Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 27038 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 27038 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14806/2016 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore , elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato (pec: EMAIL), che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore NOME COGNOME rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al controricorso, dall’avv. NOME COGNOME (pec:
Oggetto
: società di
comodo –
diniego
disapplicazione di norme
antielusive – legge n.
724 del 1994
EMAIL), con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME, sito in Roma, alla INDIRIZZO (pec: EMAIL);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5317/02/2015 della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, depositata in data 09/12/2015; udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24 giugno 2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza impugnata la CTR della Lombardia respingeva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sfavorevole sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE avverso il diniego di disapplicazione delle norme antielusive dettate in materia di società di comodo dall’art. 30 della legge n. 724 del 1994, che la predetta società contribuente aveva avanzato all’amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 37 bis, comma 8, del d.P.R. n. 600 del 1973, esponendo di non aver raggiunto nell’anno d’imposta 2012 la soglia minima di ricavi per ragioni oggettive.
1.1. I giudici di appello, richiamando i principi espressi da Cass. n. 17010/2012, ritenevano che il predetto diniego aveva immediato impatto sulla sfera giuridica della parte contribuente, costituendo l’anticipazione di un successivo atto impositivo, sicché sussisteva l’interesse della stessa ad invocare l’intervento giurisdizionale, e ciò anche in un’ottica di interpretazione estensiva dell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992.
1.2. Nel merito, ritenevano che la società contribuente aveva dato prova degli sforzi compiuti per ottimizzare i profitti, concedendo in locazione a terzi – e non ai soci, amministratori o loro familiari, come
si verifica generalmente nelle società di comodo – gli immobili di proprietà, negoziando gli affitti degli immobili nella maniera più confacente possibile ai propri interessi, prevedendo anche clausole di revisione ‘al rialzo’ dei canoni di locazione. Ritenevano, quindi, che ai fini della valutazione di reddittività della società contribuente ben poteva essere presa in considerazione quella effettuata dall’arch. COGNOME che, « pur non trattandosi di una perizia in senso tecnico, è pur sempre uno studio proveniente da un esperto e, come tale, poteva essere preso in considerazione tra gli elementi fattuali forniti dal contribuente ai fini della valutazione dell’effettiva redditività della società ».
Avverso la predetta statuizione l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui replica l’intimata con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, con cui si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 100 cod. proc. civ., 37-bis, comma 8, del d.P.R. n. 600 del 1973, 30, comma 4-bis, della legge n. 724 del 1994 e 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, la ricorrente sostiene che aveva errato la CTR a ritenere impugnabile il provvedimento di diniego di disapplicazione delle norme antielusive dettate in materia di società di comodo dall’art. 30 della legge n. 724 del 1994, ritenendo di non condividere le argomentazioni svolte da questa Corte nella pronuncia n. 17010/2012 richiamata in sentenza.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce la medesima questione posta nel primo motivo ma quale error in iudicando , ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto tra loro strettamente connessi per identità della questione posta, sono manifestamente infondati.
3.1. Come ricordato dalla stessa ricorrente, questa Corte con sentenza n. 17010/2012 ha affermato il principio in base al quale «In tema di contenzioso tributario, l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ha natura tassativa, ma non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi l’Amministrazione porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche, siccome è possibile un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge 28 dicembre 2001, n. 448. Ne consegue che il contribuente ha la facoltà, non l’onere di impugnare il diniego del Direttore Regionale delle Entrate di disapplicazione di norme antielusive ex art. 37 bis, comma 8, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, atteso che lo stesso non è atto rientrante nelle tipologie elencate dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, ma provvedimento con cui l’Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine ad un determinato rapporto tributario».
3.2. Tale principio, che il Collegio condivide e a cui intende dare continuità, ha trovato successiva conferma in Cass. n. 11929/2014, non massimata, citata dalla stessa ricorrente, nonché in Cass. n. 23469/2017, Cass. n. 3775/2018, Cass. n. 32425/2019 e, più recentemente, in Cass. n. 2577/2025 e n. 15376/2025.
