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Società di comodo e controllo automatizzato: i limiti

Una società contesta una cartella di pagamento emessa a seguito di controllo automatizzato per imposte non versate relative alla sua qualifica di “società di comodo”. L’azienda aveva dichiarato l’adeguamento al reddito minimo previsto dalla legge ma non aveva effettuato il versamento. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, stabilendo che il controllo automatizzato è legittimo in questi casi, poiché non si tratta di un accertamento presuntivo, ma della semplice verifica del mancato pagamento di un importo autodichiarato dal contribuente.

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Pubblicato il 10 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Società di comodo e controllo automatizzato: i limiti secondo la Cassazione

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 33231/2024 offre un importante chiarimento sui poteri dell’Amministrazione Finanziaria nei confronti di una società di comodo. In particolare, la Corte si è pronunciata sulla legittimità dell’utilizzo del controllo automatizzato (ex art. 36-bis D.P.R. 600/73) per il recupero di imposte non versate quando il contribuente si è spontaneamente adeguato al reddito minimo presunto. Approfondiamo la vicenda.

I Fatti di Causa

Una società di costruzioni, incorporante di un’altra società in liquidazione, ha impugnato una cartella di pagamento emessa a seguito di un controllo automatizzato. La pretesa del Fisco si fondava sul mancato versamento delle imposte derivanti dall’adeguamento al reddito minimo previsto per le società considerate “non operative” o “di comodo”, ai sensi dell’art. 30 della Legge n. 724/1994. In pratica, la società aveva indicato nella propria dichiarazione dei redditi l’intenzione di adeguarsi a tale reddito minimo, ma non aveva poi versato la relativa imposta. Sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale avevano respinto il ricorso della società, la quale ha quindi proposto ricorso per Cassazione.

I Motivi del Ricorso e l’Analisi della Cassazione

La società ricorrente ha basato la sua difesa su tre motivi principali, tutti rigettati dalla Suprema Corte.

Il Primo Motivo: L’omesso esame e la “doppia conforme”

La società lamentava un presunto errore di valutazione da parte dei giudici di merito. La Cassazione ha dichiarato questo motivo inammissibile applicando il principio della cosiddetta “doppia conforme”. Poiché sia il tribunale di primo grado che la corte d’appello avevano confermato la decisione sulla base delle stesse ragioni di fatto, alla Suprema Corte era precluso un riesame del merito della vicenda.

Il Secondo Motivo: La questione sull’onere della prova

Il contribuente sosteneva che l’Agenzia delle Entrate non avesse provato la fondatezza della sua pretesa. Anche questo motivo è stato giudicato inammissibile. La Corte ha chiarito che la violazione della norma sull’onere della prova (art. 2697 c.c.) si verifica solo se il giudice attribuisce tale onere alla parte sbagliata, non quando, secondo il ricorrente, valuta in modo inadeguato le prove prodotte.

Il Terzo Motivo: I limiti del controllo automatizzato per una società di comodo

Questo è il punto centrale della decisione. La società sosteneva che l’Amministrazione Finanziaria non potesse utilizzare la procedura di controllo automatizzato per accertare un reddito presunto, come quello delle società di comodo. L’accertamento di tale reddito, infatti, richiede valutazioni complesse che non possono essere svolte con una procedura meramente cartolare e informatica. La Corte, pur riconoscendo la validità di questo principio generale, ha ritenuto che non fosse applicabile al caso specifico.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso basandosi su una distinzione fondamentale. I giudici hanno chiarito che, sebbene sia vero che l’accertamento del reddito minimo presunto di una società di comodo non possa avvenire tramite controllo automatizzato, la situazione in esame era diversa.

Nel caso di specie, il controllo del Fisco non era finalizzato ad accertare presuntivamente un reddito non dichiarato, bensì a riscuotere un’imposta che la stessa società aveva autodichiarato come dovuta. Il contribuente, infatti, aveva manifestato nella propria dichiarazione dei redditi la volontà di adeguarsi al reddito minimo. Questa dichiarazione, secondo la Corte, non è una mera comunicazione di un fatto, ma assume un “carattere negoziale”: esprime una volontà che produce effetti giuridici vincolanti, determinando la base imponibile e l’entità del tributo. Di conseguenza, avendo la società scelto di adeguarsi, si era impegnata a versare l’imposta corrispondente.

Il mancato versamento di quanto dichiarato ha reso pienamente legittimo l’intervento dell’Agenzia delle Entrate tramite controllo automatizzato, la cui funzione è proprio quella di verificare la coerenza tra quanto dichiarato e quanto versato. Non si trattava, quindi, di un accertamento induttivo, ma di un recupero di un debito fiscale certo, liquido ed esigibile, scaturito dalla stessa volontà del contribuente.

Conclusioni

L’ordinanza stabilisce un principio chiaro: quando una società di comodo sceglie di adeguarsi spontaneamente al reddito minimo imponibile nella propria dichiarazione fiscale, tale scelta ha natura vincolante. Se a questa dichiarazione non segue il relativo versamento, l’Amministrazione Finanziaria è autorizzata a emettere una cartella di pagamento basata su un semplice controllo automatizzato. La procedura è legittima perché non mira a determinare un reddito presunto, ma a riscuotere un’imposta già definita e liquidata dal contribuente stesso.

Quando è legittimo un controllo automatizzato nei confronti di una società di comodo?
Secondo l’ordinanza, il controllo automatizzato è legittimo quando non ha lo scopo di accertare un reddito minimo presunto, ma si limita a verificare il mancato versamento di imposte che la società stessa ha dichiarato come dovute, dopo aver scelto volontariamente di adeguare il proprio reddito imponibile nella dichiarazione fiscale.

La dichiarazione di adeguamento al reddito minimo per una società di comodo è modificabile?
No, la Corte la considera un “atto negoziale” che produce effetti giuridici vincolanti. Non è una semplice dichiarazione di scienza e, pertanto, non può essere modificata successivamente, a meno che il contribuente non dimostri la sussistenza di un errore essenziale e obiettivamente riconoscibile, cosa che nel caso di specie non è avvenuta.

Cosa significa il principio della “doppia conforme” in un ricorso per Cassazione?
È un limite processuale che rende inammissibile il ricorso in Cassazione per motivi legati alla ricostruzione dei fatti quando sia il tribunale di primo grado sia la corte d’appello hanno emesso decisioni identiche, basate sulle medesime ragioni fattuali. In tali circostanze, non è possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare i fatti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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