Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 9582 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 9582 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 12/04/2025
Oggetto: società di comodo
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24481/2023 R.G. proposto da COGNOME difeso e rappresentato, giusta procura speciale in atti, tra loro in via anche disgiunta, dagli avvocati NOME COGNOMEcon indirizzo PEC: ) e NOME COGNOME (con indirizzo PEC: ) ed elettivamente domiciliato presso il secondo dei ridetti difensori
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore pro tempore rappresentata e difesa come per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato (con indirizzo PEC: )
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Veneto n. 444/07/2023 depositata in data 04/05/2023;
Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 27/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Lette le conclusioni del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
Rilevato che:
-l’odierno ricorrente, con atto autenticato il 23/7/2018 dal notaio NOME COGNOME di Castelfranco Veneto suo rep. 14993 -registrato a Montebelluna il 26/7/2018 al n. 5975 – si è reso cessionario del credito IVA vantato da RAGIONE_SOCIALE in liquidazione pari ad €. 50.000. Il credito della società era maturato nell’anno di imposta 2017, come risulta dal Mod. IVA presentato in data 9/4/2018 con prot. NUMERO_DOCUMENTO (il dato è rimasto incontestato lungo tutto il giudizio);
-il contribuente procedeva a presentare rituale istanza di rimborso dell’importo, che l’Ufficio negava;
-di qui la proposizione del ricorso originario del contribuente alla CTP, che lo rigettava;
-appellava il contribuente; la CGT di secondo grado con la sentenza qui impugnata ha confermato la statuizione di primo grado;
-ricorre a questa Corte il contribuente con due motivi di doglianza, poi illustrato con memoria;
-l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso;
Considerato che;
-il primo motivo denuncia ai sensi de ll’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è
stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione allo stato di liquidazione della società;
-il secondo motivo denuncia, ai sensi dell ‘art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 183 della direttiva del 28/11/2006 n. 112, in relazione in relazione agli artt. 2 comma 36 decies d.l. 138/2011 e 30 l. 724/1994, deducendo l’incompatibilità con la disciplina unionale e chiedendo rinvio ex art. 267 TFUE; nella memoria, attesa l’intervenuta decisione della Corte di giustizia, insiste per la cassazione della sentenza;
-il secondo motivo è fondato, con assorbimento del primo;
-sostiene l’odierno ricorrente -cessionario, di esser stato oggetto di ingiusto diniego di rimborso dell’IVA versata in quanto la società cedente il credito, RAGIONE_SOCIALE era società in perdita sistematica nel quinquennio 2012-2016, in quanto non è stato considerata la fondamentale circostanza che vedeva la società essere in stato di liquidazione dal 6/10/2015: al verificarsi della messa in liquidazione della società, infatti, l’intento elusivo (o abusivo) che la norma persegue è evidentemente, e per definizione, scongiurato; secondo parte ricorrente, poi, il limite temporale della richiesta di cancellazione dal registro delle imprese entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi successiva è del tutto irrazionale e contrario alla ratio della disciplina e, ciò che più conta ai fini del presente motivo, contrario ai principi di neutralità dell’iva e di proporzionalità della limitazione del diritto alla detrazione dell’iva di cui alla direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto;
-va infatti fatta applicazione della recente pronuncia del Giudice dell’Unione (CGUE, sentenza 7 marzo 2024 in causa C -341/22, RAGIONE_SOCIALE), secondo la quale l’art. 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone;
-ancora, l’art. 167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle;
-la Corte del Lussemburgo ritiene in sostanza che la qualità di soggetto passivo non sia subordinata alla condizione che una persona effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico superi una soglia di reddito previamente fissata, la quale corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone; ciò che rileva al riguardo è esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica;
-inoltre, la Corte di Giustizia ha ritenuto il richiamato art. 30 contrario all’art. 167 della direttiva IVA nella parte in cui
prevede la perdita del credito IVA “in quanto nessuna disposizione della direttiva IVA subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia”;
-va ricordato che secondo costante giurisprudenza del Giudice del Lussemburgo, il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA di cui sono debitori l’IVA dovuta o assolta a monte per i beni acquistati e per i servizi ricevuti costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA. Tale diritto, in presenza di tutte le condizioni previste, costituisce, quindi, parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni a meno che non sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che esso sia stato invocato in un contesto di frode o evasione;