3.3. Le critiche sviluppate nel ricorso al sopra citato principio di diritto non colgono nel segno e nemmeno prendono in considerazione molti degli « elementi » che hanno indotto questa corte ad escludere « che all’atto de quo possa attribuirsi natura meramente endoprocedimentale o di semplice parere interpretativo (al pari di una
circolare) ». Tra questi, l’obbligatorietà dell’istanza; la compiuta descrizione della fattispecie concreta che l’istanza deve necessariamente contenere; la necessaria allegazione della documentazione rilevante; l’assoggettamento ad eventuale richieste istruttorie; la circostanza che « l’istanza è comunque rivolta ad ottenere un atto dell’amministrazione, sia esso da intendere come una sorta di “autorizzazione alla disapplicazione” della specifica norma antielusiva in questione, sia, piuttosto, come sembra più corretto anche in base alla disciplina della materia, quale atto, esso stesso, di esercizio del potere di disapplicazione (che spetta all’amministrazione e non al contribuente) »; la circostanza che « le “determinazioni” del direttore regionale delle entrate sono comunicate al richiedente mediante servizio postale, in plico raccomandato con avviso di ricevimento, con “provvedimento” “da ritenersi definitivo” (D.M. n. 259 del 1998, art. 1, in specie commi 4 e 6) ».
3.4. Non è, quindi, condivisibile la tesi di parte ricorrente secondo cui per l’amministrazione finanziaria sarebbe impossibile esercitare un qualche controllo sulla veridicità, fondatezza o esaustività degli elementi di fatto addotti dal contribuente a fondamento dell’istanza nel termine di novanta giorni concesso al Direttore regionale delle entrate per comunicare le proprie determinazioni. Trattasi di un termine che il legislatore, nella sua discrezionalità, ha comunque ritenuto adeguato a contemperare gli opposti interessi delle parti e a consentire all’amministrazione finanziaria di compiere le necessarie attività di verifica.
3.5. A quanto detto, aggiungasi che nella citata pronuncia questa Corte ha correttamente precisato che il provvedimento di rigetto per ragioni di merito, com’è quello impugnato, può sempre essere rivalutato dall’amministrazione finanziaria in sede di esame della dichiarazione dei redditi o dell’istanza di rimborso, e che la risposta
positiva del direttore regionale impedisce all’amministrazione l’applicazione della norma antielusiva oggetto d’interpello, ma a condizione che i fatti accertati in sede di controllo della dichiarazione corrispondano a quelli rappresentati nell’istanza.
3.6. L’interesse del contribuente, destinatario di un provvedimento di rigetto dell’istanza, ad agire ex art. 100 cod. proc. civ., non viene meno per il fatto che esso non abbia natura vincolante. Al riguardo, deve osservarsi che è ben vero che il contribuente può sempre disattendere il provvedimento negativo e quindi presentare una dichiarazione reddituale o una richiesta di rimborso che non tenga conto del provvedimento che nega la disapplicazione delle norme antielusive, ma è altrettanto vero che, in tal caso, sarebbe concreto il rischio per il contribuente di vedersi notificare un avviso di accertamento che ‘corregga’ quella dichiarazione o un provvedimento di diniego dell’istanza di rimborso. In buona sostanza, come correttamente affermato da questa Corte, il provvedimento negativo del direttore regionale « costituisce il primo atto con il quale l’amministrazione, a seguito di una fase istruttoria e di una valutazione tecnica, e con particolari garanzie procedimentali, porta a conoscenza del contribuente, in via preventiva, il proprio convincimento in ordine ad una specifica richiesta, relativa ad un determinato rapporto tributario » ed ha, quindi, « l’immediato effetto di incidere, comunque, sulla condotta del soggetto istante in ordine alla dichiarazione dei redditi in relazione alla quale l’istanza è stata inoltrata », con la conseguenza che va riconosciuto in capo al contribuente destinatario della risposta, « l’interesse, ex art. 100 c.p.c., ad invocare il controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’atto in esame » (Cass. n. 17010/2012, cit.), e ciò prima dell’adozione da parte dell’amministrazione finanziaria di atti impositivi tipici ex art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992.
