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Società di fatto: la prova spetta sempre al Fisco

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14936/2025, ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, stabilendo che per accertare l’esistenza di una società di fatto non è sufficiente dimostrare un ruolo strategico del contribuente in un gruppo societario. L’Amministrazione Finanziaria ha l’onere di provare in modo rigoroso gli elementi essenziali del vincolo sociale, come il fondo comune, l’affectio societatis e la partecipazione ai risultati economici. In assenza di tale prova, la prestazione lavorativa del contribuente deve essere inquadrata come un normale rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione professionale, annullando così l’accertamento per reddito da partecipazione.

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Pubblicato il 2 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Società di Fatto: la Prova per il Fisco non è Mai Scontata

L’accertamento di una società di fatto da parte dell’Amministrazione Finanziaria è uno strumento potente ma dai contorni probatori molto rigidi. Con la recente sentenza n. 14936 del 2025, la Corte di Cassazione ha nuovamente tracciato una linea netta, riaffermando che l’onere di dimostrare l’esistenza di un vincolo sociale occulto ricade interamente sul Fisco e non può basarsi su semplici presunzioni derivanti dal ruolo strategico di un contribuente all’interno di un’organizzazione. Questa decisione offre importanti chiarimenti sulla distinzione tra collaborazione professionale e partecipazione societaria ai fini fiscali.

I Fatti di Causa: dall’Accertamento al Ricorso in Cassazione

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento notificato a un contribuente per l’anno d’imposta 2007. L’Agenzia delle Entrate, sulla base di una verifica fiscale, aveva imputato al soggetto un reddito da partecipazione, ritenendolo socio di fatto (per una quota del 20%) di una società di diritto olandese, a sua volta considerata “esterovestita” e operante in Italia. Secondo la tesi del Fisco, il ruolo di primo piano ricoperto dal contribuente all’interno del gruppo imprenditoriale era un chiaro indicatore della sua qualità di socio occulto.

Il contribuente ha impugnato l’atto impositivo, sostenendo l’insussistenza dei presupposti per qualificare la sua posizione come quella di un socio. Sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale hanno accolto le sue ragioni, annullando l’accertamento. I giudici di merito hanno concluso che la prestazione d’opera del professionista poteva benissimo inquadrarsi in un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione professionale, e che il Fisco non aveva fornito prove sufficienti degli elementi tipici di una società.

Insoddisfatta, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, basandolo su quattro motivi principali, tra cui la presunta motivazione apparente della sentenza d’appello e la violazione delle norme sulla prova presuntiva.

La Prova della Società di Fatto secondo l’Agenzia

Nel suo ricorso, l’Amministrazione Finanziaria ha lamentato che i giudici di merito avessero escluso l’esistenza della società di fatto senza un’adeguata analisi degli elementi indiziari offerti. Secondo il Fisco, la fitta rete di relazioni e le mansioni di rilievo svolte dal contribuente costituivano prove sufficienti per presumere il vincolo sociale. Inoltre, l’Agenzia ha contestato la mancata riunione del processo con quelli a carico di altri presunti soci e la mancata sospensione in attesa della definizione degli accertamenti verso la società.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, confermando la decisione dei giudici d’appello. Gli Ermellini hanno analizzato e respinto uno per uno i motivi del ricorso, fornendo importanti principi di diritto.

In primo luogo, la Corte ha ritenuto infondate le censure sulla motivazione e sulla valutazione delle prove. La sentenza impugnata non era affatto apparente, ma spiegava chiaramente perché le prove fornite dal Fisco fossero insufficienti. I giudici di merito avevano correttamente evidenziato che l’Ufficio non aveva dimostrato la presenza degli elementi sintomatici e costitutivi di una società di fatto.

Le Motivazioni

Il cuore della decisione risiede nella riaffermazione dei principi che regolano l’onere della prova in materia di società di fatto. La Corte di Cassazione ha chiarito che non basta, per il Fisco, allegare che un soggetto abbia investito risorse professionali o intrattenuto una “rete di relazioni” per un’impresa. Per poter qualificare tale rapporto come societario, è indispensabile fornire la prova rigorosa dei suoi elementi costitutivi, quali:

1. Il fondo comune: La costituzione di un patrimonio condiviso destinato all’esercizio dell’attività.
2. L’affectio societatis: La volontà comune di tutti i partecipanti di collaborare su un piano di parità per il raggiungimento di uno scopo comune.
3. La partecipazione all’alea: La condivisione sia dei profitti che delle perdite derivanti dall’attività d’impresa.
4. La manifestazione esterna: Il modo in cui il vincolo sociale viene percepito dai terzi.

Nel caso di specie, la Corte ha osservato come l’Agenzia delle Entrate si fosse limitata a insistere sulla funzione di rilievo assunta dal contribuente, senza però illustrare concretamente le prove che avrebbero dimostrato l’esistenza di un fondo comune o di un accordo sulla ripartizione degli utili e delle perdite. La prestazione d’opera, anche se di alto livello, può essere giustificata da un contratto di lavoro o di consulenza, e spetta al Fisco dimostrare che la realtà era diversa.

La Corte ha inoltre respinto i motivi procedurali, chiarendo che la sospensione del processo era una scelta discrezionale del giudice e che il principio del litisconsorzio necessario, pur applicabile in astratto, viene meno quando, come in questo caso, il ricorso è palesemente infondato e la sua applicazione andrebbe contro i principi di economia processuale e ragionevole durata del processo.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un orientamento fondamentale: la qualificazione di un rapporto come società di fatto non può derivare da mere supposizioni basate sul ruolo o sull’importanza di un collaboratore. L’onere della prova, che grava interamente sull’Amministrazione Finanziaria, richiede la dimostrazione specifica e concreta degli elementi essenziali del contratto di società. Per i contribuenti, questa pronuncia rappresenta una tutela contro accertamenti presuntivi non adeguatamente supportati da prove, riaffermando la distinzione cruciale tra essere un manager o un consulente e essere un socio.

Chi deve provare l’esistenza di una società di fatto in un contenzioso tributario?
L’onere della prova spetta interamente e in modo esclusivo all’Amministrazione Finanziaria, la quale deve dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociale.

Quali sono gli elementi essenziali per dimostrare l’esistenza di una società di fatto?
Secondo la Corte, è necessario provare la presenza di elementi sintomatici quali un fondo comune, l’affectio societatis (cioè l’intenzione comune di essere soci e collaborare su un piano di parità), la partecipazione ai profitti e alle perdite (alea comune) e la manifestazione esterna del rapporto sociale.

Ricoprire un ruolo strategico o dirigenziale in un’azienda è sufficiente per essere considerato un socio di fatto?
No. La sentenza chiarisce che una prestazione d’opera, anche di alto livello e con funzioni strategiche, non è di per sé sufficiente a dimostrare l’esistenza di una società di fatto, in quanto tale attività può legittimamente rientrare in un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione professionale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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