Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 26115 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 26115 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 25/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2243/2024 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata ex lege in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE LIQUIDAZIONE
-intimata –
Avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. del PIEMONTE n. 803/2022 depositata in data 25 luglio 2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 1° luglio 2025 dal Consigliere dr.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
1. L’Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE esercente attività immobiliare in gene re, l’avviso di accertamento n. T7L034L01059 per IRES e IRAP per l’anno di imposta 2015. In particolare, a mezzo dell’accertamento predetto, veniva recuperato un reddito minimo di € 84.519,45, in luogo di quello dichiarato pari a € 2.528,00, cui conseguivano maggiore IRES per € 22.548,00, maggiore IRAP pari a € 3.296,00, e maggiore imposta sostitutiva di € 8.874,00, oltre sanzioni e interessi.
Avviso di
accertamento – IRES – IRAP – 2015
Avverso l’ avviso di accertamento, la società proponeva ricorso dinanzi alla C.t.p. di Asti, la quale con sentenza n. 37/2021 rigettava il ricorso, confermando la legittimità dell’operato dell’Ufficio.
Contro tale sentenza proponeva appello la società dinanzi alla RAGIONE_SOCIALE Piemonte; l’Ufficio si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell’appello.
La C.t.r. del Piemonte, con sentenza n. 803/2022 depositata in data 25 luglio 2022, accoglieva l’appello della società.
Avverso la sentenza della C.t.r. del Piemonte, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La società è rimasta intimata.
La causa è stata trattata nella camera di consiglio del 1° luglio 2025.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso, così rubricato: «Violazione dell’art. 57 d.lgs. 546/1992, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. con riferimento all’omessa declaratoria di inammissibilità dell’appello per violazione del divieto di nova in appello», l’Ufficio lamenta l’error in procedendo nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. non ha dichiarato la nullità dell’appello del contribuente in quanto lo stesso conteneva un motivo nuovo, in aperta violazione dell’art. 57 del d. lgs. n. 546/1992, nella parte in cui la società, dopo aver sostenuto nel giudizio di primo grado che, nella specie, sussistessero le situazioni oggettive chieste dalla legge per la disapplicazione della normativa in argomento, repentinamente modificava la causa petendi e, prendendo spunto dalla pronuncia di legittimità n. 26219/2021, eccepiva che, al fine della decisione del caso di specie, il raggiungimento della prova della ricorrenza delle oggettive condizioni impeditive del realizzo proprio dei ricavi minimi fosse comunque ininfluente, differente essendo il contenuto dell’onere
gravante sul contribuente, per l’effetto potendo opporre qualunque fatto impeditivo.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso, così rubricato: «Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 30 della legge 724/1994e degli artt. 2696, 2727 e 2729 cod. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. con riferimento al riparto dei carichi probatori ed alla sussistenza degli indici di gravità, precisione e concordanza, in caso di applicazione della disciplina dettata per le cd. società non operative», l’Ufficio lamenta l’error in iudicando nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. ha ritenuto sussistere le cause oggettive impeditive normative per la disapplicazione della disciplina antielusiva nonché ritenuto che tale dimostrazione potesse essere data sia in sede di interpello che in sede di giudizio, anche con giustificazioni che non rivestano i caratteri di ‘oggettive situazioni’.
2. Il primo motivo è infondato.
Devono ritenersi ammissibili infatti quelle modificazioni della domanda introduttiva non incidenti né sulla causa petendi (ma solo sulla interpretazione o sulla qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto) né sul petitum (se non nel senso di meglio quantificarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere) e a giudicare inammissibili, per contro, quelle modificazioni della domanda che danno luogo ad una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, per diversità e/o ampiezza del petitum o della causa petendi. Secondo la giurisprudenza di legittimità ricorre l’emendatio libelli quando si incida sulla causa petendi, in modo che risulti modificata soltanto l’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere. Esorbita dai limiti di una consentita ‘emendatio libelli” il mutamento della “causa petendi”
che consista in una vera e propria modifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo perché fondato su presupposti diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo del giudizio, così da porre in essere una pretesa diversa da quella precedente. Si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d’indagine e si spostino i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte e alterare il regolare svolgimento del processo (Cass. civ., sez. II, 2 agosto 2019, n. 20870).