3.7. Sulla scorta di tali complessive considerazioni deve disattendersi il sollecito della ricorrente alla rimessione della questione alle Sezioni unite di questa Corte ex art. 376, secondo comma, cod. proc. civ.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1, n. 4, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 115, 116 e 132 cod. proc. civ., 118 disp. att. cod. proc. civ., 36, comma 2, n. 4, 53 e 61 del d.lgs. n. 546 del 1992.
4.1. Sostiene la ricorrente che le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata in ordine al merito della vicenda sono «completamente sprovviste di supporto motivazionale capace di disvelare l’ iter logico-giuridico per pervenire alla loro formulazione».
Per costante orientamento di questa Corte, il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre quando il giudice, in violazione di un obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), ossia degli artt. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e 36, comma 2, n. 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, omette di illustrare l’ iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, ossia di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata . La sanzione di nullità colpisce, pertanto, non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione da punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e presentano “una motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U, n. 8053/2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, perché dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione non consente di “comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per
pervenire da essi al risultato enunciato”, non assolvendo in tal modo alla finalità di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi ” (Cass. Sez. U., n. 22232/2016). Come questa Corte ha più volte affermato, la motivazione è solo apparente e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U, n. 22232/2016, cit.; Cass. n. 14927/2017; Cass. n. 13977/2019; Cass. n. 29124/2021). Si è, quindi, ulteriormente precisato che si è in presenza di una tipica fattispecie di “motivazione apparente”, allorquando la motivazione della sentenza impugnata, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente e, talora, anche contenutisticamente sovrabbondante, risulta, tuttavia, essere stata costruita in modo tale da rendere impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento decisorio, e quindi tale da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. (tra le tante: Cass., n. 13248/2020, n. 8400/2021, n. 9288/2021 e n. 9627/2021).
5.1. In tale grave forma di vizio di certo non incorre la sentenza impugnata la cui motivazione, riportata in sintesi al precedente p. 1.2. dei fatti di causa, condivisibile o meno che sia, si pone comunque ben al di sopra del minimo costituzionale, avendo i giudici di appello illustrato, anche facendo riferimento ad uno ‘studio’ a firma di un architetto, prodotto in giudizio, le ragioni per le quali nella specie la società contribuente dovesse ritenersi operativa.
5.2. Il motivo è, pertanto, infondato e va rigettato.
6 Con il quarto motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ. nonché 30 della legge 724 del 1994.
6.1. Sostiene la ricorrente che le circostanze indicate dai giudici di appello per rigettare nel merito l’appello dell’Ufficio sono inidonee a provare la sussistenza di oggettive situazioni di anormale redditività dell’azienda.
Va preliminarmente rigettata l’eccezione della controricorrente di inammissibilità del motivo per cd. doppia conforme.
7.1. Invero, il motivo, diversamente da come eccepito dalla controricorrente, è ammissibile in quanto con lo stesso la difesa erariale pone una questione di sussunzione nella fattispecie astratta (di cui all’art. 30 della legge n. 724 del 1994) delle risultanze di causa, il cui accertamento in fatto non contesta.
