Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 10063 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 10063 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14175/2022 R.G. proposto da :
CASALE DA NOME RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO sc. D int. 1 presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, elettivamente domiciliato in Roma INDIRIZZO
-controricorrente- per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 3/2022, depositata il 3 gennaio 2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 febbraio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
-Avverso l’atto di diniego al rimborso IVA 2016, n. 50318/0 del 7 giugno 2019, la società RAGIONE_SOCIALE proponeva un ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Napoli.
Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle entrate .
Con sentenza n. 7160, depositata il 20 ottobre 2020, la Commissione tributaria provinciale di Napoli rigettava il ricorso sul presupposto del mancato esercizio dell’attività di impresa.
-Avverso tale sentenza proponeva appello la società contribuente.
Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle entrate.
Con sentenza n. 3/2022, depositata il 3 gennaio 2022, la Commissione tributaria regionale della Campania ha rigettato l’appello con condanna della contribuente al pagamento delle spese.
-La società contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.
-Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380 -bis .1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione – art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. dell’art. 7 legge 212/2000, e art. 24 Cost. Secondo quanto prospettato, la società si lamenta del fatto che l’Agenzia delle entrate avrebbe operato una inammissibile integrazione dell’avviso di accertamento con le controdeduzioni depositate del secondo grado, precludendo l’esercizio del diritto di difesa.
1.1. -Il motivo è infondato.
Al di là del difetto di specificità della censura rispetto a quanto argomentato in relazione alle controdeduzioni in primo grado, va evidenziato che secondo la giurisprudenza di questa Corte, ove la controversia abbia ad oggetto l’impugnazione del rigetto di un’istanza di rimborso di un tributo avanzata dal contribuente, l’Amministrazione finanziaria può esercitare la facoltà di controdeduzione di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992 e, quindi, prospettare, senza che si determini vizio di ultrapetizione, argomentazioni giuridiche ulteriori rispetto a quelle che hanno formato la motivazione di rigetto della istanza in sede amministrativa, poiché, in tal caso, il contribuente assume la posizione sostanziale di attore, che deve fornire la prova della propria domanda, mentre l’Ufficio non ha esplicitato una “pretesa” (impugnata dal contribuente), quale l’avviso di accertamento o di liquidazione, o l’irrogazione di una sanzione (Cass., Sez. VI-5, 2 settembre 2022, n. 25999; Cass., Sez. V, 5 maggio 2010, n. 10797; Cass., Sez. V, 1 dicembre 2004, n. 22567; Cass., Sez. V, 14 luglio 2004, n. 13056).
Ne consegue che, non potendosi attribuire alla motivazione del provvedimento di rigetto (equivalente, peraltro, al cd. silenziorifiuto, del pari impugnabile) il carattere dell’esaustività, può ritenersi adeguata una motivazione del diniego che delinei gli aspetti essenziali delle ragioni del provvedimento, e che si fondi sull’insussistenza dei presupposti per il rimborso, richiamando altresì le norme di riferimento e gli eventuali provvedimenti adottati.
2. -Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione – art. 360 c.p.c., primo comma n. 3 e violazione della legge 724/1994 art. 30 primo periodo e comma 4 bis (società di comodo); e art. 2 comma 36-decies d.l. 138/11 conv. con modif.
nella legge 148/2011 (società in perdita sistematica); e della direttiva europea IVA 112/2006 totale travisamento della legge sulle società di comodo. Al riguardo, si censura la pronuncia della Commissione tributaria regionale nella parte in cui ha rilevato che la società non ha diritto al rimborso IVA in quanto società di comodo (e in perdita sistematica). Tale affermazione sarebbe dimostrata dal fatto che non ha dichiarato ricavi e, quindi, non avrebbe superato il test di operatività. La Commissione tributaria regionale, a sostegno della sua motivazione, adduce che l’imposta sul valore aggiunto è regolata dalle Direttive europee e dalla legge 724/1994. A dire della Commissione tributaria regionale, la Direttiva fornirebbe una definizione di impresa diversa da quella offerta dal nostro ordinamento. Per l’ordinamento europeo, semplicemente, l’IVA si applica sulle operazioni commerciali. La società ricorrente non avrebbe svolto operazioni commerciali (perché inattiva). Tale ricostruzione si porrebbe in contrasto con la normativa europea che afferma il principio della neutralità dell’imposta, violato dalla pronuncia impugnata; si evidenzia, altresì, che la ricorrente non è una società di comodo e non ha conseguito ricavi perché non poteva utilizzare i beni produttivi sottoposti a sequestro, rimanendo comunque attiva.
2.1. -Il motivo è fondato.
La censura intercetta la problematica della compatibilità unionale della disciplina nazionale sulle cd. società di comodo e sulla liceità del diniego del diritto di detrazione, oggetto della decisione della Corte di giustizia, a seguito di rinvio ex 267 TFUE da parte di questa Corte in un parallelo giudizio, con la sentenza 7 marzo 2024, RAGIONE_SOCIALE , C-341/22.