Orbene, tale inammissibile mutamento non si è concretato con l’appello della società contribuente atteso che sin dall’inizio ha richiesto la disapplicazione della disciplina antielusiva.
Il secondo motivo di ricorso proposto è fondato.
3.1. L’istituto dell’interpello disapplicativo, ex art. 37 -bis , comma 8, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, quale applicabile ratione temporis , consente la disapplicazione delle norme antielusive correttive o impeditive di detrazioni, deduzioni o crediti di imposta quando si dimostri che nella fattispecie concreta non si sarebbero potuti realizzare gli effetti antielusivi impediti dalla relativa disposizione.
3.2. Nel caso di specie si fa riferimento all’utilizzo dell’istituto dell’interpello disapplicativo all’interno della disciplina delle società ‘di comodo’, altrimenti dette ‘non operative’, disciplina per mezzo della quale si è inteso disincentivare il fenomeno dell’uso improprio dello strumento societario, utilizzato come involucro per raggiungere scopi, anche di risparmio fiscale, diversi da quelli previsti dal legislatore per tale istituto (Cass. n. 21358/2015).
In particolare, l’art. 30, comma 4 -bis , L. n. 724/1994, nella formulazione applicabile ratione temporis , prevede che: «in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4 , la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell’articolo 37 bis , comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973».
3.3. Ora, con riguardo al quesito sotteso al presente ricorso, cioè se l’interpello disapplicativo implichi sempre e comunque la necessità della sua attivazione, a pena di sostanziale decadenza dalla possibilità di ottenere la disapplicazione della norma antielusiva, e, ove omesso, inibisca di conseguenza al giudice di valutare da sé la sussistenza, in concreto, dei presupposti per la disapplicazione stessa, questa Corte ha avuto modo di precisare che: «tale interpello disapplicativo non presenta, ad avviso di questo Collegio, natura di una condizione di procedibilità e di limitazione della tutela giurisdizionale del contribuente, né ha comportato l’elisione della facoltà, per quest’ultimo, di superare la presunzione legale di ‘non operatività’ (sancita dal primo comma della disposizione in esame) mediante la dimostrazione in giudizio di circostanze oggettive e non imputabili che abbiano reso impossibile il conseguimento di ricavi in misura pari alle soglie determinata ai sensi dell’art. 30; infatti, i principi costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.) non impediscono al contribuente sia di discostarsi dalla risposta negativa all’interpello resa dalla Amministrazione, senza doverla necessariamente
impugnare, per evitarne la cristallizzazione, potendo comunque impugnare gli atti successivi di applicazione delle disposizioni antielusive, sia di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico impositivo che gli venga successivamente notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva (cfr. Cass., ord., 24 febbraio 2021, n. 4946; Cass., ord., 28 maggio 2020, n. 10158)» (Cass. n. 28251/2021; nello stesso senso Cass. n. 5953/2021).
3.4. Nella fattispecie in esame, la C.t.r. ha fatto mal governo dei suddetti principi laddove ha ritenuto che il citato comma 4 bis prevede che le oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi rilevano e debbono sussistere unicamente in sede di interpello disapplicativo, ex art. 37 bis, comma 8, del d.P.R. n. 600/1973 ‘come la stessa norma indica nelle ultime quattro righe’.