7.2. Al riguardo, richiamando sul punto Cass. n. 28080/2019 (in motivazione), osserva il Collegio che il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre esula dallo stesso l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, prospettabile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione e il cui esame, a differenza dalla censura per violazione di legge, è mediato dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass., ord., 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., ord., 30 aprile 2018, n. 10320; Cass., ord., 13 ottobre 2017, n. 24155). Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio
di diritto: quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto e quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata; mentre il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata, il vizio di falsa applicazione di legge consiste o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (cfr. Cass., ord., 14 gennaio 2019, n. 640; Cass. 26 settembre 2005, n. 18782). Fa, dunque, parte del sindacato di legittimità secondo il paradigma della «falsa applicazione di norme di diritto» il controllare se la fattispecie concreta (assunta così come ricostruita dal giudice di merito e, dunque, senza che si debba procedere ad una valutazione diretta a verificarne l’esattezza e meno che mai ad una diversa valutazione e ricostruzione o apprezzamento ricostruttivo) è stata ricondotta a ragione o a torto alla fattispecie giuridica astratta individuata dal giudice di merito come idonea a dettarne la disciplina oppure al contrario doveva essere ricondotta ad altra fattispecie giuridica oppure ancora era irriconducibile ad una fattispecie giuridica astratta, sì da non rilevare in iure, oppure ancora non è stata erroneamente ricondotta ad una certa fattispecie giuridica cui invece doveva esserlo, essendosi il giudice di merito rifiutato expressis verbis di farlo (così, Cass. 31 maggio 2018, n. 13747). Non è, quindi, affatto precluso al giudice di legittimità stabilire se il giudice di merito abbia correttamente sussunto sotto l’appropriata previsione
normativa i fatti da lui accertati – ferma restando l’insindacabilità di questi ultimi e l’impossibilità di ricostruirli in modo diverso – e l’errore eventualmente commesso non è un errore di accertamento, ma un errore di giudizio, consistente nello scegliere in modo non corretto quella, tra le tante norme dell’ordinamento, della quale deve farsi applicazione al caso concreto (cfr. Cass., ord. 18 gennaio 2018, n. 1106)».
7.3. In senso analogo, più recentemente Cass. n. 19651/2024, secondo cui «Il vizio di violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) per erronea sussunzione si distingue dalla carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, sottratta al sindacato di legittimità, perché postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso e la censura attiene, infatti, all’erronea ricognizione della fattispecie astratta normativa, senza contestare la valutazione delle risultanze di causa».
7.4. Con specifico riferimento alle società di comodo e alla presunzione relativa di non operatività di cui all’art. 30 della l. n. 724 del 1994, Cass. n. 13328/2023, in continuità con Cass. n. 6459/2023, ha ribadito il principio in base al quale «l’affermazione, da parte del giudice di merito, dell’idoneità o meno dei fatti accertati, ove incontroversi, ad integrare siffatta ipotesi può essere oggetto di sindacato in sede di legittimità, per vizio cd. di sussunzione, riconducibile al paradigma di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
Venendo, quindi, al merito della censura, deve preliminarmente osservarsi, in continuità con la giurisprudenza di questa Corre, che «la disciplina delineata dall’art. 30 della legge n. 724 del 1994 mira a disincentivare la costituzione di società «di comodo», ovvero il ricorso all’utilizzo dello schema societario per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi
commerciali (come quello, proprio delle società c.d. di mero godimento, dell’amministrazione dei patrimoni personali dei soci con risparmio fiscale)» (Cass. n. 13328/2023 e la giurisprudenza ivi richiamata).
8.1. «Il disfavore dell’ordinamento per tale incoerente impiego del modulo societario -ricavabile, oltre che dalla disciplina fiscale antielusiva, dal più generale divieto, desumibile dall’art. 2248 c.c., di regolare la comunione dei diritti reali con le norme in materia societaria – trova spiegazione nella distonia tra l’interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto di società è preordinato». (Cass. n. 4946/2021 richiamata anche da Cass. n. 13328/2024 cit.).
8.2. «La L. n. 724 del 1994, art. 30 ha, dunque, la finalità di contrastare la diffusione di società anomale, utilizzate quale involucro per il perseguimento di finalità estranee alla causa contrattuale, spesso prive di un vero e proprio scopo lucrativo e talvolta strutturalmente in perdita, al fine di eludere la disciplina tributaria» (Cass. n. 36365/2021, richiamata e citata anche da Cass. n. 1506/2022 e Cass. n. 13328/2024 cit.).