La Corte di giustizia ha fornito una risposta chiara e precisa evidenziando: 1) “l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva IVA deve
essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone” (par. 25) posto che per determinare la qualità di soggetto passivo rileva “esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica e… sfrutti un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità”; 2) “nessuna disposizione della direttiva IVA subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia” e, anzi, al contrario, “il diritto alla detrazione dell’IVA è garantito, purché ricorrano le condizioni richieste… indipendentemente dai risultati delle attività economiche del soggetto passivo interessato” (par. 31), fatta salva l’ipotesi in cui ricorra una frode o un abuso del diritto (come delineati dai par. da 33 a 36 della sentenza); 3) l’art. 30 della legge n. 724/1994 assolve alla funzione di disincentivare le evasioni e, a tal fine, si basa sulla presunzione per cui, quando l’importo delle operazioni effettuate a valle da una società in un determinato periodo d’imposta non raggiunge una soglia (calcolata applicando i criteri previsti dalla norma), la società non è operativa salvo che essa “non riesca a dimostrare che elementi oggettivi giustificano l’impossibilità di raggiungere la soglia” (par. 38), da cui l’impossibilità di esercitare il diritto di detrazione; 4) tuttavia, tale presunzione, si fonda “su un criterio, quello di una soglia di ricavi, che è estraneo a quelli richiesti ai fini della dimostrazione di un’evasione o di un abuso” poiché prescinde da una valutazione
“della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini IVA” ed è ancorata solo al parametro della “valutazione del volume” degli affari (par. 39), sicché essa “eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenire le evasioni e gli abusi” (par. 42).
Da tutto ciò, dunque, la Corte di giustizia ha derivato che “l’articolo 167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni In materia di società non operative, alla stregua della pronuncia della Corte di giustizia dell’Un ione europea (CGUE, 7 marzo 2024 in causa C-341/22, RAGIONE_SOCIALE ), l’art. 9, par. 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, va interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui o perazioni rilevanti ai fini di tale imposta il cui valore economico non raggiunga la soglia fissata da una normativa nazionale, che corrisponda ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale soggetto dispone, in quanto nessuna disposizione della direttiva subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia. Pertanto, ciò che rileva ai sensi dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 è esclusivamente il fatto che detto soggetto, in un determinato periodo d’imposta, ab bia esercitato effettivamente un’attività economica, ponendosi detta disposizione in contrasto con l’art. 167 della direttiva IVA nella parte in cui, invece, prevede la
perdita del diritto a detrazione al mancato raggiungimento di determinate soglie di ricavi (Cass., 11 settembre 2024, n. 24442).
Alla luce dei principi su esposti, pertanto, l’art. 30 l. n. 724 del 1994 va disapplicato, non potendosi derivare la privazione del diritto di detrazione in mera dipendenza dell’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un abuso (Cass., 6 agosto 2024, n. 22249; Cass., 11 settembre 2024, n. 24416).
Le censure vanno quindi accolte per le ulteriori verifiche imposte in attuazione della citata decisione, rimesse al giudice nazionale. La stessa Corte di giustizia, nella citata sentenza, ha rilevato che la normativa non è incompatibile perché mira a disincentivare l’evasione ma perché si fonda su una “supposizione”, ossia su una “presunzione” estranea alla disciplina IVA dovendo diritto di detrazione restare ancorato alla “realtà effettiva”.
Ne deriva che il diritto di detrazione va riconosciuto se: a) nel corso del periodo d’imposta controverso, in relazione al quale l’autorità tributaria ha reputato la società non operativa, la stessa abbia effettivamente esercitato un’attività economica (indipendentemente dallo scopo o dai risultati), intesa come comprensiva di ogni attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi, per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità; b) la società medesima abbia impiegato i beni e servizi acquistati per le sue operazioni soggette ad imposta, e ciò indipendentemente dai risultati delle attività economiche; c) le operazioni non si inseriscano in una frode (connotata anche soggettivamente secondo il consolidato principio per cui la parte sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare ad una evasione) o non integrino, ai fini unionali, un abuso, inteso anche quale realizzazione di una costruzione artificiosa (v. par. 33-36). Con
riguardo ai punti a) e b), inoltre, va sottolineato che la detrazione dell’imposta può spettare anche in assenza di operazioni attive, ossia con riguardo alle attività di carattere preparatorio, purché esse siano finalizzate alla costituzione delle condizioni d’inizio effettivo dell’attività tipica (v. Cass. 31 agosto 2022, n. 25635; Cass. 3 ottobre 2018, n. 23994).
Si tratta di un complesso di verifiche e valutazioni che non sono state operate dalla Commissione tributaria regionale, essendosi limitata a confermare la pronuncia di primo grado, secondo cui la società non aveva fornito alcun oggettivo riscontro in ordine allo svolgimento di una reale attività imprenditoriale, riconducendo tale conclusione all’assenza di ricavi, senza tenere alcun conto le specificità della situazione societaria e il provvedimento di sequestro cautelativo per abuso edilizio che aveva colpito l’immobile sede dell’attività di impresa, sicché, trattandosi di accertamenti di merito non esperibili in sede di legittimità, la sentenza va cassata per un nuovo esame.
3. -Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione – art. 360 c.p.c., comma 1, punto 3, – e violazione articolo 97 Cost. Parte ricorrente evidenzia che sin dal primo momento l’Agenzia delle entrate avrebbe inteso negare il rimborso IVA alla società ricorrente, come se la ritenesse ‘non meritevole’, probabilmente per ragioni sottese al sequestro cautelativo, non essendovi alcun impedimento giuridico, né fiscale né penale, al rimborso IVA e la pubblica amministrazione avrebbe dovuto attenersi alle regole del buon andamento e riconoscere il rimborso.
3.1. -Il motivo è inammissibile.
Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica
con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicché è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito (Cass., Sez. VI-2, 14 maggio 2018, n. 11603; Cass., Sez. VI-5, 22 settembre 2014, n. 19959).
Nel caso di specie, la censura in questione non solo appare del tutto generica ma si basa su mere supposizioni.
-La sentenza va dunque cassata, in relazione al secondo motivo, con rinvio, anche per le spese, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado territorialmente competente, in diversa composizione, per l’ulteriore esame alla luce dei principi affermati dalla Corte di giustizia.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo e dichiara inammissibile il terzo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione