Suprema Corte ribadisce un principio fondamentale: l’onere probatorio spetta interamente all’Agenzia delle Entrate, che non può basarsi su mere congetture.

I Fatti di Causa: L’accertamento per la presunta società di fatto

Il caso ha origine da un avviso di accertamento notificato a un contribuente per l’anno d’imposta 2011. L’Agenzia delle Entrate gli imputava un reddito da partecipazione di oltre 53.000 euro, sostenendo che fosse un socio di fatto, con una quota del 20%, di due società di capitali di diritto olandese. Secondo l’Amministrazione, queste società erano ‘esterovestite’, ovvero, pur avendo sede legale all’estero, operavano prevalentemente in Italia. La qualifica di socio di fatto derivava, secondo il Fisco, da incarichi strategici che il contribuente ricopriva all’interno di un più ampio gruppo imprenditoriale.

Il contribuente ha impugnato l’atto impositivo, contestando radicalmente la ricostruzione dell’Agenzia. Sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale hanno accolto le sue ragioni, annullando l’accertamento. Entrambi i giudici di merito hanno concluso che l’Ufficio finanziario non aveva fornito alcuna prova concreta degli elementi sintomatici e necessari per configurare una società di fatto, quali:

* Il fondo comune (conferimento di beni o servizi).
* L’affectio societatis (l’intenzione di costituire un vincolo societario).
* La partecipazione all’alea imprenditoriale (divisione di utili e perdite).
* La manifestazione esterna del vincolo sociale.

La Decisione della Cassazione e la prova della società di fatto

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, basandolo su tre motivi principali: la nullità della sentenza d’appello per motivazione apparente, la violazione del principio del litisconsorzio necessario (per la mancata partecipazione al giudizio degli altri presunti soci) e l’errata applicazione delle norme sulla prova presuntiva.

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la decisione dei giudici di merito e consolidando principi importanti in materia di onere probatorio.

L’onere della prova e la motivazione

I giudici di legittimità hanno trattato congiuntamente il primo e il terzo motivo, relativi alla motivazione e alla prova per presunzioni. La Corte ha chiarito che la motivazione della Commissione Tributaria Regionale non era affatto apparente, ma illustrava in modo completo le ragioni della decisione: la totale assenza di prove, anche presuntive, fornite dall’Agenzia. La sentenza d’appello aveva sottolineato che, a fronte delle specifiche contestazioni del contribuente, era ‘onere dell’Ufficio contestare in maniera precisa e puntuale dette affermazioni dimostrandone l’inconferenza e l’erroneità’.

L’Agenzia, invece, si era limitata a insistere sulle sue tesi, riproponendo genericamente il ruolo di rilievo del contribuente nel gruppo societario, senza però collegarlo a elementi concreti che dimostrassero l’esistenza di un vincolo sociale nelle due specifiche società estere.

La questione del litisconsorzio necessario

Anche il secondo motivo è stato respinto. La Corte ha osservato che la richiesta di integrare il giudizio con gli altri presunti soci è inammissibile se, come nel caso di specie, i giudici di merito hanno già escluso alla radice l’esistenza stessa della società di fatto. Non si può imporre la partecipazione di altri soggetti a un processo che verte su un presupposto (la società) risultato inesistente. Inoltre, richiamando il principio della ragionevole durata del processo, la Cassazione ha affermato che, di fronte a un ricorso palesemente infondato, non è necessario disporre adempimenti processuali (come l’integrazione del contraddittorio) che si rivelerebbero un ‘inutile dispendio di attività’.

Le Motivazioni della Corte

La ratio decidendi della sentenza risiede nel rigoroso rispetto del principio dell’onere della prova, sancito dall’articolo 2697 del codice civile e applicabile anche in ambito tributario. L’Amministrazione Finanziaria, quando avanza una pretesa basata sulla sussistenza di una società di fatto, agisce come attore in senso sostanziale. Pertanto, deve dimostrare tutti i fatti costitutivi della sua pretesa. Non è sufficiente allegare indizi generici o ruoli apicali in altre società del gruppo; è necessario fornire elementi gravi, precisi e concordanti che, letti nel loro insieme, provino in modo inequivocabile l’esistenza di un patto sociale non formalizzato. La Corte ha ritenuto che la decisione impugnata fosse corretta nel momento in cui ha rilevato che l’Agenzia non aveva provato né il conferimento di beni, né l’intenzione comune di vincolarsi, né la partecipazione ai risultati economici dell’impresa.

Conclusioni e Implicazioni Pratiche

Questa pronuncia rafforza la tutela del contribuente di fronte ad accertamenti basati su ricostruzioni presuntive. La Cassazione invia un chiaro messaggio all’Amministrazione Finanziaria: per qualificare un rapporto come società di fatto, è indispensabile un’istruttoria approfondita e la presentazione in giudizio di prove concrete e specifiche. Il contribuente non può essere gravato di un reddito da partecipazione sulla base di semplici sospetti o del suo coinvolgimento in altre realtà imprenditoriali. La decisione sottolinea che il ruolo del giudice tributario è quello di valutare la solidità delle prove offerte dall’Ufficio, non di colmare le sue lacune investigative. Per le imprese e i professionisti, ciò significa che una difesa ben argomentata, che evidenzi la mancanza di prove sui requisiti essenziali del vincolo societario, ha ottime possibilità di successo.

A chi spetta l’onere di provare l’esistenza di una società di fatto in un contenzioso tributario?
Spetta all’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate) dimostrare in modo preciso e puntuale tutti gli elementi costitutivi della società di fatto, come il fondo comune, l’affectio societatis e la partecipazione ai risultati economici, non potendo basare l’accertamento su presunzioni generiche.

È sufficiente che l’Agenzia delle Entrate invochi il ruolo strategico di un soggetto in un gruppo per dimostrare che sia socio di fatto di una specifica società?
No, non è sufficiente. La Corte ha stabilito che l’Agenzia deve provare specificamente gli elementi costitutivi della società di fatto contestata, senza potersi limitare a riproporre tesi generiche sulla funzione di rilievo assunta dal contribuente in altre società del medesimo gruppo.

In un accertamento su una società di fatto, è sempre necessario coinvolgere nel processo tutti i presunti soci?
No. La Corte ha chiarito che, se il ricorso dell’Amministrazione finanziaria risulta palesemente infondato perché non è stata provata l’esistenza stessa della società, non è necessario integrare il contraddittorio con gli altri presunti soci, in ossequio al principio della ragionevole durata del processo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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