8.3. La predetta finalità è perseguita attraverso la fissazione di standard minimi di ricavi e proventi, correlati al valore di determinati beni aziendali, il cui mancato raggiungimento costituisce indice sintomatico del carattere non operativo della società (v., ex multis , Cass. n. 4850/2020, non massimata, citata da Cass. n. 4946/2021 e n. 13328/2024, citate).
8.4. Specifiche modalità di calcolo sono previste per la determinazione dell’imposta personale sul reddito (comma 3) e per l’imposta regionale sulle attività produttive (comma 3-bis).
8.5. Il mancato raggiungimento del ricavo figurativo emergente dal test di operatività è considerato dal legislatore sintomatico della
non operatività della società (cfr., ex multis , Cass. n. 4850/2020) e fonda quindi una presunzione legale relativa di non operatività, basata sulla massima di esperienza secondo cui, di regola, non vi è effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi (Cass. n. 6195/2017 e n. 13328/2024, cit.).
8.6. In tale prospettiva, l’art. 30 della legge n. 724 del 1994, nella versione ratione temporis vigente, prevede al comma 1, che le società ivi indicate « si considerano non operative se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano» applicando le percentuali previste dalla lettera da ‘a’ alla lettera ‘c’ della predetta disposizione, che consentono di effettuare il cd. test di operatività.
8.7. La parte contribuente può, tuttavia, superare detta presunzione adducendo prove contrarie idonee a superare le presunzioni di reddito minimo, per cui la possibilità di «prova contraria» alla presunzione di ricavi e di reddito è strettamente connessa a specifiche cause di inidoneità reddituale dei relativi elementi dell’attivo patrimoniale (così in Cass. n. 30762/2022). Al riguardo, il comma 4bis dell’art. 30, nella versione vigente ratione temporis, prevede che « in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto », la società interessata « può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 ». Con la specificazione che, rispetto alle precedenti formulazioni della norma, nel testo emendato dall’art. 1, comma 109, lett. h) , della legge n. 296 del 2006, sono state
soppresse le parole « di carattere straordinario » in riferimento alle « circostanze oggettive ».
8.8. Condividendo quanto affermato da Cass. n. 30762/2022, citata, la prova contraria offerta dal contribuente può riguardare sia il mancato raggiungimento della soglia di operatività, sia il reddito minimo presunto normativamente, ben potendo la società evidenziare le circostanze che hanno impedito il raggiungimento della soglia minima di componenti presuntivi e che, pertanto, giustificano la minore entità di componenti positivi dichiarati e risultanti dalla contabilità, nonché contestare le ulteriori presunzioni poste dalla normativa, indicando eventuali condizioni che hanno reso impossibile conseguire l’imponibile minimo (in tal senso, anche la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5/E del 2007).
8.9. Sempre in Cass. n. 30762/2022, si è quindi precisato che «L’abrogazione, da parte della legge finanziaria 2007, dell’inciso «salvo prova contraria» nel comma 1 dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 è volta, infatti, a chiarire la differenza intercorrente tra le cause di esclusione «automatiche» della disciplina (previste dal comma 1) e la prova contraria, basata sulle «condizioni oggettive» che il contribuente può far valere ai sensi del comma 4-bis richiamato. Ne consegue che ogni situazione in grado di giustificare la divergenza tra il quantum dichiarato dal contribuente ed il quantum determinato applicando i parametri di legge deve essere presa in considerazione al fine di verificare il superamento delle presunzioni di legge. La caratteristica di «oggettività» delle situazioni che il contribuente può far valere, nella ratio del comma 4-bis dell’art. 30, non ha, infatti, la funzione di distinguere tra cause esterne, che si impongono al soggetto, e cause che derivano (anche solo in parte) da libere determinazioni di quest’ultimo, ma quella di richiedere che quest’ultimo sia in grado di
dimostrare oggettivamente la non fittizietà di quanto dichiarato (Cass. sez. 5, n. 128621 del 2021)».