-in proposito è da evidenziare che, sebbene gli Stati membri, ai sensi dell’art. 273 della direttiva IVA, possano adottare misure di contrasto per assicurare l’esatta riscossione dell’IVA, tali misure non devono eccedere quanto necessario per conseguire tali obiettivi e non possono essere utilizzate in maniera tale da mettere in discussione il diritto alla detrazione dell’IVA. Nel caso di specie, la Corte dell’Unione ha ritenuto che il criterio della soglia dei ricavi, individuato dall’art. 30 in argomento, non si basi su una valutazione della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate nel corso di un determinato periodo d’imposta, ma solo sulla valutazione del loro volume. Tale criterio, quindi, non appare idoneo a dimostrare che il diritto alla detrazione dell’IVA sia stato invocato in modo fraudolento o abusivo;
-ebbene nel presente caso proprio con riferimento alla mancata produzione di ricavi la sentenza di merito ha ritenuto tale elemento idoneo e sufficiente a escludere la soggettività iva in capo alla contribuente; così argomentando la sentenza impugnata risulta non conforme ai principi Unionali sopra riportati e va pertanto cassata;
-è stato, infine, precisato da Cass. n. 33424 del 2024 (conf. Cass. n. 33427 del 2024) che ««in tema di società non operative, anche alle società in perdita fiscale che, ai sensi dei commi 36 deciese e undecies, del d.L. n. 138 del 2011, introdotti in sede di conversione dalla legge n. 148 del 2011, vigente ratione temporis, sono equiparate a quelle di comodo di cui all’art. 30, commi 1 e 2, della legge n. 724 del 1994, va applicato il principio affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 7 marzo 2024 in causa C -341/22 (RAGIONE_SOCIALE), in base al quale l’art. 9, par. 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, va interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA – e quindi il diritto alla detrazione, alla compensazione, alla cessione dell’eccedenza di credito IVA e al rimborso, che non siano invocati in modo fraudolento o abusivo – al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini di tale imposta»;
-a lla luce dei principi su esposti, pertanto, l’art. 30 l. n. 724 del 1994 va disapplicato, non potendosi derivare la privazione del diritto di detrazione in mera dipendenza dell’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un abuso;
-alla luce degli stessi principi affermati dalla Corte unionale, pertanto, la sentenza va cassata per gli ulteriori accertamenti imposti in attuazione della citata decisione, rimesse al giudice nazionale, in ispecie per verificare se: a) nel corso del periodo d’imposta controverso, in relazione al quale l’autorità tributaria ha reputato la società non operativa, la stessa abbia effettivamente esercitato un’attività economica (indipendentemente dallo scopo o dai risultati), intesa come comprensiva di ogni attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi, per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità; b) la società medesima abbia impiegato i beni e servizi acquistati per le sue operazioni soggette ad imposta, e ciò indipendentemente dai risultati delle attività economiche; c) le operazioni non si inseriscano in una frode (connotata anche soggettivamente secondo il consolidato principio per cui la parte sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare ad una evasione) o non integrino, ai fini unionali, un abuso, inteso anche, come si esprime la sentenza della CGUE (v. par. 33-36), quale ‘realizzazione di una costruzione artificiosa’
-va sottolineato, sul punto, che non viene introdotto un nuovo ambito o tema di prova -il che non è compatibile, evidentemente, con la natura ‘chiusa’ del giudizio di rinvio (per tutte, Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 28976 del 18/10/2023) – ma, semplicemente, viene assolta l’esigenza del necessario accertamento della realtà concreta, la cui doverosità è diretta conseguenza ed applicazione della disciplina unionale e della sentenza della Corte di giustizia, accertamento che la disposizione in rilievo -e qui disapplicata -mirava, con una modalità incoerente e lesiva dei principi unionali, a far ritenere presunto. Né, del resto, si poneva, a monte dell’originaria
contestazione, la necessità di una ulteriore e specifica contestazione di carenza di effettività dell’attività economica ovvero di una frode e/o di un abuso posto che la ricorrenza degli indici contemplati dall’art. 30 della L. n. 724/1994 era idonea a fondare (sia pure illegittimamente) una presunzione in sé esaustiva dell’inconsistenza dell’attività economica perché apparente, in frode od artificiosa (Cass. n. 24416/2024);
-in conclusione, in accoglimento del secondo motivo, infondato il primo, la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese, alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado territorialmente competente in diversa composizione;
p.q.m.
accoglie il secondo motivo di ricorso; dichiara assorbito il primo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Veneto in diversa composizione che statuirà anche quanto alle spese del presente giudizio di Legittimità. Così deciso in Roma, il 27 marzo 2025.