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Società di comodo: prova contraria e i limiti all’IVA

Una società immobiliare, ritenuta ‘società di comodo’ per non aver raggiunto i ricavi minimi presunti, si è vista dare ragione solo in parte dalla Corte di Cassazione. Per le imposte dirette (IRES/IRAP), la Corte ha stabilito che la crisi del mercato e la rinegoziazione dei canoni non sono prove sufficienti a superare la presunzione. Tuttavia, per l’IVA, richiamando una sentenza della Corte di Giustizia UE, ha affermato che la normativa nazionale sulle società di comodo non può limitare il diritto alla detrazione, a meno che non sia provata una frode o un abuso.

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Pubblicato il 18 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Società di Comodo: La Prova Contraria e l’Impatto della Normativa UE sull’IVA

La disciplina delle società di comodo rappresenta da anni un terreno di scontro tra contribuenti e Amministrazione Finanziaria. Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione è tornata sul tema, offrendo chiarimenti cruciali sulla natura della prova che un’impresa deve fornire per non essere considerata “non operativa” e, soprattutto, sancendo l’impatto determinante del diritto dell’Unione Europea in materia di IVA. Analizziamo insieme questa importante pronuncia.

I Fatti del Caso: La Controversia Fiscale

Una società immobiliare si era vista recapitare un diniego dall’Agenzia Fiscale riguardo alla sua richiesta di disapplicazione della normativa antielusiva prevista per le società di comodo. La società sosteneva di non aver raggiunto la soglia minima di ricavi prescritti dalla legge per l’anno d’imposta 2012 a causa di “ragioni oggettive”.

Nei primi due gradi di giudizio, i giudici tributari avevano dato ragione alla società, ritenendo sufficienti le prove addotte: gli sforzi per ottimizzare i profitti, la locazione degli immobili a terzi (e non a soci o familiari) e la negoziazione dei canoni per adattarsi alla crisi del mercato immobiliare. A supporto, era stato presentato anche uno studio redatto da un architetto. L’Amministrazione Finanziaria, non condividendo la decisione, ha proposto ricorso in Cassazione.

La Decisione della Cassazione: Un Doppio Binario tra Imposte Dirette e IVA

La Corte Suprema ha analizzato i motivi del ricorso, arrivando a una decisione che distingue nettamente il trattamento ai fini delle imposte dirette (IRES e IRAP) da quello ai fini dell’IVA.

Le Società di Comodo e la Prova Contraria per IRES e IRAP

Per quanto riguarda le imposte dirette, la Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia Fiscale. I giudici hanno stabilito che le prove fornite dalla società non erano idonee a superare la presunzione legale di non operatività.

La Corte ha chiarito che, per vincere la presunzione, il contribuente deve dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive indipendenti dalla sua volontà che hanno reso impossibile il conseguimento del reddito minimo. Le circostanze addotte dalla società – la crisi generale del settore immobiliare, la negoziazione dei canoni a ribasso, seppur con clausole di revisione al rialzo – sono state considerate espressione di scelte imprenditoriali soggettive. Anche se comprensibili e finalizzate a limitare le perdite, queste decisioni non integrano quelle “condizioni oggettive” richieste dalla norma. L’onere della prova, in questo contesto, è molto rigoroso e non può essere soddisfatto semplicemente dimostrando di aver agito con diligenza imprenditoriale.

Le Società di Comodo e l’impatto del Diritto UE sull’IVA

La vera novità della pronuncia riguarda l’IVA. Su questo punto, la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria, basandosi su una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C-341/22).

I giudici hanno affermato che la normativa italiana sulle società di comodo (art. 30 della L. 724/1994) deve essere disapplicata quando entra in conflitto con i principi fondamentali della direttiva IVA. In particolare, il diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte è un pilastro del sistema comune e non può essere negato a un soggetto passivo solo perché non ha raggiunto una soglia di ricavi fissata a livello nazionale.

La Corte di Giustizia UE ha stabilito che la qualità di soggetto passivo IVA e il conseguente diritto alla detrazione dipendono dall’esercizio effettivo di un’attività economica, indipendentemente dal volume di affari generato. Negare tale diritto sulla base di un test di operatività nazionale è una misura sproporzionata, a meno che l’amministrazione non dimostri l’esistenza di una frode o di un abuso da parte del contribuente.

Le Motivazioni della Corte

Le motivazioni della Corte si fondano su un duplice binario interpretativo. Per le imposte dirette, prevale una lettura rigorosa della norma nazionale: la presunzione di non operatività può essere vinta solo da prove di impedimenti oggettivi ed esterni, non da scelte gestionali. La logica è quella di disincentivare l’uso dello schermo societario per finalità diverse da quelle produttive.

Per l’IVA, invece, la Corte applica il principio del primato del diritto europeo. La normativa italiana, che lega la detraibilità dell’IVA a un test di ricavi presunti, viene considerata in contrasto con la direttiva 2006/112/CE. Poiché l’Amministrazione Finanziaria non aveva contestato l’esistenza di un’attività economica reale, né aveva allegato una condotta fraudolenta o abusiva, la disciplina delle società di comodo non poteva essere utilizzata per negare il diritto alla detrazione dell’imposta.

Le Conclusioni

Questa ordinanza della Cassazione ha implicazioni pratiche significative. Per le imposte dirette, le società che non superano il test di operatività devono essere pronte a fornire una prova estremamente rigorosa, dimostrando cause di forza maggiore o altre circostanze oggettive che hanno impedito il raggiungimento dei ricavi presunti. Le normali difficoltà di mercato o le scelte di gestione, per quanto prudenti, non sono sufficienti. Per l’IVA, invece, il principio è ribaltato: finché una società svolge un’attività economica reale, anche se con ricavi bassi, il suo diritto alla detrazione è garantito dal diritto UE e non può essere limitato dalla normativa interna sulle società di comodo, salvo che l’Agenzia Fiscale non provi una frode o un abuso.

Che tipo di prova deve fornire una società per non essere considerata di comodo ai fini delle imposte dirette?
La società deve dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive, specifiche e indipendenti dalla propria volontà che hanno reso impossibile conseguire i ricavi minimi presunti. Non sono sufficienti prove generiche sulla crisi di mercato o la dimostrazione di aver compiuto scelte imprenditoriali diligenti, come la rinegoziazione dei canoni d’affitto.

La normativa italiana sulle società di comodo può limitare il diritto alla detrazione dell’IVA?
No. Secondo la Corte di Cassazione, che si conforma a una sentenza della Corte di Giustizia UE, la normativa nazionale sulle società di comodo deve essere disapplicata in materia di IVA. Il diritto alla detrazione dell’IVA non può essere negato a un’impresa che esercita un’effettiva attività economica solo perché non raggiunge una soglia di ricavi predeterminata, a meno che l’Amministrazione Finanziaria non dimostri l’esistenza di una frode o di un abuso.

È possibile impugnare subito il diniego di disapplicazione delle norme sulle società di comodo?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato il suo orientamento secondo cui il provvedimento con cui l’Amministrazione Finanziaria nega la disapplicazione delle norme antielusive, pur non essendo un atto impositivo classico, incide immediatamente sulla sfera giuridica del contribuente. Pertanto, quest’ultimo ha la facoltà (non l’onere) di impugnarlo immediatamente davanti al giudice tributario, senza dover attendere il successivo avviso di accertamento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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