8.10. L’onere della prova contraria deve essere inteso non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato (Cass. n. 16204/2018, n. 4019/2019, n. 31626/2019, n. 10158/2020, n. 30762/2022, n. 13328/2024).
8.11. In conformità ai principi sopra enunciati , questa Corte ancorché con riguardo a periodo di imposta per il quale operava l’art. 30, comma 4-bis, della legge n. 724 del 1994, nel testo antecedente alle integrazioni introdotte dall’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 ha, inoltre, escluso che, attraverso il meccanismo della presunzione relativa e dell’onere della prova contraria gravante sul contribuente, si pervenga ad un mero sindacato di merito del giudice sulle scelte imprenditoriali, si pervenga ad un mero sindacato di merito del giudice sulle scelte imprenditoriali, rilevando che ‘In tema di società di comodo, non sussistono le oggettive situazioni di carattere straordinario, che rendono impossibile il superamento del test di operatività, ex art. 30, comma 4-bis, della L. n. 724 del 1994, nella versione all’epoca vigente, nell’ipotesi di totale assenza di pianificazione aziendale da parte degli organi gestori della società o di completa “inettitudine produttiva”, gravando sull’imprenditore, anche collettivo, – ai sensi dell’art. 2086, comma 2 c.c., come modificato dall’art. 375 c.c.i., in coerenza con l’art. 41 Cost. – l’obbligo di predisporre i mezzi di produzione nella prospettiva del raggiungimento del lucro obiettivo e della continuità aziendale. Sicché in tal caso, il sindacato del giudice non coinvolge le scelte di merito dell’imprenditore, attenendo alla verifica del corretto adempimento degli obblighi degli amministratori e dei sindaci, con riduzione dell’operatività della “business judgement rule”, sempre valutabile,
sotto il profilo tributario, per condotte platealmente antieconomiche.’ (Cass. 23/11/2021, n. 36365). Inoltre, con riferimento alla presunzione legale relativa di non operatività, l’onere probatorio può essere assolto non solo dimostrando che, nel caso concreto, l’esito quantitativo del test di operatività è erroneo o non ha la valenza sintomatica che gli ha attribuito il legislatore, giacché il livello inferiore dei ricavi è dipeso invece da situazioni oggettive che ne hanno impedito una maggior realizzazione; ma anche dando direttamente la prova proprio di quella circostanza che, nella sostanza, dal livello dei ricavi si dovrebbe presumere inesistente, ovvero dimostrando la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale, e dunque l’operatività reale della società (cfr. Cass. 24/02/2021, n. 4946, cit., in motivazione; Cass. 28/09/2021, n. 26219, in motivazione). In forza di queste considerazioni si è così affermato che la prova contraria da parte del contribuente deve risolversi nell’offerta di elementi di fatto consistenti in ‘situazioni oggettive di carattere straordinario’, ‘indipendenti dalla volontà del contribuente’, che rendano ‘impossibile conseguire il reddito presunto avuto riguardo alle effettive condizioni del mercato’ (Cass. 3/03/2023, n. 6459; Cass. 23/11/2021, n. 36365; Cass. 12/02/2019, n. 4019; Cass. 20/06/2018 n. 16204) e che, pertanto, facciano desumere ‘l’erroneità dell’esito quantitativo del test di operatività, ovvero la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale e, dunque, l’operatività reale della società’ (Cass. 23/05/2022, n. 16472)».
Così precisati, in diritto, i termini della questione, osserva il Collegio che il motivo di ricorso in esame è fondato limitatamente alla ripresa ai fini delle imposte dirette, nella specie IRES ed IRAP.
9.1. Invero, è evidente che le circostanze prese in considerazione dai giudici di appello sono bel lungi dall’integrare la prova, incombente sulla società contribuente, come sopra si è detto, della sussistenza di oggettive situazioni indipendenti dalla volontà del contribuente, che rendano impossibile conseguire il reddito presunto, ovviamente avuto riguardo alle effettive condizioni del mercato.
9.2. E’, quindi, condivisibile la tesi sostenuta dalla ricorrente secondo cui quelle circostanze – ovvero la crisi del mercato immobiliare, l’aver negoziato gli affitti degli immobili nella maniera più confacente possibile agli interessi della società, prevedendo anche clausole di revisione ‘al rialzo’ dei canoni di locazione, nonché le risultanze di uno ‘studio’ fatto da un architetto di parte – sono inidonee a fondare la valutazione di sussistenza dei presupposti per il superamento della detta presunzione. Innanzitutto, l’esistenza di una crisi del settore immobiliare andava dimostrata ed accertata non nella sua generalità ma in concreto, con riferimento allo specifico settore in cui operava la società contribuente e a tutte le altre specifiche condizioni del mercato in cui la stressa operava. E in tal senso andava anche valutato lo ‘studio’ effettuato dal perito di parte contribuente. In tale contesto, la scelta della società di negoziare a ribasso gli affitti degli immobili, con la previsione di clausole di revisione ‘al rialzo’ dei canoni, ha natura soggettiva, e come tale è, almeno potenzialmente, riconducibile ad una scelta dello stesso imprenditore.
A diversa conclusione deve pervenirsi con riferimento all’IVA.
10.1. Questa Corte (cfr. Cass. nn. 22249, 33386, 33390, 33424, 33427, 33437, 33439, 33441, 33443 e 33444 del 2024, nonché nn. 2585, 2752, 2755, 2757 e 2764 del 2025) si è recentemente occupata della disciplina delle società non operative (cd. ‘di comodo’) di cui all’art. 30 della legge n. 724 del 1994, a seguito dell’intervento in materia della Corte di giustizia UE, che con la sentenza C-341/22 del 7
marzo 2024, RAGIONE_SOCIALE Gregorio RAGIONE_SOCIALE/Agenzia delle entrate, emessa a seguito di rinvio pregiudiziale operato da questa Corte con l’ordinanza interlocutoria n. 16091/2022, ha affermato che « l’art. 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone » (p. 25) e che « l’art. 167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle » (p. 43).
10.2. Richiamando quanto affermato recentemente da Cass. n. 24442/2024, «la Corte unionale ritiene, in sostanza, che la qualità di soggetto passivo non sia subordinata alla condizione che una persona effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico superi una soglia di reddito previamente fissata, la quale corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone; ciò che rileva al riguardo è esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica; inoltre, la Corte di Giustizia ha ritenuto il richiamato art. 30 contrario all’art. 167 della direttiva IVA nella parte in cui prevede la perdita del credito IVA “in quanto nessuna disposizione della direttiva IVA
subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia”; va ricordato che secondo costante giurisprudenza del Giudice del Lussemburgo, il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA di cui sono debitori l’IVA dovuta o assolta a monte per i beni acquistati e per i servizi ricevuti costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA. Tale diritto, in presenza di tutte le condizioni previste, costituisce, quindi, parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni a meno che non sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che esso sia stato invocato in un contesto di frode o evasione; – in proposito è da evidenziare che, sebbene gli Stati membri, ai sensi dell’art. 273 della direttiva IVA, possano adottare misure di contrasto per assicurare l’esatta riscossione dell’IVA, tali misure non devono eccedere quanto necessario per conseguire tali obiettivi e non possono essere utilizzate in maniera tale da mettere in discussione il diritto alla detrazione dell’IVA. Nel caso di specie, la Corte dell’Unione ha ritenuto che il criterio della soglia dei ricavi, individuato dall’art. 30 in argomento, non si basi su una valutazione della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate nel corso di un determinato periodo d’imposta, ma solo sulla valutazione del loro volume. Tale criterio, quindi, non appare idoneo a dimostrare che il diritto alla detrazione dell’IVA sia stato invocato in modo fraudolento o abusivo».
