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Società di comodo e diritto al credito IVA: la Cassazione

Una società in fallimento, qualificata come società di comodo, ha impugnato tre avvisi di accertamento relativi a IRES, IRAP e IVA. La Corte di Cassazione ha rigettato i motivi riguardanti le imposte dirette, confermando la legittimità della qualifica di non operatività. Tuttavia, ha accolto il ricorso relativo al disconoscimento del credito IVA, stabilendo, in linea con la giurisprudenza UE, che lo status di società di comodo non fa venir meno la qualifica di soggetto passivo IVA né il conseguente diritto alla detrazione, compensazione o rimborso del credito, a patto che non vi siano intenti fraudolenti.

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Pubblicato il 23 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Società di comodo e diritto al credito IVA: la Cassazione fa chiarezza

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione interviene su un tema cruciale per molte imprese: la disciplina della società di comodo e le sue conseguenze fiscali, in particolare per quanto riguarda il diritto al credito IVA. La pronuncia stabilisce un importante punto di contatto tra la normativa nazionale e i principi del diritto europeo, offrendo una tutela fondamentale per i contribuenti.

I fatti di causa

Il caso riguarda una società a responsabilità limitata, operante nel settore delle energie rinnovabili, che è stata oggetto di controlli da parte dell’Agenzia delle Entrate. A seguito di una verifica, l’Amministrazione finanziaria ha qualificato la società come “non operativa” (o società di comodo) per il triennio 2009-2011, poiché non raggiungeva i ricavi minimi presunti dalla legge.

Di conseguenza, l’Agenzia ha emesso tre avvisi di accertamento:
1. Per il 2010, recuperando IRES e IRAP sulla base del reddito minimo imponibile.
2. Per il 2011, con le medesime contestazioni.
3. Per il 2013, disconoscendo un credito IVA derivante dall’anno 2011, ritenuto “perduto” a causa dell’applicazione della normativa sulle società non operative.

La società, nel frattempo dichiarata fallita, ha impugnato gli atti, dando inizio a un contenzioso che è giunto fino alla Suprema Corte.

Le motivazioni della Cassazione sui primi due motivi di ricorso

La Corte di Cassazione ha rigettato i primi due motivi di ricorso presentati dal fallimento, relativi agli accertamenti su IRES e IRAP. Il contribuente sosteneva la nullità degli atti perché basati su una verifica relativa all’anno 2009, ormai decaduta, e invocava l’applicazione di una normativa più favorevole (con un periodo di osservazione di cinque anni anziché tre) non ancora in vigore all’epoca dei fatti. La Corte ha chiarito che il principio di irretroattività delle norme tributarie impedisce l’applicazione di leggi successive e che l’annualità 2009 era stata usata solo come parametro per il “test di operatività”, senza che fosse emesso alcun accertamento per quell’anno.

Inoltre, la Corte ha respinto la tesi secondo cui lo stato di crisi o di liquidazione potesse giustificare automaticamente la disapplicazione della disciplina della società di comodo. I giudici hanno ribadito che il contribuente ha l’onere di fornire la prova rigorosa di “situazioni oggettive” che hanno impedito il raggiungimento dei ricavi presunti, prova che nel caso di specie non è stata ritenuta sufficiente.

La decisione sul diritto al credito IVA: un principio europeo

Il punto cruciale e innovativo della sentenza riguarda il terzo motivo di ricorso, che è stato accolto. La società lamentava il disconoscimento del credito IVA per il 2013. La Cassazione, allineandosi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (in particolare la sentenza Feudi San Gregorio), ha affermato un principio fondamentale: la qualifica di società di comodo non nega la qualità di soggetto passivo IVA.

Secondo la Suprema Corte, in base alla Direttiva IVA europea, un soggetto che effettua operazioni rilevanti ai fini IVA ha diritto alla detrazione, alla compensazione o al rimborso dell’eccedenza di credito. Questo diritto non può essere negato solo perché la società è considerata non operativa ai fini delle imposte dirette. Negare tale diritto violerebbe il principio di neutralità fiscale, che è un cardine del sistema IVA.

La Corte ha inoltre precisato che nemmeno l’omessa presentazione della dichiarazione IVA per l’anno di formazione del credito (il 2011) può, di per sé, precludere il diritto alla detrazione, a condizione che sussistano i requisiti sostanziali del credito e che non vi sia un intento fraudolento o abusivo.

Conclusioni

La decisione della Corte di Cassazione traccia una netta distinzione tra le conseguenze della qualifica di società di comodo ai fini delle imposte dirette (IRES e IRAP) e quelle ai fini IVA. Se da un lato la presunzione di non operatività resta uno strumento potente per l’Amministrazione finanziaria nel contrastare l’evasione sulle imposte sui redditi, dall’altro non può comprimere i diritti fondamentali del contribuente derivanti dalla normativa europea sull’IVA. La sentenza riafferma la prevalenza del diritto sostanziale (l’esistenza effettiva del credito) sugli adempimenti meramente formali (come la presentazione della dichiarazione), a tutela del principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto.

Una società di comodo perde il diritto a detrarre o a chiedere a rimborso il credito IVA?
No. Secondo la Corte di Cassazione, in linea con la giurisprudenza europea, la qualifica di società non operativa ai fini delle imposte dirette non fa venir meno la soggettività passiva IVA. Pertanto, il diritto alla detrazione, compensazione o rimborso del credito IVA è garantito, purché le operazioni siano reali e non vi sia intento fraudolento.

Lo stato di liquidazione di una società è sufficiente per disapplicare la normativa sulle società di comodo?
No, non automaticamente. La Corte ha ribadito che lo stato di liquidazione non esclude di per sé l’applicazione della disciplina, a meno che non si rispettino specifiche e rigorose condizioni previste dalla legge, come l’impegno alla cancellazione della società dal registro delle imprese entro un termine prestabilito.

L’omessa presentazione della dichiarazione IVA impedisce di recuperare il credito maturato in quell’anno?
No. La Corte ha chiarito che, sebbene la dichiarazione sia un adempimento formale importante, la sua omissione non può annullare il diritto sostanziale al credito, a condizione che il contribuente possa dimostrare l’effettività e la liceità delle operazioni che lo hanno generato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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