3.5. Similmente, quanto alla prova contraria che avrebbe dovuto offrire il contribuente, costui può vincere la presunzione dimostrando all’Amministrazione – attraverso l’interpello finalizzato alla disapplicazione delle disposizioni antielusive, ovvero in giudizio, nel caso di contrasto – le oggettive situazioni che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito determinato secondo i predetti parametri normativi (Cass. 23 maggio 2022, n. 16472). L’onere della prova contraria deve essere inteso «non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato» (Cass. 28 maggio 2020, n. 10158; Cass. 12 febbraio 2019, n. 4019; Cass. 20 giugno 2018, n. 16204). E’ stato peraltro escluso che, attraverso il meccanismo della presunzione relativa e dell’onere della prova contraria gravante sul contribuente, si pervenga ad un mero sindacato di merito del giudice sulle scelte imprenditoriali, rilevando che «in tema di società di comodo, non
sussistono le oggettive situazioni di carattere straordinario, che rendono impossibile il superamento del test di operatività, l. n. 724 del 1994, ex art. 30, comma 4-bis, nella versione all’epoca vigente, nell’ipotesi di totale assenza di pianificazione aziendale da parte degli organi gestori della società o di completa “inettitudine produttiva”, gravando sull’imprenditore, anche collettivo, – ai sensi dell’art. 2086, secondo comma, come modificato dall’art. 375 c.c.i.i., in coerenza con l’art. 41 Cost. – l’obbligo di predisporre i mezzi di produzione nella prospettiva del raggiungimento del lucro obiettivo e della continuità aziendale.
3.6. Inoltre, con riferimento alla presunzione legale relativa di non operatività, l’onere probatorio può essere assolto non solo dimostrando che, nel caso concreto, l’esito quantitativo del test di operatività è erroneo o non ha la valenza sintomatica che gli ha attribuito il legislatore, giacché il livello inferiore dei ricavi è dipeso invece da situazioni oggettive che ne hanno impedito una maggior realizzazione (Cass. 24 febbraio 2021, n. 4946, in motivazione).
3.7. In forza di queste considerazioni può ribadirsi, con riferimento al quadro normativo applicabile al presente giudizio, che la prova contraria, da parte del contribuente, deve risolversi nell’offerta di elementi di fatto consistenti in situazioni oggettive indipendenti dalla volontà del contribuente, che rendano impossibile conseguire il reddito presunto avuto riguardo alle effettive condizioni del mercato (Cass. 3 marzo 2023, n. 6459; Cass. 23 novembre 2021, n. 36365; Cass. 12 febbraio 2019, n. 4019), e che, pertanto, facciano desumere «l’erroneità dell’esito quantitativo del test di operatività, ovvero la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale e, dunque, l’operatività reale della (Cass. 3 marzo 2023, n. 6459; Cass. 23 novembre 2021, n. 36365; Cass. 12 febbraio 2019, n. 4019).
3.8 Quindi, stante che l’Amministrazione lamenta il c.d. vizio di sussunzione, inquadrabile nel paradigma del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. (falsa applicazione di legge), con riferimento ai fatti dedotti dalla contribuente come integranti le cause oggettive d’impossibilità del raggiungimento dei requisiti di operatività (v. Cass. sez. 5, ord. 16.5.20234, n. 13228; Cass. sez. 5, ord. 3.3.2023, n. 6459), nella fattispecie in esame, la C.t.r. ha motivato illustrando come, attraverso il deposito di una perizia, gli immobili fossero fatiscenti e che erano intervenute difficoltà amministrative sia per ottenere le imprescindibili autorizzazioni sanitarie regionali che le autorizzazioni comunali per ampliare e adeguare progettualmente le strutture. Orbene, l’esistenza di oggettive situazioni concretanti l’elemento giustificativo della non idonea redditualità dell’impresa devono consistere in scelte indipendenti dalla volontà dell’imprenditore e, nel caso di specie, i beni immobili erano stati acquistati dalla società non per godimento dei soci ma per realizzare due strutture socio-assistenziali in due diversi comuni e che il progetto era naufragato perché richiedente uno sforzo economico molto gravoso tale da non garantire un adeguato livello economico. A tacer del fatto che si trattava dello svolgimento di una attività di impresa e di commercio immobiliare idonea a produrre ricavi e redditi; pertanto, vanno approfonditi l’esame della prova nel merito in relazione ai principi affermati.
4. In conclusione, va accolto il ricorso, la sentenza impugnata va cassata ed il giudizio va rinviato innanzi al giudice a quo, affinché, in diversa composizione, proceda a nuovo e motivato esame nonché provveda alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio del giudizio innanzi alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, affinché, in diversa composizione, proceda a
nuovo e motivato esame nonché provveda alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma in data 1° luglio 2025.
Il Presidente Dott. NOME COGNOME