10.3. Si è quindi pronunciato il seguente principio di diritto: «In materia di società non operative, alla stregua della pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE, sent. 7 marzo 2024 in causa C-341/22, RAGIONE_SOCIALE), l’art. 9, par. 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, va interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la
qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini di tale imposta il cui valore economico non raggiunga la soglia fissata da una normativa nazionale, che corrisponda ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale soggetto dispone, in quanto nessuna disposizione della direttiva subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia. Pertanto, ciò che rileva ai sensi dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 è esclusivamente il fatto che detto soggetto, in un determinato periodo d’imposta, abbia esercitato effettivamente un’attività economica, ponendosi detta disposizione in contrasto con l’art. 167 della direttiva IVA nella parte in cui, invece, prevede la perdita del diritto a detrazione al mancato raggiungimento di determinate soglie di ricavi».
10.4. In pratica, alla luce dei principi espressi dalla Corte di giustizia unionale, «l’art. 30 l. n. 724 del 1994 va disapplicato, non potendosi derivare la privazione del diritto di detrazione in mera dipendenza dell’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un abuso» (Cass. n. 24416/2024).
10.5. Pertanto, in tutti i casi sopra evidenziati, se non è ravvisabile una frode o un abuso messo in atto dal soggetto passivo , a tale soggetto non può essere negato il diritto alla detrazione, alla compensazione,
alla cessione dell’eccedenza di credito IVA e al rimborso, ricorrendone, però, i presupposti.
10.6. Sul punto, in Cass. n. 24416/2024 si è condivisibilmente affermato che «il diritto di detrazione» dell’IVA – ma lo stesso è a adirsi per gli altri diritti sopra enunciati – «va riconosciuto se:
nel corso del periodo d’imposta controverso, in relazione al quale l’autorità tributaria ha reputato la società non operativa, la stessa abbia effettivamente esercitato un’attività economica (indipendentemente dallo scopo o dai risultati), intesa come comprensiva di ogni attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi, per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità;
la società medesima abbia impiegato i beni e servizi acquistati per le sue operazioni soggette ad imposta, e ciò indipendentemente dai risultati delle attività economiche;
le operazioni non si inseriscano in una frode (connotata anche soggettivamente secondo il consolidato principio per cui la parte sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare ad una evasione) o non integrino, ai fini unionali, un abuso, inteso anche, come si esprime la sentenza della CGUE (v. par. 33-36), quale ‘realizzazione di una costruzione artificiosa’.
10.7. Con riferimento alla fattispecie in esame, deve rilevarsi che la ricorrente non ha mai dedotto, né in giudizio né nel provvedimento di diniego, il cui contenuto è riprodotto a pag. 3 del ricorso, l’insussistenza del presupposto di cui alla precedente lettera ‘a’ o la sussistenza di quello di cui alla lettera ‘c’.
10.8. Ne consegue, dunque, l’infondatezza del motivo di ricorso in esame, posto che, in presenza dei presupposti sopra indicati, ai fini della detrazione dell’IVA diventano irrilevanti le ragioni di non operatività della società contribuente.
In estrema sintesi, va accolto il quarto motivo di ricorso limitatamente alle imposte dirette, mentre va rigettato con riferimento all’IVA e vanno rigettati tutti gli altri motivi.
La sentenza impugnata va cassata con riferimento al motivo accolto e nei termini indicati in motivazione e la causa va rinviata alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia che provvederà anche alla regolamentazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il quarto motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione, rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai profili accolti e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2025.
La Presidente NOME–NOME COGNOME