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Società di comodo: impugnabile il diniego all’interpello

Una società immobiliare, classificata come ‘società di comodo’ a causa di bassi ricavi, ha contestato il rifiuto dell’autorità fiscale di disapplicare questo regime. La società ha sostenuto l’impossibilità oggettiva di generare reddito. La Corte di Cassazione ha confermato che il rifiuto a un’istanza di interpello è un atto impugnabile e ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’autorità fiscale nel merito, poiché costituiva una richiesta di rivalutazione di fatti già decisi dai tribunali di grado inferiore.

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Pubblicato il 5 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Società di comodo: il diniego all’interpello è sempre impugnabile

La disciplina delle società di comodo rappresenta da sempre un terreno di confronto tra Fisco e contribuente. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 19343/2024, ha ribadito due principi fondamentali a tutela del contribuente: l’immediata impugnabilità del diniego all’interpello per la disapplicazione di tale regime e i limiti del sindacato della stessa Corte sulla valutazione delle prove fornite dalla società.

Il caso: una società immobiliare in crisi oggettiva

Una società a responsabilità limitata, operante nel settore della locazione immobiliare, si è trovata in una situazione difficile. Dopo che i suoi quattro uffici principali sono stati liberati dal precedente locatario nel 2008, non è più riuscita a rimetterli a reddito. Nonostante avesse affidato incarichi a primarie agenzie immobiliari, gli immobili sono rimasti sfitti per anni, venendo venduti solo nel 2012.

Questa situazione ha portato a perdite d’esercizio consecutive nel 2009, 2010 e 2011, facendo scattare la presunzione di non operatività e la conseguente applicazione del regime fiscale penalizzante delle società di comodo. Per evitare ciò, la società ha presentato un’istanza di interpello all’Agenzia delle Entrate, chiedendo la disapplicazione della normativa per gli anni 2011-2012, proprio in virtù dell’oggettiva impossibilità di produrre reddito.

L’Agenzia delle Entrate ha rigettato l’istanza, e da qui è nato un contenzioso che, dopo due gradi di giudizio favorevoli alla società, è approdato in Cassazione.

L’impugnabilità del diniego all’interpello per le società di comodo

Il primo motivo di ricorso dell’Agenzia delle Entrate si basava su un punto procedurale cruciale: la risposta negativa a un’istanza di interpello è un atto autonomamente impugnabile? Secondo l’Amministrazione finanziaria, no. Si tratterebbe di un mero parere, non di un atto impositivo che contiene una pretesa tributaria definita.

La Corte di Cassazione ha respinto questa tesi, confermando un orientamento ormai consolidato. Sebbene l’elenco degli atti impugnabili (art. 19 del D.Lgs. 546/1992) sia tassativo, la giurisprudenza ammette l’impugnazione anche di atti non esplicitamente menzionati, a condizione che portino a conoscenza del contribuente una pretesa tributaria compiuta.

Il diniego alla disapplicazione del regime delle società di comodo rientra pienamente in questa categoria. Non è un semplice parere, ma il provvedimento con cui l’Amministrazione esprime il proprio convincimento definitivo su un rapporto tributario, incidendo direttamente sulla condotta del contribuente e ledendo i suoi diritti. Per questo motivo, la società aveva un interesse qualificato a insorgere immediatamente in giudizio.

La prova delle cause di forza maggiore e i limiti della Cassazione

Nel secondo motivo, l’Agenzia contestava il merito della decisione, sostenendo che la società non avesse fornito prove sufficienti a dimostrare l’esistenza di “situazioni di carattere straordinario” che avevano reso impossibile il conseguimento dei ricavi minimi. In particolare, contestava la valutazione della documentazione relativa agli incarichi di mediazione immobiliare.

Anche su questo punto, la Corte ha dato torto all’Agenzia, dichiarando il motivo inammissibile. La valutazione delle prove, come la corrispondenza con le agenzie immobiliari o l’analisi della situazione di mercato, costituisce una quaestio facti, ovvero un accertamento di fatto. Tale compito spetta esclusivamente ai giudici di merito (Commissione Tributaria Provinciale e Regionale). La Corte di Cassazione, invece, è giudice di legittimità: il suo ruolo è verificare la corretta applicazione delle norme di diritto, non riesaminare le prove per giungere a un diverso apprezzamento dei fatti. Poiché i giudici di primo e secondo grado avevano concordemente ritenuto provata l’oggettiva impossibilità, la Corte non poteva sostituire la propria valutazione alla loro.

Le motivazioni

La Suprema Corte ha motivato la sua decisione su due pilastri. In primo luogo, ha riaffermato l’orientamento, avallato anche dalle Sezioni Unite, che distingue tra interpelli meramente consultivi e quelli, come nel caso di specie, che definiscono una pretesa fiscale antielusiva. Il diniego in questi casi non è un atto preparatorio, ma un provvedimento che cristallizza la posizione del Fisco, legittimando la tutela giurisdizionale immediata del contribuente. In secondo luogo, ha ribadito il proprio ruolo di giudice di legittimità, sottolineando che un’indagine sulla sufficienza o l’idoneità delle prove presentate dal contribuente è un accertamento di fatto precluso in sede di Cassazione, a meno che non venga dedotto un vizio di motivazione, cosa che nel caso specifico non era avvenuta.

Le conclusioni

La sentenza consolida un importante principio di garanzia per il contribuente. Conferma che chi si vede negare la disapplicazione del regime delle società di comodo può adire subito il giudice tributario, senza dover attendere un futuro avviso di accertamento. Inoltre, chiarisce che una volta che il contribuente ha fornito ai giudici di merito prove adeguate a dimostrare l’impossibilità oggettiva di generare reddito, la valutazione di tali prove non può essere messa in discussione davanti alla Corte di Cassazione, se non per vizi procedurali specifici. Questo rafforza la certezza del diritto e il valore delle decisioni dei primi due gradi di giudizio.

Una risposta negativa a un’istanza di interpello per la disapplicazione del regime delle società di comodo è un atto che può essere impugnato in tribunale?
Sì, la Corte di Cassazione ha confermato che il diniego di disapplicazione delle norme antielusive, come quelle per le società di comodo, è un provvedimento autonomamente impugnabile perché contiene una ben individuata pretesa tributaria che lede i diritti del contribuente.

Cosa deve dimostrare una società per ottenere la disapplicazione del regime delle ‘società di comodo’?
La società deve provare l’esistenza di situazioni oggettive che hanno reso impossibile conseguire i ricavi minimi previsti dalla legge. Nel caso di specie, la società ha dimostrato di non essere riuscita a locare o vendere i propri immobili nonostante tentativi documentati affidati ad agenzie immobiliari.

La Corte di Cassazione può riesaminare le prove presentate dal contribuente per dimostrare l’impossibilità di generare reddito?
No, la valutazione delle prove è un ‘accertamento di fatto’ (quaestio facti) che spetta ai giudici di merito (primo e secondo grado). La Corte di Cassazione non può riesaminare le prove, ma solo verificare la corretta applicazione della legge, salvo specifici vizi di motivazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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